Da Fiume ad Haight-Ashbury
Da Fiume ad Haight-Ashbury
di Maurizio Bianchini

A Fiume!
“Il 12 settembre del 1919, al comando di Gabriele D’Annunzio, alcuni reparti ‘ribelli’ del Regio Esercito (2.600 uomini in tutto) occuparono Fiume, città a maggioranza italiana contesa dal neonato Regno di Croazia. I ‘legionari’ la tennero fino al Natale del ‘20, quando, composto col Trattato di Rapallo il contenzioso diplomatico con Croazia, fu imposto alle truppe regolari di sgombrarli, ponendo fine a quella che viene da molti ritenuta una ‘prova generale della Marcia su Roma del fascismo.”
Questo il paragrafo di un vecchio manuale di storia cui prima di leggere il bel saggio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (2002, il Mulino) si riducevano le mie conoscenze dell’Impresa di Fiume. Una piccola parte di verità (ma ex post, come dire che Colombo ha scoperto l’America ma tacendo che cercava l’India); tanta approssimazione e un cumulo di errori e imprecisioni. Il primo: non fu una ‘milizia fascista’ ad occupare la città ma una piccola armata di militari inquieti, col contributo entusiasta di volontari arrivati da ogni parte – interventisti delusi, sansepolcristi, reduci lasciati sul lastrico dalla fine della guerra, avventurieri, esteti, nazionalisti rivoluzionari, deraciné, futuristi delle più diverse declinazioni e bolscevichi ante litteram. Il secondo: quando si accinge all’impresa, D’Annunzio, non Mussolini, è la figura carismatica verso cui si indirizzano le attese di cambiamento della nazione: un panorama che spaziava da Marinetti a Gramsci. La presa del Vate sull’opinione pubblica è estesa, profonda e trasversale. Lo scrittore italiano più noto nel mondo, l’esteta più ammirato, si è procurato con le sue imprese belliche la fama d’eroe che manca a Mussolini, il cui ruolo nel conflitto mondiale appare al confronto trascurabile; al contrario dei fascisti, lontani ancora da un consenso di massa, come mostrato dalle elezioni del ’20, non è compromesso in faide intestine; ha espresso in pubblico, ripetutamente, posizioni antiborghesi, populiste, ‘rivoluzionarie’, anche se venate di accenti dandistici, com’era nel clima frastornato del dopoguerra. A dividerlo dalla sinistra c’è, in realtà, solo il nazionalismo: una montagna che perfino Gramsci, però, appare non indisponibile ad aggirare, se non a scalare, soprattutto dopo il giudizio di Lenin che vedeva in D’Annunzio il ‘solo rivoluzionario in Italia’. Ridurlo a marionetta nelle mani di Mussolini è privo di ogni fondamento. […]

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