ACCORDIONS GO CRAZY
ACCORDIONS GO CRAZY
di Roberto Municchi

“Non ascolto mai i nostri dischi: per me non hanno cuore... gli Accordions Go Crazy avrebbero sempre dovuto registrare tutto dal vivo comprese le voci.” Così, in un’intervista concessa poco più di un anno fa alla rivista Musiche, Dean Speadwell Brodrick liquidare l’esperienza discografica degli Accordions, sostenendo che l’eccessiva ricerca della perfezione formale andava a discapito dell’energia che si creava nei concerti.
Permettetemi di discordare, almeno in parte, con le dichiarazioni del buon Brodrick. Anche se, infatti, gli Accordions devono gran parte della loro “fama” alle torride performance live, ciò non significa che i loro tre studio-albums siano da buttare. Altrimenti dovremmo sorvolare anche sulle prove discografiche di Han Bennink e dei Ne Zhdali, dei Grateful Dead e di Sun Ra (tanto per citare i primi nomi che mi vengono in mente), nonché sulla maggior parte di gruppi di rock demenziale, di musica improvvisata, punk, ska... ovvero tutti quei particolari contesti in cui la compoonente visiva è di primaria importanza o, più sdemplicemente, l’ironia, il divertimento, l’energia sprigionati sul palco sono difficilmente trasferibili nel malefico dischetto. Brodrick permettendo, quindi, il sottoscritto cercherà di stuzzicare il vostro appetito affinché un gruppo così eccentrico non cada nel dimenticatoio.
“Accordions Go Crazy è una band di sei elementi formata nel 1985 dal fisarmonicista/pianista Mike Adcock. Il gruppo è caratterizzato dall’uso della fisarmonica quale vivace, fresco e divertente strumento. Occasionalmente ogni membro suona la fisarmonica, ma di solito la band prtesenta due o tre fisarmoniche integrate con combinazioni di basso, batteria, voci, violino, flauto, piano, tromba e trombone. La musica varia dalla dance al folk, al pop, alla sperimentazione. Come dance band gli Accordions presentano cajun twosteps, French Waltzes, Norwegian folk dances, rock’n’roll e materiale originale...” (dalle note di copertina di Overboard). Un vero Bignami delle Musiche del Mondo.
Gli Accordions si formano, dunque, nel 1985 su proposta di Mike Adcock, appassionato (e profondo intenditore) di musiche tradizionali, che amava trasferire tali ardori anche in un altro interessante progetto, i Poorboys (consigliatissimo l’albo omonimo per la Appaloosa che di questi tempi viaggia sui “forati” a prezzi ridicoli), gruppo dedito al blues elettrico, con tanto di chitarra slide, ibridato con tracce di tex-mex, rock’n’roll, zydeco...
Adcock raccoglie attorno a sé un organico di una dozzina di elementi che si riduce con l’andar del tempo fino ad arrivare al sestetto del disco d’esordio Overboard (Trikont 1988). Lo affiancano cinque musicisti di spessore con importanti trascorsi nelle musiche non allineate e una comune passione per la musica popolare: innanzitutto, in ordine rigorosamente alfabetico, Clive Bell (fisarmonica, flauto, khene e voce) per il quale vi rimando al reparto recensioni del numero due di Blow Up; il severo Dean S. Brodrick (voce, percussioni, fagotto e fisarmonica) mette al servizio della folle compagnia le sue indiscusse qualità di ascoltatore (Brian Wilson, Andy Partridge, John Lennon... tra le sue passioni) ed esecutore (Go Betweens, il giro Él, Orchestre Murphy, Frank Chickens... tra le sue collaborazioni) di classici della musica pop(olare) sotto forma di canzone; quindi una Nicola Hadley (fisarmonica, percussioni e voce) versione toccata e fuga, che abbandonerà dopo il disco di esordio; una Sylvia Hallett (fisarmonica, trombone, violino e voce), titolare anche di due ottimi albums in proprio nella prima metà del corrente decennio, che si divide tra Accordions, British Summertime Ends, composizioni per teatro e per balletto e collaborazioni varie; infine, Stuart Jones (fisarmonica, basso, tromba e voce), anch’esso nelle combriccole Kahondo Style e British S. E., un passato e un presente attraversando ogni sorta di genere musicale, dal rock al jazz, alla contemporanea.
Una compagnia ben assortita per un disco che mette in fila quattordici tracce (per tre quarti d’ora abbondanti) divise iniquamente tra originali e curiosi recuperi, con ampio spazio per l’elemento improvvisativo ma sempre fortemente inclinata sul lato danzereccio/festaiolo. In apertura, a mò di grimaldello, Symphony for massed bands nr 1, strumentale hallettiano dall’andatura reggaeggiante.
Poi una coppia di brani dalla penna di Adcock (Cotswold Twostep e Tango René), che ci offrono un ripasso di quei motivi, ormai familiari, riposti da qualche parte della nostra mente e sempre pronti a tornare alla luce; motivi ancora freschi e invitanti come la “prima volta”; Ed è qui che sta il classico marchio Accordions Go Crazy. Trascurabile invece il contributo di Brodrick (Halinka’s fall), troppo trattenuto in simile contesto.
Segue il magnifico solo di violino (della Hallett), doppiato da un’efficace improvvisazione vocale, che sfocia in un tradizionale bulgaro (Imalamayka), nel quale gli Accordions mostrano il loro lato più malinconico.
La prima cover è See My Baby Jane di Roy Wood, esplosivo pop d’annata (stile American Graffiti) buono sia per la danza che per la nostalgia. Quindi un Mike Adcock doc a tempo di valzer (The falcon waltz), un tradizionale rumeno (Ciorcilia ‘the lark’), una polka (Lebedik un Freilach) e un cajun (Colinda) alquanto sbarazzino. Un po' fuori dai canoni The Delta, dove si apprezza l’ottimo solo al piano di Adcock su un tappeto ritmico costante. Splendida. Sea Cruise, classico di Huey Smith, è un trascinante rock’n’roll; Diamond tongued, un esotico intermezzo e The third coming, un riassunto in cinque minuti e mezzo di tutto ciò che significa A. Go Crazy. Un disco genuino e trascinante, eccentrico e scoppiettante.
L’anno seguente tocca a Zombie Dancer (ancora su Trikont) il compito di far ballare i fans della simpatica congrega. L’arrivo della batterista/percussionista Ann Day (al posto della dimissionaria Nicola Hadley) non cambia di una virgola né attitudine né qualità della proposta. Anche il minutaggio è approssimativamente lo stesso dell’esordio, diviso però indodici brani, con Adcock ancora nella veste di maggior contribuente; consistentemente ridotti, rispetto ad Overboard, i recuperi da repertori altrui.
Il più clamoroso è proprio all’inizio: una I could never take the place of your man di Prince (vecchio pallino di Clive Bell) alquanto personalizzata dal buon Clive in fase di arrangiamento e nel contributo vocale (meno glam rispetto al geniale principino di Minneapolis) con prezioso controcanto della Hallett.
La festa continua con Kashgi, strumentale in perfetto stile Adcock sostenuto da un robusto giro di basso. The day the zombie danced the Cumbia, originale di Brodrick che sembra un tradizionale, arde di calore caraibico. Singolare Kvetcha, il cui andamento reggae presenta curiose e notevoli connessioni con Vacanze romane dei Matia Bazaar.
Dopo l’immancabile valzer (Westmorland), è la volta di He don’t want your love, uno degli apici della raccolta, che conferma l’ottima vena di compositore/cantante di pop-songs senza tempo da parte di Clive Bell (coloro che mandano gli Oasis in cima alle classifiche dovrebbero ascoltare, almeno una volta, simili delizie).
Interlocutoria Portuguese man of war, melodia popolare alquanto avvinazzata che ci riporta sui tipici territori della band. Staordinaria invece Dansez le zydeco di Wilfried Chavis, all’interno del quale viene inserito a bruciapelo un folgorante intermezzo rap condotto dalla Hallett. Talmente travolgente che rischia di far passare inosservata la classica aria popolare The new african waltz. Chiudono la triste Enemies, immersa in suggestioni “nere”, l’intermezzo The oar on the jetty e Southern cross, costruita su un irridente passo da parata militare. Leggermente più curato nei particolari, a discapito però di una certa freschezza, l’albo fa il paio con il precedente.
Stessa genuinità, stessa eccentricità, stessa ironia. Il passo successivo, The Art Of Paper Folding (Trikont 1991) è anche, allo stato attuale, l’ultimo parto della folle cricca. Per uno Stuart Jones che va (per dedicarsi ad altri lavori in corso), c’è una Ruth Bitelli che viene. La formula rimane sostanzialmente inalterata: dodici tracce contraddistinte dalla consueta alternanza tra covers ed originali.
Bastano un paio di brani verso l’inizio per misurare l’alta temperatura del lavoro: una divertente versione dell’ultraclassico Oh Susanna ridipinta con nuovi colori e una Heart of the glass dei Blondie in cui si percorre il tragitto inverso depistando l’ascoltatore verso un falso tradizionale e, soprattutto, sottraendole la rassicurante superficie pop, che torna a galla soltanto nella seconda metà della canzone.
In mezzo la nostalgia di Majunga Blues (jig), e di seguito la spassosa Chase the piggy, i tormentati aromi latini di Volver volver, le essenze esotiche cosparse su The tunisian twostep, Majunga Blues (waltz), l’onesto rock-blues Again e i rassicuranti aromi latini di Banana breadwalk, scorrono via senza particolari sobbalzi né inopportune cadute di tono.
Sul finale un tris di canzoni ai livelli (eclatanti) della parte iniziale: Fire in the ankles che, nella parte introduttiva ripresenta la Hallett alle prese con lo splendido solo violino/voce in simultanea magnificato alcune righe addietro, e due gioielli firmati da Clive Bell, un virtuosistico esercizio al khene (I am a bat) e la solita tenera dimostrazione di pop d’autore (Steal Below, straordinaria) per la quale valgono le stesse considerazioni fatte precedentemente a proposito di He don’t want your love. Un album che fa il tris perfetto con gli altri due.
Eh sì, perche il problema sta proprio qui: si giunge alla fine di una monografia e il lettore esigente vuole essere consigliato. Per una volta non costringetemi a scegliere. Grazie a dio, tra queste righe nessun capolavoro ma, altresì, tre album imperdibili. O meglio, un gruppo imperdibile. Comprate uno a caso dei loro tre albums e assaporatelo subito, da soli o in compagnia. Sono convinto che “Le Fisarmoniche Impazzite” faranno impazzire anche voi.

[pubblicato su Blow Up #5 di Marzo-Aprile-Maggio 1998)
© Tuttle Edizioni 2008
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