20 ESSENTIALS: Punk-Funk 1979-1983
20 ESSENTIALS: Punk-Funk 1979-1983
di Massimiliano Busti con Paolo Bertoni e Dionisio Capuano

[nell'immagine: The Pop Group, 1980]


Nel ristretto ambito della storiografia rock, aggiornata anno dopo anno dalla critica o dall’endemico revivalismo che talvolta riscopre e celebra dopo vari decenni musicisti assai trascurati se non addirittura ignorati in carriera, alcune manifestazioni trasversali della musica “popolare” possono essere pienamente comprese solo dopo un certo lasso di tempo, quando le bocce sono ferme e si ha modo di riavvolgere con calma i fili del discorso.
In questo senso la vicenda del punk-funk risulta assai emblematica, giacché al momento in cui prese forma - sul finire degli anni settanta, in un periodo contraddistinto dall’ansia nevrotica di rinnovamento e dall’apertura a nuovi linguaggi - nessuno ebbe piena consapevolezza che si trattasse di un fenomeno davvero omogeneo e catalizzante. La sua elevazione a rango di vero e proprio genere (o più propriamente sottogenere) musicale si deve quindi alla riscoperta postuma frutto dell’interesse di una giovane generazione di musicisti come Rapture, Liars, !!! e Radio 4, che all’alba del nuovo millennio - a vent’anni di distanza dagli eventi - ha individuato in quest’anomala commistione fra post-punk e musica nera la fonte principale della propria ispirazione.
In origine invece, nel momento in cui queste nuove intuizioni presero corpo, si trattava solo di un disordinato coacervo d’idee appena accennate, poste al margine di quell’insieme di suoni generati dal punk, dalla new wave e dall’industrial, così cupi, problematici, angosciati e angoscianti. Musiche “contro”, che ben rappresentavano l’essenza di un periodo in cui non era ancora il momento di concedere spazio alla (con)fusione fra i generi, poiché la propria identità veniva espressa in modo assai più credibile attraverso una chiara scelta di campo: di qua il travaglio dei duri e puri, l’astio generalizzato del punk, lo sguardo critico alle arti, la frenesia da danza macabra indotta dallo spettro del nucleare e delle catastrofi ambientali; di là il disimpegno della disco, la febbre del sabato sera, il riflusso sociale e politico, il riappropriarsi della sfera del “privato”, la volontà di neutralizzare nello spazio protetto della sala da ballo gli effetti della crisi economica, dei conflitti interni, del malessere giovanile. Fra i due estremi, sembrava non potesse esserci alcuna possibilità di contatto né di scambio: era tutto un guardarsi in cagnesco, vivere realtà separate, diffidare gli uni dagli altri, evitare ogni forma di contaminazione. […]


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