Bret Easton Ellis
Bret Easton Ellis
di Maurizio Bianchini

1.
Tra l’estate e l’autunno del 1985, ho avuto la ventura di girare per cinquanta giorni gli Stati Uniti, raccogliendo materiale per un programma RAI sul cinema, la musica, la letteratura, i media, la tv, la cultura e lo stile di vita di quello che era ancora, seppure in declino, il Luminoso Faro della Civiltà Occidentale. La tv inglese e quella francese avevano aperto quel filone, e non ci pareva vero di poterne seguirne l’onda. Registrammo ore ed ore di musica; intervistammo un sacco di personaggi, emergenti o in cima alla catena alimentare, nel cinema, nella musica, nel giornalismo, nella comunicazione, nella letteratura; a New York, Chicago, Memphis, San Francisco, Los Angeles, Nashville, New Orleans, Austin, Dallas, Las Vegas. Alla fine non se ne fece nulla. Sul materiale registrato furono addirittura riregistrate le previsioni meteo. Ricordo che a Los Angeles ci siamo imbattuti in uno di quei madness collettivi, che preludono, o seguono, il successo di un disco, un film o uno spettacolo. In quel caso, del romanzo di un autore esordiente, poco più che ventenne, di cui eravamo tutti (anche gli autoctoni) all’oscuro. Lui si chiamava Bret Easton Ellis; il libro si intitolava Less Than Zero. La defunta Rai Corporation aveva trovato il modo di imbucarci nella presentazione per il suo lancio, al Viper Room, se non ricordo male, uno dei locali storici in cui si svolge quasi per intero la ‘vita culturale’ della Città del Cinema. C’era la fila fuori, nonostante fosse una serata ad inviti. E una volta nella bolgia ho il vago ricordo di essere stato presentato all’esordiente ribattezzato da un giornale locale ‘il Rimbaud di Mulholland’ (dov’è la casa diClay, il protagonista del romanzo modellato sull’autore). E qui finisce il ricordo. Forse Bret – ci si dà sempre del tu ai party – mi firmò la copia del libro, preso dalla montagna a disposizione degli ospiti, una cosa molto losangelina; di certo fui spinto di lato e mi ritrovai a parlare col giornalista che mi accompagnava. C’era la musica a palla, in sottofondo (veniva dagli album delle 22 band citate nel romanzo, avrei scoperto poi); un’aspra nebbia da fumo di sigarette; coctkail da affogarci un Falstaff; gente che oscillava tra un’ebetudine instabile e l’ubriachezza molesta; file epocali alle toilette per orinare senza sniffare. E visto che l’accompagnatore conosceva tutti e soffriva a seguire me, decisi di tornare in albergo, lo Chateau Marmont in cui si diceva che andassero le stelle del cinema che preferivano non essere notate – e noi invece eravamo approdati in omaggio a John Belushi – per leggere in pace qualche pagina del libro. Ma non era destino: smisi di farlo quasi subito: era come finire in un party immaginario dopo essere appena usciti da uno vero. Ma era anche, me ne rendo conto solo oggi, aver avuto davanti agli occhi l’essenza profonda di Less Than Zeroe non averla colta. Ci sono voluti poco meno di quarant’anni, dalla sua uscita nel 1985, perché lo leggessi finalmente da cima a fondo, prima di passare al prequel de Le schegge. Così Less Than Zero mi si è aperto davanti come un romanzo che, non meno del Grande Gatsby e di Fiesta, parlando di sé parla del suo tempo, in presa diretta. Non con la stessa prosa inimitabile del Papa o di Fitzgerald, ma solo perché le diverse narrazioni prendono in carico Americhe diverse. […]

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