Algiers
Algiers
di Federico Guglielmi

[nell'immagine: gli Algiers, foto di Ebru Yildiz]


Da ormai un bel po’, nell’ambito di quello che per abitudine e comodità continuiamo a definire “rock”, a dominare è il riciclaggio più o meno pedissequo di formule sviluppate in precedenza, con pochi tentativi di dar vita a qualcosa di nuovo. Non mancano per fortuna le eccezioni alla regola e tra quelle emerse grossomodo nell’ultima decina d’anni le prime a venire in mente sono due, i londinesi black midi e gli Algiers da Atlanta, Georgia; band che, pur rivelando le loro ascendenze stilistiche, si impegnano con sorprendente naturalezza a rielaborarle in maniera creativa e coraggiosa, dando vita a musiche delle quali è difficile confutare, se non proprio l’originalità assoluta, quanto meno il forte carattere.
Affacciatisi alla ribalta nel 2015, con l’omonimo primo album edito - tre anni dopo il 45 giri Blood, marchiato dalla Double Phantom - da una label al di sopra di ogni sospetto quale la Matador, gli Algiers sono stati finora protagonisti di una vicenda di straordinaria caratura artistica, snodatasi attraverso altri due lavori di grande formato, “The Underside Of Power” del 2017 e “There Is No Year” del 2020. Dischi che, assieme all’ormai imminente “Shook”, documentano di un percorso coerente ma non del tutto lineare in cui post-punk, soul, gospel, hip/trip hop, blues, chitarre, elettroniche, testi “schierati” e molto altro si intrecciano senza forzature in un sound fisico e allo stesso tempo cerebrale, avvolto in atmosfere fosche che comunque non opprimono e prodigo di intense suggestioni. Gli artefici di questa magnetica, affascinante miscela sono da sempre lo sciamanico cantante Franklin James Fisher, il bassista Ryan Mahan, il chitarrista Lee Tesche - ma tutti armeggiano anche con tastiere e altro, dividendosi inoltre onori e oneri del songwriting - e, dal suo ingresso per i concerti promozionali di “Algiers”, il batterista Matt Tong, ex Bloc Party. Un quartetto coeso che, pur riconoscendo in Fisher e Mahan gli elementi di maggior spicco, opera in un clima di stimolo e rispetto reciproco, sulla base di una “visione” - più che di una “missione”, come affermano quanti vogliono metterne in primo piano il messaggio socio-politico - che è in qualche modo sintetizzata dalla scelta del nome: Algeri, città-emblema della lotta anticolonialista, che il frontman ha descritto come luogo in cui “convivono violenza, razzismo, resistenza e religione”. Un tema particolarmente sentito dall’afroamericano Fisher ma anche da Mahan e Tesche (entrambi bianchi), che essendo tutti cresciuti nel profondo sud degli States hanno avuto modo di toccare con mano la piaga della discriminazione e il clima malsano che genera. […]

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