20 ESSENTIALS: Punk-Funk 2000-2009
20 ESSENTIALS: Punk-Funk 2000-2009
di Stefano I. Bianchi

[nell'immagine: James Murphy / LCD Soundsystem]

Qualcuno ricorderà l’Essential Punk-Funk 1979-1983 pubblicato su Blow Up #236; bene, adesso tocca alla seconda generazione del punk-funk, quella che rinnovò il linguaggio dell’indie-rock all’inizio del nuovo millennio e per qualche anno fu la sensazione alternative più interessante e seguita, anche perché capace come nessun’altra di attrarre l’attenzione dei media mainstream. Ricontestualizziamo tutto il discorso con un rapido rewind.
L’etichetta punk-funk – apparentata, limitrofa e talvolta sovrapponibile a mutant disco e di conio posteriore rispetto agli anni di riferimento – venne data a quei gruppi che, nati nella temperie punk-wave-nowave della seconda metà degli anni ’70, nel periodo immediatamente seguente declinarono la loro virulenza creativa puntandola al dancefloor. Non si trattò, come si potrebbe ipotizzare, di un fenomeno di riflusso dei settantasettini verso il disimpegno, come accaduto qualche anno prima all’ormai stanca ed esaurita generazione dei Sixties: c’erano stati avvenimenti di ordine strettamente musicologico prima che culturale o politico a contribuire alla ‘svolta dance’. Quello dei punk-wavers fu infatti un allargamento degli orizzonti compositivi ed esecutivi a tecniche e modelli inediti o inusuali in ambito rock, con la musica afroamericana di ultima generazione (la disco music) e quella giamaicana (il reggae e particolarmente il dub), a esercitare un ruolo determinante assieme alla disponibilità di strumentazione elettronica a basso costo, un elemento impensabile fino alla metà degli anni ‘70. Queste tecniche e questi modelli aprivano il varco verso suoni e mondi ancora tutti da esplorare e quindi attirarono la naturale curiosità dei musicisti ‘popular’ di estrazione underground (= economicamente poveri e artisticamente autodidatti) facendo sì che universi apparentemente inconciliabili come quelli del rock (la musica ‘suonata’, l’individualismo degli strumentisti, il machismo, l’impegno) e delle discoteche (la musica ‘artificiale’, la ricerca del successo, l’ambiguità sessuale, il disimpegno) si contaminassero a vicenda dando vita a un lifestyle ibrido, innovativo e dalle forti caratteristiche identitarie: i primi semi di quella che anni più tardi sarebbe stata chiamata club culture. Questa nuova maniera di intendere la musica ‘giovanile’ (fu a quel punto che ‘rock’ divenne una definizione limitativa e fuorviante) si diffuse a macchia d’olio nel sottobosco contrassegnando un sentimento di distanza tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ molto più radicale di quanto non fosse stato quello della generazione punk/wave rispetto a quella psycho/hard/progressiva precedente, entrambe ancora prigioniere di una gabbia ideologica dove il ‘purismo’ rockettaro dettava ancora legge. Per buona parte degli interpreti punk-funk dei primi ’80 invece la musica giovanile tornava ad essere pensata, scritta e suonata specificamente per ballare e abbracciava di nuovo quelle sovrastrutture sottoculturali che portava impresse nel DNA sin dalla nascita (dal rockabilly al r’n’r, dal rhythm’n’blues al beat) ma che erano state smarrite nelle sempre più complesse contaminazioni vissute tra la metà degli anni ’60 e la metà dei ’70 (la psichedelia, l’hard, il progressive). Il ballo adesso tornava ad avere una valenza naturale in sé e per sé, pura e individualista, liberatoria ed eccessiva, completamente disinibita rispetto a quelle costrizioni intellettuali che nel rock degli anni ’60 e ’70 ne avevano inquadrato le possibilità espressive all’interno di canoni e dentro contesti rigidamente prestabiliti. Beninteso, non si buttava a mare l’ideologia, tant’è che molti di quei gruppi erano militanti, taluni anche in forme convintamente estremistiche: la si riportava alla sua dimensione più anarcoide. La quale dimensione però, nel suo essere prepolitica, sarebbe presto scivolata in un confuso ribellismo dapprima apolitico e quindi impolitico; ma questa evidentemente, è un’altra storia. […]

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