David Goodis
David Goodis
di Roberto Curti

1. Sedeva davanti a un bicchiere vuoto. Lo guardava come se fosse la pagina di un libro e lei stesse scrivendo un racconto.
I QUARANTANOVE anni di vita di David Goodis (1917-1967) sono materiale che darebbe filo da torcere a qualsiasi biografo. Principalmente perché le stranezze dell’uomo occupano la parte più consistente delle sue scarne note biografiche, rischiando di ottundere la materia viva dei suoi romanzi, o, peggio ancora, di venirne contagiate in un pot-pourri che mescola vita vissuta e finzione, secondo i luoghi comuni del maledettismo perdente che viene spontaneo evocare quando si parla di noir. Per anni, ad esempio, lo si è creduto un alcolizzato, mentre pare che Goodis fosse anzi astemio. Incredibile a dirsi, per chi ha descritto così vividamente la dipendenza dall’alcol in libri come La ragazza di Cassidy e La morsa. Occorre separare il grano dal loglio, il che nella produzione dello scrittore di Filadelfia è faccenda assai ardua. Eppure, pur con tutte le cautele, si finisce per tornare lì, all’enigma che fu Goodis in vita e all’impressionante affinità tra la finzione e il vissuto, che va ben oltre la lettera dei singoli romanzi e racconti.
Di certo si sa che a differenza di un Jim Thompson, condannato tutta la vita a guadagnarsi la pagnotta (e la bottiglia), Goodis per un certo periodo potrebbe anche tirare i remi in barca e fare la bella vita: a ventotto anni, dopo un esordio alla Hemingway e milioni di parole macinate per le riviste pulp newyorchesi, al secondo tentativo azzecca il romanzo giusto, e vende i diritti di La fuga alla Warner, legandosi alla casa di produzione per sei anni. Guadagna una bella somma, eppure abita presso un amico avvocato, Allen Norkin, che gli ha affittato un divano – sì, un divano – per quattro dollari al mese. Porta gli stessi abiti fino a che non sono logori e scoloriti, e per riciclarli li tinge di blu e vi appiccica etichette prese da altri vestiti. Pare quasi che assieme a quelle voglia cucirsi addosso l’abito di maudit: in realtà è solo il segno di un carattere scostante e fragile, capace di eccessi bambineschi (Goodis ama fare scherzi puerili, come infilarsi nel naso la striscia rossa del cellophane dei pacchetti di sigarette e simulare epistassi) ma a disagio con la pressione degli studios. Sta di fatto che nel 1950 l’avventura hollywoodiana è già finita, con un ben magro bottino, al punto che lo scrittore ricicla un soggetto originale destinato a restare lettera morta, almeno a Hollywood: Non riposano in pace (uno dei suoi lavori peggiori, per inciso). E così, da romanziere di prima fila pubblicato in edizioni hardcover, Goodis torna nella chorus line dei narratori di genere, dove resterà fino alla morte, seppure con successi importanti come La ragazza di Cassidy (1951, oltre un milione di copie vendute).
Oltre all’evidente incompatibilità tra il mondo e le tematiche dello scrittore e quelli prediletti dalle case di produzione, e al di là del ruolo chiave giocato dagli aspetti psicologici e caratteriali dell’uomo, il fallimento hollywoodiano nasce probabilmente anche da ragioni legate all’approccio di Goodis alla trama. A differenza di altri narratori di genere suoi contemporanei, l’autore di La luna nel vicolo non è mai stato un cesellatore di plot. I suoi romanzi partono spesso da immagini e situazioni squisitamente cinematografiche, ma poi si impantanano nell’inazione, nel rovello interiore, calando addosso come una cappa ai personaggi e disinteressandosi di uno sviluppo convenzionale del canovaccio poliziesco, che spesso è appena abbozzato, zoppicante, vagabondo come i protagonisti. […]

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