20 ESSENTIALS: Punk 1976-1977 - pt.1 Stati Uniti, Canada, Australia
20 ESSENTIALS: Punk 1976-1977 - pt.1 Stati Uniti, Canada, Australia
di Federico Guglielmi con Massimiliano Busti, Roberto Calabṛ, Eddy Ciĺa e Fabio Polvani

[nell'immagine: Darby Crash / Germs]

La storia è talmente nota che a raccontarla ancora una volta si rischia di passare per fessi, ma non si può farne a meno. Per quanto assurdo possa sembrare, qualcuno ancora crede che il punk sia stato inventato in Gran Bretagna dai Sex Pistols assieme al loro scaltro manager Malcolm McLaren. Beh, non è andata così; oltremanica sono stati bravissimi a promuoverlo e farne tendenza oltre che proficua impresa commerciale, ma il fenomeno ha preso piede e si è sviluppato negli Stati Uniti, con principali centri a New York e in California (Los Angeles e San Francisco) e con significative “succursali” a Cleveland, a Detroit e in altre città della Grande Provincia USA, senza dimenticare il vicino Canada (Toronto e Vancouver in primis). Discorso a parte per il rilevante panorama della lontana Australia, che pur cercando sbocchi (occasionalmente trovati) per lo più a Londra, ha sempre vissuto in un semi-isolamento non troppo dissimile da quello in cui operavano i ragazzotti dell’Ohio, dell’Indiana o del Michigan.
È stata proprio l’estensione del territorio a far sì che la “scena” nordamericana si evolvesse in modo peculiare, con alcune band - essenzialmente, quelle attive nell’area di New York - salite subito alla ribalta nazionale/internazionale e le altre conosciute soltanto su scala locale. La situazione sarebbe cambiata a partire dal 1978, ma nel periodo che si potrebbe definire “della semina” - l’oggetto di questo “20 Essentials” in due puntate: la seconda, focalizzata su UK ed Europa, potrete leggerla il mese prossimo - il punk a stelle e strisce (con le esperienze new wave parallelamente fiorite attorno al CBGB’s e al Max’s Kansas City, da Patti Smith ai Suicide fino ai Talking Heads) appariva, agli occhi degli appassionati del Vecchio Continente, una faccenda confinata nella Grande Mela. Più che logico: i newyorkesi di nascita o di adozione erano gli unici ad aver firmato contratti major, mentre tutti gli altri si autoproducevano o si appoggiavano a microetichette dalla distribuzione precaria. Nonostante al tempo i viaggi fossero avventurosi (e costosi), qualche musicista o aspirante tale “della periferia” aveva il fegato muoversi verso la Terra Promessa, ma appena giunto all’ombra dell’Empire State Building incontrava sulla sua strada lo snobismo dei colleghi autoctoni e la diffidenza dei gestori dei club devoti alla causa. Nessuno stupore, insomma, che in tanti preferissero limitare i sogni di gloria al loro circuito di appartenenza/residenza, mirando alla conquista di un piccolo seguito per poi, chissà, riuscire addirittura a realizzare un disco. […]

…segue per 16 pagine nel numero 209 di Blow Up, in edicola a Ottobre 2015 al costo di 6 euro

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