Built To Spill
Built To Spill
di Fabio Polvani

ELEGIE BEATLESIANE, smarrimenti e introspezioni alla Neil Young prima di tutto. Ma anche microcosmi pinkfloydiani più o meno espansi. In generale, amore per la psichedelia dei Sessanta e per il rock chitarristico dei Settanta. Date simili caratteristiche, com’è possibile che i Built To Spill siano considerati a tutti gli effetti uno dei gruppi fondamentali dell’indie rock americano? Come se non bastasse, a rincarare la dose potremmo aggiungere anche che la maggior parte della loro esistenza l’hanno passata a incidere per una major discografica.
Volessimo però elaborare una strategia difensiva, gli esperti ci consiglierebbero di non estrapolare gli elementi dal contesto. Un contesto generale che in quei primi anni ’90 vedeva il cosiddetto indie rock spinto verso due direzioni: rientrare dentro i sicuri ranghi dei campus universitari (o addirittura dentro quelli ancora più protettivi della cameretta di casa), o aprirsi al mondo dopo che il successo del grunge aveva dato l’impressione che il mondo stesso fosse pronto a un nuovo approccio musicale. Le pregiudiziali nei confronti delle major oltretutto, sotto sotto non sembravano più insormontabili: lo stesso concetto stilistico di indie rock si stava sedimentando indipendentemente dall’intervento massiccio della grande industria discografica. A meno che non si voglia vedere la situazione da un fortino ideologico fugaziano, prima i Replacements e gli Husker Du (magari anche i R.E.M.), poi i Nirvana e i Sonic Youth, nonostante il salto della barricata, continueranno a vestire i panni di paladini del rock alternativo. […]

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