Can
Can
di Christian Zingales

Godzilla Vs The World
Fu Jaki ad avallare l’acronimo intercettato sulla stampa inglese e dire, sì, Can significa comunismo, anarchia, nichilismo. In realtà la ragione sociale era stata proposta dal primo cantante, Malcolm Mooney, che l’aveva suggerita per il significato positivo del termine in varie lingue: in turco vuol dire anima, ma anche spirito e vita, in inglese potere nel senso di poter fare-essere in grado di, in giapponese è il corrispettivo di feeling, di sentimento, ma anche di amato, caro. L’altra accezione anglosassone, barattolo, scatola, la sposiamo noi, per l’idea di plastica compattezza e allo stesso tempo di maneggevolezza che ci fa pensare subito alla compagine teutonica dei nostri cuori. La quale effettivamente metteva in circolo le linee guida del comunismo: ognuno aveva il suo ruolo, ognuno era di uguale importanza. E praticava l’anarchia: ognuno faceva quel cazzo che voleva. E convogliava tutto nel regno del nichilismo: semplicemente distruggendo tutto.
Lo squadrone prese forma a Colonia tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70 attorno a un quartetto che idealmente possiamo dividere in due speculari falangi, a partire dal look, da un lato Irmin Schmidt e Michael Karoli, due gentlemen con le fattezze da gentlemen e la maschera da hippy, dall’altro Holger Czukay e Jaki Liebezeit, due buffi freaks, il primo un simpatico scienziato-pazzo da cartoon di origini polacche e il secondo un tipetto tutto nervi. Irmin e Michael, rispettivamente a tastiere e chitarra, supervisionavano le sghembe traiettorie aeree, mentre Holger e Jaki presidiavano, il primo al basso il secondo alla batteria, il mostruoso baricentro ritmico. Il retroterra musicale era comune per Irmin e Holger, quello accademico, si erano conosciuti ai seminari di Stockhausen a Colonia, Michael invece si era specializzato negli strumenti a corda avendo iniziato a suonare di tutto, dalla musica rumena allo swing al blues, e Jaki, che aveva studiato tromba, era uno dei batteristi jazz tedeschi emergenti. Quando decidono di partire si chiamano Inner Space e hanno in testa un’idea già post di rock, incuriositi dai primi grandi dirottamenti del genere che stanno agitando il mondo, e quindi Velvet Underground, Frank Zappa, i Beatles più esplorativi, il Miles Davis elettrico, sia nel sound che nella produzione a taglia e cuci/editing di Teo Macero, e tanta musica nera, a partire dal funk di James Brown. Linee guida la sperimentazione più incondizionata, dedizione totale per la jam, che inizia a occupare interamente le giornate e diventa la materia prima da rielaborare o da cui attingere, e, man mano che prende forma, il drumming di Jaki, una impressionante macchina ritmica umana capace di spostare gli stilemi del funk in lande cerebrali (ripetitivo sì ma a lato anche ferocemente poliritmico, non straight motorik à la Klaus Dinger). Tutti maestri del loro strumento, all’occorrenza versatili, suonano qualsiasi cosa. Holger, che agli inizi dei Can, nel ’69, aveva fatto lo storico “Canaxis”, lavoro di montaggio di materiali etnici, è ai controlli di nastri, onde radio e le più rudimentali ma offensive tecniche elettroniche. I Can influenzeranno tre miliardi di cose, dal post-punk all’ambient passando per post-rock e parecchie branchie elettroniche dei ’90. Se volete trovare invece una matrice del loro peraltro sfaccettato sound, niente di meglio che sentire…

…segue per 14 pagine nel numero 328 di Blow Up, settembre 2025

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