La Tecnica pt.1
La Tecnica pt.1
di Luca Majer

Io provo per la luna la massima considerazione. Penso che Robert Graves fosse nel giusto quando disse che la cosa più blasfema mai successa da quando Alessandro tagliò il nodo gordiano fu metter piede sulla luna.
Orson Welles, Filming the Trial, University of California, 1981

I mistici esultano davanti al mistero e vogliono che resti misterioso. Gli scienziati esultano davanti al mistero per una differente ragione: dà loro qualcosa da fare.
Richard Dawkins, L’illusione di Dio, 2006

Per me le emozioni valgono meno del pensare.
Marvin Minsky, mentore della AGI (Artificial General Intelligence), 2013

“Il progresso tecnologico ci sta portando ad un inevitabile disastro. Potrà essere un disastro fisico (ad esempio qualche forma di disastro ambientale), o sarà un disastro in termini di dignità umana (riduzione della razza umana ad uno status disprezzato o servile). Ma il progresso tecnologico continuo condurrà ad un disastro di un tipo o dell’altro. Questo non è un pensiero da sbalestrati. Tra quelli impauriti dalle probabili conseguenze del progresso tecnologico ci sono Bill Joy, il cui articolo Perché il futuro non ha bisogno di noi è ormai famoso, Martin Rees, autore del libro “Il nostro secolo finale”, e Richard Posner, autore di “Catastrofe: rischio e risposta”. Nessuno dei tre, neppure sforzando l’immaginazione, può venir definito un radicale o uno alla ricerca di difetti nella struttura esistente della società: Posner è un giudice conservatore della Corte d’Appello Americana per il 9° circuito, Joy è un riconosciuto asso dell’informatica e Rees è Astronomer Royal of Britain. Gli ultimi due, avendo dedicato la loro vita alla tecnologia, è improbabile che sarebbero portati a temere la tecnologia se non avessero buone ragioni per farlo. Joy, Rees e Posner sono preoccupati principalmente del disastro fisico e della possibilità - o probabilità - che gli uomini vengano soppiantati dalle macchine. Il disastro che il progresso tecnologico implica per la dignità umana è stato invece discusso da uomini come Jacques Ellul e Lewis Mumford, i cui libri sono ampiamente letti e rispettati. Nessuno di loro viene neppure lontanamente considerato un emarginato dalla società.”

Così, nel preambolo di Technological Slavery (2010), Theodore Kaczynski mette in guardia contro il devastante impatto della Tecnica sull’uomo. Ted non ha potuto aggiungere molto a questi scritti - dal carcere speciale di Firenze (Colorado) dove si trova. Aveva due lauree (ad Harvard e Ann Arbor) e aveva insegnato a Berkeley. Ma l’eremitaggio in Montana, e 3 omicidi e 23 ferimenti, l’hanno trasformato nel Charlie Manson della Tecnica. Una figura dimostratasi utile per relegare in un inferno ideato dai tecnofili, insieme a lui, centinaia di onestissimi autori uccisi dalla lupara bianca del silenzio e dallo sfottò che colpisce la critica alla Tecnica. Quell’inferno popolato da cattolici scrittori “da combattimento” come George Bernanos, che già 74 anni fa - al motto “Dio non m’ha dato una penna per scherzare” - equiparava gli ‘esperti’ a veri imbecilli, incitava i francesi contro i robot e si scagliava contro un mondo futuro (puntualmente avveratosi) in cui “si metteranno sul lastrico dall’oggi al domani intere famiglie perché a migliaia di chilometri potrà essere prodotta la stessa cosa per due centesimi in meno alla tonnellata”. Un inferno, quello tecnofilo, popolato dai rispettabili nomi citati da Kaczynski, o, ad esempio, da quelli (Ivan Illich, Herbert Read, Arnold Gehlen) prediletti da uno dei pochi giornalisti tecnocritici e relativamente mainstream come Neil Postman. E vi son finiti dentro altri mille grandi e piccoli critici della febbre tecnica (Jean Bernard-Maugiron, John Henry, Günther Anders, Aaron Franz...) oltre ai tanti, anonimi Luddisti - un nome che oggi evoca ridicole vignette (o un’etichetta di vino sudafricano!) ma gente che - nel nome de “il Progresso della Tecnica” - finirono fucilati e impiccati per aver attaccato le macchine che riducevano la qualità. Il problema che affrontavano - assai profondo - è stato poi espresso con chiarezza da Postman in “Technopolis” (1992): “il mutamento tecnologico non è né additivo né sottrattivo. E’ ecologico”, cioè “un cambiamento significativo [che] genera un cambiamento totale”. […]

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