Blues Magoos
Blues Magoos
Antonio Ciarletta

Quando si parla di BLUES MAGOOS viene in mente il giardino profumato della psichedelia primigenia. Furono tra i primi a identificarsi con il termine “psychedelic” e tra i più creativi a sfruttare il merchandising come strumento di promozione della propria immagine. Durarono poco e non sfornarono alcun capolavoro, ma il loro suono fu tra i più deraglianti della seconda metà degli anni Sessanta. È giunta l’ora di riparlarne.


PER LA SERIE RIAPPARIZIONI insperate e forse fuori tempo massimo di band mitiche, in rete si parla di un ritorno dei fabulous Blues Magoos a quarantuno anni dalla loro ultima uscita, ossia da quel “Gulf Coast Bound” che per molti era (ed è) un oggetto apocrifo oltre che sciagurato, come pure il precedente “Never Goin' Back To Georgia” - entrambi i dischi furono composti da incarnazioni diverse della formazione originaria. Si parla dei Blues Magoos a proposito di una nuova registrazione che dovrebbe chiamarsi “Psychedelic Resurrection” e che, si mormorava, sarebbe dovuta uscire entro la fine del 2012. E’ lo stesso Peppy Castro ad averlo dichiarato in un’intervista rilasciata qualche tempo fa, e rimbalzata su alcuni blog. Ad essere onesti una testimonianza di rinascita i Blues Magoos l’hanno già data. È del 2012, infatti, l’uscita per la Sundazed di “So I'm Wrong And You Are Right / Wild About My Lovin' / The People Had No Faces”, riedizione di un singolo uscito originariamente nel gennaio del ’66 per la Verve Folkways - quando ancora si chiamavano Bloos Magoos - che all’epoca passò del tutto inosservato. E visto che si torna a parlare di Blues Magoos al presente, quale occasione migliore per ripercorrere la storia di una delle formazioni più rispettate della primissima ondata psichedelica? E sì, i newyorkesi nacquero quando il rock era ancora nella sua fase adolescenziale ma ebbero a dare il meglio nel momento topico del passaggio all’età adulta. Durarono poco e per decenni si trovarono ad essere rimasticati dall’oblio della memoria, anche se a dirla tutta in un passato piuttosto recente qualcuno ha avuto modo di riesumarli. Appassionato di garage psichedelico degli anni Sessanta prim’ancora che musicista, Jon Weiss dei revivalisti Vipers li assoldò nel Duemila - udite udite: con Peppy Castro e Ralph Scala insieme dopo ben tre decadi - per il suo Cavestomp Festival di New York, manifestazione dedicata interamente al garage rock. A seguito di quell’apparizione, a parte un’altra reunion nel 2008 comprendente il batterista originale Geoff Danking, nulla accadde in termini di uscite discografiche, al punto che il loro culto ha continuato a prosperare soprattutto nei circoli ristretti delle subculture garage e neopsichedeliche, un po’ quanto successo ai Count Five. Ecco, entrambe le formazioni non hanno mai raggiunto lo status dei 13Floor Elevators, dei Seeds o, tanto per dire, degli Electric Prunes. Questi ultimi hanno obiettivamente inciso di più sul suono e sull’immaginario delle generazioni successive e, in fin dei conti, hanno composto canzoni migliori. Ma cosa tiene insieme i suddetti nomi? Semplicemente una delle pietre angolari dell’intera storia del rock, il parto urticante-lisergico per eccellenza, quella colorata epifania psichedelica chiamata “Nuggets: Original Artyfacts From The First Psychedelic Era 1965–1968”, compilazione monstre approntata da Jack Holzman della Elektra e Lenny Kaye per omaggiare quella generazione psychedelic garage degli anni Sessanta, che il ’67 fece spintaneamente avviare verso il viale del tramonto, e che poi venne superata a sinistra da una stirpe di nuovi e più feroci animali proto punk come Stooges ed MC5. […]


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