Beloved
Beloved
di Christian Zingales

“Hello, hello, hello!”. Si apriva salutando un mondo nuovo “Happiness” dei Beloved. Un mondo nuovo che in Inghilterra si percepiva in pieno da un po’. Era il 1990 e un paio di anni prima era arrivata addirittura una seconda summer of love, scandita dai ritmi dell’house di Chicago e dal balearic beat che gli inglesi avevano scoperto a Ibiza nel 1987, un mix di tutto ciò che era possibile musicalmente per dare propulsione alla colonna sonora estatica. Tutto era appunto condito e compattato da una droga pure nuova, o meglio, non proprio da che l’MDMA venne sintetizzata nel 1912, ma di diffusione e uso allora recente. Nome di battaglia ecstasy. Improvvisamente le teste indie rapite da malinconie o fughe dark giravano in UK verso un sole carico di ottimismo amplificato anche da un allentamento del giogo thatcheriano, e gli hooligan usi a sfogare alcol e testosterone in ordinarie violenze di fine settimana li vedevi quasi mutati geneticamente: eccoli iniziare a dispensare abbracci nei club, carichi di una spinta fraterna verso il prossimo. Ma la nostra storia era iniziata in un altro mondo, in un’altra dimensione spaziotemporale, una Londra di qualche anno prima dove come sempre si costruivano sogni e mitologie. Una, di mitologia, venne perpetrata per anni dal leader dei Beloved. Che tutto fosse iniziato con un’inserzione di inizio ’80 che recitava così: “Sono Jon Marsh, membro fondatore dei Beloved. Se per caso desideri anche tu fare qualcosa di meraviglioso incontriamoci esattamente tra tre anni da Diana’s Diner a Covent Garden, dove c’è il prosciutto”. L’aneddoto è simpatico ma non è successo, come ammise Marsh a un certo punto, e però i sogni quelli sì si costruivano sul serio, dalle fondamenta. […]

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