JAPAN POST ONGAKU
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di Federico Savini

[nella foto: Kukan Gendai con la compagnia Kakuia Ohashi]

IN PRATICA siamo già alla seconda generazione e rischiavamo di perderci la prima. Lo scrivemmo già su BU#181, a proposito dei Kukan Gendai: se volete sapere quel che succede nel Giappone delle musiche underground di oggi, anche uno strumento potente come internet vi aiuta il giusto, a meno che non siate in grado di padroneggiare i caratteri kanji. Un problema linguistico quasi insormontabile, insomma, a cui si aggiunge il protezionismo del mercato musicale giapponese e la refrattarietà dei nipponici alla pratica del download. Ecco perché gli unici echi underground che giungono oggi dal Giappone sono legati alle solite 3-4 etichette occidentali che ancora importano, e di solito lo fanno puntando su quei pochi nomi e settori bene o male affermati (dai Boredoms ai Ghost, dall’ambient color pastello al pop elettronico più commestibile; da segnalare che Drag City ha finalmente scoperto la bravissima Eiko Ishibashi, di cui scrivemmo quasi tre anni fa, su BU#155).
È una situazione che diventa grottesca in casi limite come quello di Taku Unami. I pochi occidentali che lo conoscono, per i suoi lavori elettroacustici, lo credono un emulo estremista delle gesta silenti di Taku Sugimoto. Quasi nessuno sa che in realtà Unami ha una band “storica”, gli Hose, che fa una musica talmente melodica da risultare naif, mentre oggi collabora a formazioni che stanno a due passi dalla musica pop. L’etichetta degli Hose, la Headz/Unknownmix, non ha distribuzione occidentale ma pubblica da anni dischi originalissimi sul fronte del rock e del jazz più astrusamente innovativo. Oggi tocca al rock – vedi proprio i Kukan Gendai e i Goat (da non confondere con gli omonimi svedesi) -, ma si tratta solo dell’ultima evoluzione, la seconda generazione appunto, di una scena che qualche anno fa era decisamente più orientata a una revisione meccanica, concettuale e imprevedibile delle grammatiche del jazz. E che, non a caso, prendeva le mosse dall’onkyokei, l’involuzione più estrema fra tutte le anti-estetiche musicali. […]

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