David Ackles
David Ackles
di Stefano I. Bianchi

Non sarà bello da dire ma se fosse morto giovane, o si fosse ammazzato, o avesse comunque fatto una fine disgraziata, oggi sarebbe celebrato come un grande grande grande. Quasi come Tim Buckley, uno dei suoi modelli. O il coevo Nick Drake, che come lui non ebbe grandi riscontri in vita ma si destinò al culto dopo la drammatica morte. O Fred Neil, un altro dei suoi modelli, che come lui decise di chiudere improvvisamente con la musica ma si mantenne sempre nel mito a partire dalla fascinosa scelta di dedicare il resto della vita alla cura dei delfini.
David Ackles invece niente, zero. Pochi lo ricordano o gli hanno reso omaggio: qualche musicista che da lui ha saputo imparare, come Elton John, Billy Joel, il primo Tom Waits, Elvis Costello e Bruce Springsteen, o qualche scribacchino in vena di nostalgie e malinconie, come il sottoscritto. Quattro dischi tra il 1968 e il 1973, dopodiché l’abbandono delle scene e il completo silenzio sul versante discografico. Fosse morto allora, avrebbe avuto tutto per diventare un solido culto: canzoni bellissime e abbastanza eccentriche da distinguersi sulla concorrenza; testi che narravano storie tristi e cupe, non di rado depresse e disperate, figlie di una religiosità vissuta in maniera così lacerante da non lasciargli altra possibilità che una fede assertiva e inappellabile; in ultimo una bella faccia da attore d’altri tempi, spesso ritratta con sorrisi che stridevano nettamente rispetto alle storie raccontate. Fosse morto allora, avrebbe avuto tutto per diventare un solido culto: e invece niente, zero. Dopo il quarto disco David Ackles chiuse con la musica, che peraltro aveva abbracciato piuttosto avanti negli anni, per dedicarsi a lavori distanti da quel mondo se non proprio anonimi fino a che la morte non lo colse a 62 anni, nel 1999, per un cancro al fegato. […]

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