Bob Mould & Grant Hart
Bob Mould & Grant Hart
Roberto Curti

“Silver Age”, il nuovo lavoro di BOB MOULD, è fresco di stampa. GRANT HART ha pronto un doppio concept album, “The Argument”. Nel frattempo è in preparazione “Every Everything”, un documentario sulla vita e la carriera dell’ex batterista degli indimenticabili Hüsker Dü. Quale migliore occasione per fare il punto sulle carriere soliste di entrambi?


Intro: No Reservations
Fino a un paio d’anni fa, il gourmet che si trovasse a passare dalle parti di Red Wing, Minnesota all’ora di pranzo o cena poteva contare sul Nortons’ Downtown & Lucky Cat Lounge. Con una lista dei vini premiata per quattro anni filati con l’Award of Excellence dal “Wine Spectator”, il Nortons’ Restaurant si presentava come un posticino per intenditori, o comunque mirato a una clientela stanca dei soliti hamburger e pollo fritto. In quanto alla cucina, il sito del ristorante la descriveva come «modern American with international influences», il che spiegava la presenza nel menu degli “spaghetti bolognese” e di tale “bresoasa” (cito: «thin sliced Italian air cured beef, snow peas, crispy onions, walnut-gorgonzola spread, balsamic glaze»). Non era certo il corrispettivo Usa di Massimo Bottura o Paolo Lopriore, ma da quando – era il 1991 – aveva appeso il basso al chiodo (chiudendo l’avventura dei Grey Area: molte date live e nessuna uscita discografica ufficiale) prendendo in mano pentole e pignatte, Gregory James Norton si era saputo ritagliare uno spazio di tutto rispetto dietro ai fornelli.
Purtroppo nel 2011 il Nortons’ Restaurant ha chiuso i battenti, strangolato dalla crisi economica e dalle tante esiziali catene di fast food. Oggi Greg Norton fa il rappresentante di vini, e nel tempo libero si diverte con la sua nuova band, Gang Font feat. Interloper, ma probabilmente se la cava meglio a preparare una bisque. Sfoggia ancora con orgoglio i baffoni da moschettiere, e ha messo su qualche chilo. Questa non è la sua storia, ma mi piaceva l’idea di iniziare con lui, quello che nelle foto e sui dischi si faceva notare più per il baffo che per altro, e che al baffo come segno di esistenza si aggrappava come un personaggio di Emmanuel Carrère. Quello che oggi si lascia volentieri sprofondare nel dimenticatoio, senza dubbio conscio dell’ironia d’aver fatto parte di un gruppo il cui nome era un invito a ricordare.


1988: Never Talking To You Again
«Un giorno, di punto in bianco, mentre stavamo lavorando a “Warehouse”, Mould mi dice: “Non finiremo questa tua canzone e neppure quell’altra, perché altrimenti saremmo pari, e nell’album ci sarebbero dieci canzoni mie e dieci tue. E questo non accadrà mai. Non in questo gruppo» (Grant Hart). [1]
«Gli Hüsker Dü erano come un treno a tutta velocità in salita e in discesa, e nessuno poteva avvicinarsi o sarebbe stato investito. Alcune persone volevano essere il conducente e altre tiravano i freni. Quando finalmente è arrivato a valle e ha rallentato, Bob è saltato giù. Bob ha lasciato il treno… ed è stata la cosa migliore che io abbia mai fatto» (Bob Mould).[2]
Per i giornali, era solo una questione di eroina, che il batterista aveva iniziato a usare dopo il tour di Candy Apple Grey, diventandone schiavo. Ma in un gruppo che negli anni aveva consumato quantità industriali di metamfetamine, LSD e altre prelibatezze, il problema non era quello che scorreva nelle vene dei componenti, ma quanto si ammassava nelle loro teste. Ancora oggi, a leggere le interviste recenti di Grant Hart, emerge una sorda rabbia, un risentimento distillato negli anni, covato e pronto a riavvampare, un mai sopito complesso di inferiorità nei confronti del frontman che lui avrebbe voluto essere. Negli Hüsker Dü, Hart era il batterista scalzo e capellone, «the wild one» come l’aveva apostrofato Joan Rivers in una celebre apparizione tv in uno studio agghindato come il set del photoshoot di “Warehouse”, con i due galli della band che già si guardavano in cagnesco e il baffuto Norton che aveva senza volerlo aggravato la situazione componendo la sua prima canzone per la band (l’insulsa Everytime, piazzata a limitare i danni sul retro di Could You Be the One?), e consentendo a Mould di dire che «tutti e tre componiamo» quando fino a quel momento il chitarrista aveva accuratamente sottovalutato l’apporto compositivo di Hart al gruppo. […]


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