Lucio Battisti
Lucio battisti
Autore: Christian Zingales
 
PREZZO: 10,00€
Lucio Battisti

Lucio Battisti: Luci-Oh
Director's Cut #4 (ottobre 2016) • 145 pagine b/n • 10,00 euro

“Luci-oh” parla dello stupore, l’unico sentimento possibile davanti all’opera di Lucio Battisti. A cinquant’anni dagli esordi, a quasi venti dalla morte, è possibile oggi ammirare l’immensità del percorso e il totale del profilo, dai colori sentimentali del pop con Mogol all’incandescente bianco dell’ultra-pop con Pasquale Panella, e riconoscere il quadro perfetto di un disegno non solo artistico ma umano. La musica di Battisti analizzata disco per disco e canzone per canzone, con un’appendice dedicata al making of e alla trascrizione dell’ultima intervista, rilasciata da Lucio a Giorgio Fieschi e trasmessa dalla Rete 1 della Radio Svizzera Italiana il 18 maggio 1979.

Christian Zingales (Cantù, 1972) collabora a Blow Up dal 1998 e ha scritto diversi libri musicali, “Electronica” (2002), “House Music” (2005), “Italiani brava gente” (2008), “Battiato on the beach” (2010) e “Techno” (2011). Nel 2003 ha contribuito a “Rock e altre contaminazioni: 600 dischi fondamentali”, e nel 2009 ha curato, insieme a Stefano Isidoro Bianchi, “The Desert Island Records”.


[un estratto dal primo capitolo, “Il futuro di Battisti”]

     […] Ma pensare oggi Lucio Battisti significa pensare al futuro. Quando si parla del passato si tende a storicizzare e impegnare un bel “c’era una volta”. Parlando di Lucio, morto nel ’98 appena cinquantacinquenne, il discorso cambia. Sì, perché siamo davanti a un uomo che ha nel presente e soprattutto nel futuro il suo campo d’azione. Un italiano capace di magnificare e poi trascendere la sua italianità in un progressivo smarcamento dal sentimentale, prima rappresentato da una distanza e poi bruciato in una violenta astrazione. Un artista più vivo che mai. Vivo non solo perché le tantissime canzoni popolari del repertorio con Mogol sono ormai entrate nel DNA degli italiani e si tramandano di generazione in generazione. Battisti è un’istituzione per l’Italia ma è un nome sempre più citato anche all’estero. E il mito è alimentato da un fatto molto semplice: l’uomo è stato un artista rivoluzionario, un innovatore musicale, capace di sposare sperimentazione e genio pop, e di arrivare a milioni di ascoltatori con invenzioni molto più complesse di quanto la loro immediatezza potesse far pensare. Uno che ha sempre fatto del suo linguaggio popolare una terra delle meraviglie e all’apice del successo ha capito che per andare oltre gli rimaneva solo una chance: superare sé stesso. Per farlo gli è bastato andare incontro a sé stesso. Un imprevedibile spartiacque come “E già” e i cinque album con i testi di Pasquale Panella sono i dischi che portano la lezione di Battisti nel futuro. Lavori che devono ancora essere decifrati in tutta la loro bellezza, ai quali il tempo renderà totale giustizia. In Italia, ma soprattutto oltre, lontano galassie dall’Italietta. Il Battisti classico già ha maturato un riconoscimento planetario che siamo sicuri crescerà sempre più. David Bowie lo citava nei ‘70 come il suo italiano preferito, di recente è diventato un santino per francesi come i Daft Punk e Sebastien Tellier, un DJ visionario come Ricardo Villalobos suona nei suoi set molto freak un pezzo come La canzone della terra. Tutto questo oltre le barriere linguistiche. Del resto canzoni in inglese hanno cambiato la vita di moltitudini ad ogni latitudine senza il sine qua non della comprensione delle parole, e anche la canzone del nostro paese vestita di bel canto o di cosmopolitismo mediterraneo è arrivata dove doveva arrivare. Scommettiamo che Battisti sarà l’ariete nel momento in cui a un livello più alto l’arte del pop italiano farà breccia oltre i confini nazionali. Oltre il localismo esportabile del mediterraneo (categoria dove Battisti rientra al meglio, non come prodotto pop pronto da esplodere tra platee latinoamericane, ma come più raffinato culto della scena balearic), oltre il richiamo di genere del rare groove (settore dove Lucio è un punto di riferimento planetario), o l’efficacia di questa o quella canzone coverizzabile (e quante e quanto già trasversali le interpretazioni di interesse, dal Mick Ronson via Bowie di Music Is Lethal, resa di Io vorrei…non vorrei…ma se vuoi, alla Ancora tu della geniale meta-cover di Peter Gordon con Justine And The Victorian Punks, Still You, o di quella innamorata e in italiano di Roisin Murphy). Prima questo succederà in qualche culto più o meno alla moda, ma sarà un processo inarrestabile e via via capillare. E quando accadrà, determinante nel mettere in prospettiva il genio battistiano al di là delle barriere linguistiche sarà paradossalmente la fase panelliana, uno dei più grandi labirinti espressivi partoriti dal Novecento. Un attentato dinamitardo alla già vertiginosa dialettica che dilania la forma canzone, in sé disperato accordo tra due galassie apparentemente inavvicinabili come parole e musica. E se la malia radicale di quei dischi sta nell’impensabilità di testi e musiche le più altere e perfette, questi album arriveranno, con il loro senso violento e gentile, prima su un piano inconscio, e poi si studierà, arriverà il vaglio a raggi X, l’incredulità, tutto l’inebriarsi di cui hanno potuto godere già diversi italici che possiamo identificare antropologicamente non come superiori ma senz’altro migliori, e nel mondo tanti migliori verranno al cospetto della sfinge, e tremeranno di gioia davanti al grande teatro dello smantellamento emotivo, e sarà possibile ancora, se si vuole, chiamarle “emozioni”, e gli scopritori di questo tesoro saranno sulla traccia, più o meno inconsciamente, con traduzione a fronte o senza, estasiati davanti alla vertigine linguistica di un’opera che parrà come una sorta di corrispettivo sonoro de “L’Ulisse” di Joyce.
     L’errore però in cui è facile incappare è quello di non capire come il secondo periodo di Battisti sia la limpida risultante del primo, la sua prosecuzione naturale. Sì, perché se andiamo oltre la retorica, se ci buttiamo alle spalle banalizzazioni e karaokizzazioni, ed esploriamo gli album che la premiata ditta Battisti-Mogol ha sfornato dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli ’80 guardando da vicino le enormi intuizioni musicali e linguistiche del duo, capiamo che non c’è un Battisti popolare e uno d’avanguardia, ma che le due figure coincidono, e Lucio ha sempre percorso la stessa strada. Mogol non è stato solo l’autore di grandi rime ad effetto come “le discese ardite / e le risalite”, ma anche un più sfuggente e fine affabulatore linguistico, i suoi testi hanno brillato anche in momenti fascinosamente alteri. A dimostrarlo pezzi come Il nostro caro angelo o un album capolavoro come “Anima latina”, uscito nel 1974 e all’epoca contestatissimo. Ha fatto molto piacere vedere Pasquale Panella declamare in televisione i versi di Anonimo, uno dei pezzi di quel disco così alieno, come a riconoscere che prima di lui, già con Mogol, Battisti aveva sperimentato moduli linguistici diversi. Mogol non è riuscito a riconoscere l’altra verità, e cioè che l’opera di Battisti senza il contributo di Panella sarebbe rimasta tronca. Luminosa ma incompiuta. Forse è l’orgoglio a frenarlo, la pulsione a ricordare Battisti come qualcosa di privato e personale. O probabilmente è inutile crucciarsi, Panella è un avanguardista, uno che sa traslare le limitazioni borghesi con cui pure convive, Mogol è un borghese che di quelle ristrettezze ha fatto Impero con la maiuscola, ne ha fatto epica, a volte anche con la minuscola, e probabilmente non coglie proprio. […]


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