Andrej Platonov
Andrej Platonov
di Maurizio Bianchini

Tu mi stai accanto – lontananza del socialismo
[Boris Pasternak, Le onde]

1.

Ho sperato che Verso le rovine di Čevengur – il testo che dà il titolo alla raccolta uscita da poco di Vasilij Golanov, in cui il saggista-viaggiatore insegue una Čevengur fisica sulle tracce di quella metafisica raccontata da Andrej Platonov – accendesse finalmente anche da noi le luci sull’ultimo genio letterario ancora misconosciuto del Novecento. Ma nemmeno le parole beneauguranti che aprono il saggio (“Il mistero del genio non si manifesta subito. Ha bisogno di una seconda nascita, e [che tutti] comprendano di avere accanto a sé il tesoro, il coagulo di vita, l’energia viva con cui salda i conti con l’umanità per il talento eccessivo a lui concesso. E così il genio viene al mondo per la seconda volta.”) hanno compiuto il miracolo. Con poche eccezioni (Il Dostoevskij della comunità di Andrea Tarabbia su tutte), Platonov resta in questo paese l’oggetto misterioso che nella Storia della Letteratura Russo-Sovietica di Ettore Lo Gatto, il testo di riferimento in materia, è confuso con altri omonimi. Ad uno dei quali, lo sconosciuto A. A. Platonov, vengono riferite le poche righe ‘di servizio’ spese per l’Andrej Platonov ‘giusto’: “un autore che al racconto sulla collettivizzazione delle campagne, A buon pro, ha aggiunto, dopo un periodo di silenzio, una serie di racconti pieni di partecipazione alle sofferenze altrui che rappresentano il vertice della sua arte indipendente”. Tutto qui. Ma Platonov si era già distinto, a Voronež, dove era nato, come ingegnere idraulico, giornalista e poeta; e a Mosca, dov’era approdato come autore di racconti (Le chiuse di Epifan’ o Il dubbioso Makar) destinati a fare di lui un punto fermo della letteratura proletaria più critica nei confronti della collettivizzazione forzata della terra, che avrebbe accollato alle campagne, dopo i secoli di ‘servitù della gleba’ sotto lo zar, anche i costi della Rivoluzione Operaia. E il ‘silenzio’ citato in quella nota en passant, quasi per sentito dire, non era stato scelto, ma imposto a Platonov per i suoi racconti eterodossi, quando invece della vita strappata ad altri autori, il potere sovietico gli aveva preso in pegno il figlio di 15 anni per spedirlo nel gulag da cui sarebbe riemerso pochi anni dopo per morire di tisi. E al posto dell’arte e dell’umanesimo socialista, lodati da Lukacs per il loro delineare “esseri vitali del nostro tempo: non personaggi ‘ideali’, privi di vita; non ‘aborti cartacei’, ma autentici ‘uomini con tutte le loro contraddizioni’”, non era stato consentito a Platonov di scrivere, nel poco tempo rimasto prima di morire, a 51 anni, che grami racconti d’un innocuo realismo minimalista (seppure lodato da Hemingway). Da essi era bandito – in quel percorso di guerra a cui si era ridotto raccontare il ‘comunismo in un paese solo’ – proprio ciò che rappresentava il suo assillo creativo: una narrazione alternativa capace di rivoltare da dentro, con intento di verità, il ‘quotidiano sovietico’ avvolto nell’edulcorata utopia con cui gli scrittori del regime nascondevano i drammi veri, le efferatezze, le carestie, le mattanze, le requisizioni forzate, i gulag. E ancor di più una prosa che portasse alla luce la frizione inconciliabile tra il modernismo meccanizzatore ostile al passato, esaltato in una pletora di romanzi muscolari, stakanovisti, ideologici, figli in provetta del gigantismo industriale e delle guerre contro i deviazionismi di destra e di sinistra da un lato e il millenarismo della Russia eterna che guardava all’Asia delle steppe, e parlava col suo silenzio rassegnato e ostile – “la Russia ferina, pulciosa, biologica, agglomerato di monasteri e di rancide isbe, dei tempi prima di Pietro” evocata da Ripellino e che popola Čevengur e Nel grande cantiere, i capolavori di Platonov che avrebbero potuto cambiare la storia delle letteratura del Novecento, non fossero stati chiusi a doppia mandata in un cassetto, mummificando così la letteratura russa del ’900, ben oltre la fine della stagnazione sovietica, in morti sottoprodotti narrativi. […]

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