Cominciamo dalla fine
Cominciamo dalla fine
di Fabio Donalisio

1 Dopo l'apocalisse, il Regno?
“In un'epoca in cui l'esuberanza maniacale e la depressione melanconica sembrano contendersi la guida della psiche collettiva...” Rewind: c'era una volta – ma una volta quando, o, parafrasando il Vasco dei tempi migliori (quando non faceva storia il radunarsi oceanico di folle nello spazio): ogni volta quando? La nostra storia inizia con l'epoca – che in realtà in greco stava per “sospensione” – della Grande Schizofrenia, dell'Antropocene come Era in cui l'azione umana ha effetti di forza geologica, epoca in cui il mito della fine parla le parole della scienza più che quelle (e insieme a quelle) della metafisica. Ne esplorano i linguaggi due studiosi brasiliani, Danowski e Viveiros de Castro (un antropologo e una filosofa), in un saggio a cavallo tra antropologia, narratologia e politica (lato rebel rebel) che titola, icasticamente Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, edito nella collana nonfiction di Nottetempo, che si conferma più a fuoco su questi lidi che su quelli narrativi.
Ogni comunità umana ha sempre considerato la propria finitezza, l'ha sempre – con il procedimento proprio del mito – ipostatizzata in un racconto, dicendo di quel che la supera, deducendo dalla morte individuale la morte totale, l'estinzione. C'è sicuramente una via occidentale alla fine, così come una orientale, una amerindia etc. Ma nessuno ha fatto meno di porsi il problema. Già che siamo qui, per quanto? La pacchia finirà? Déi (per interposta voce, di solito), profeti, sciamani, filosofi, poeti (e in ultimo romanzieri, cineasti, creatori-di-serialità-televisiva), si sono prodigati nell'indagine, nelle ipotesi, a volte persino nelle risposte (a seconda del grado di fede richiesta). Ma da molto, molto tempo – forse dal tempo dei primi cristiani prima che il pragmatismo di Paolo li rendesse chiesa – la fine non è percepita a portata di vita, o alla peggio come possibilità da considerare nel momento decisionale relativo al concepimento di nuovi accoliti per le “generazioni future”. E questa volta sono gli “scienziati” a parlare la lingua dell'eschaton, perché pare sia il pianeta a ribellarsi, a prendere il volto indifferente e ostile (leopardiano?) di Gaia, preparandosi a farci crollare la Terra sotto i piedi nella forma di quello che è già diventato uno dei tic linguistici in prima linea nelle wordcloud di tutto il mondo: il cambiamento climatico. Se ci si pensa, fa gran senso: considerando che siamo qui – pare – per una singolare improbabilità di concentrazioni gassose (vedi infra) che avrebbero, secondo modalità oscure, permesso l'abiogenesi, ovvero la creazione di materia vivente da materia non vivente, modificazioni radicali in questi equilibri potrebbero ben determinare l'estinzione, previa lunga e intensa agonia – delle ipertrofiche e sempre crescenti masse umane. Insomma, l'apocalisse. Senza giudici universali, ma secondo equazioni rigorosamente decifrate. Da rimpiangere lo spauracchio atomico da guerra fredda, da sperare nelle pronte-dita-sui-pulsanti-rossi di Kim, Xi, Donald e tutti gli altri atomisti padroni di bombe-madri. Innalzamento termico, inaridimento, terre sommerse da oceani caldissimi e desertificati, radiazioni solari killer che perforano i brandelli di quanto resta dello scudo ozonico... migrazioni disperanti, crollo della civiltà, antropofagia. Gli autori citano non a caso il McCarthy della Strada e il Von Trier di Melancholia, nonché Il cavallo di Torino di Bela Tarr. Sfumature. Il finale è noto, sebbene difficilmente raccontabile, da questa parte della barricata, almeno. […]

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