DESTROY BABYLON: Pink Floyd
DESTROY BABYLON: Pink Floyd
di Bizarre, Beppe Colli, Etero Genio, Massimiano Bucchi

Pink Floyd
“The Dark Side Of The Moon” (Harvest 1973)


“The Dark Side Of The Moon” è un disco famosissimo, celebrato per mille motivi, con un’influenza imponente sulla musica pop di fine secolo: troppo, perché si possa anche ritenere eccezionalmente bello? In casi come questo è estremamente difficile razionalizzare l’esame del prodotto senza cadere nelle formule fatte e già sentite; quella del “disco dal suono perfetto, parametro ideale dell’audiofilo” essendo la più clamorosa di tutte, in senso positivo – e quella del disco “da odiare” per ogni punk con spillone certificato il suo corrispettivo, non meno retorico e oggi penosamente invecchiato, in senso inverso.
Per cominciare diremo che è questo il disco che fotografa al meglio la formazione più classica del gruppo, finalmente affrancato dall’ombra di Barrett e non ancora vittima dell’ego monomaniaco di Waters. Il primo periodo dei Floyd, quello psichedelico, tanto caro (e troppo spesso l’unico preso in considerazione) ad ogni rivista alternativa che si rispetti, è ovviamente rappresentativo soprattutto della geniale follia del Syd; mentre almeno da “Animals” in poi i Pink Floyd non sono altro che un supporto ai deliri paranoici dell’invadente bassista.
Su “The Dark Side Of The Moon” la formazione è invece ben bilanciata, sia in termini di distribuzione del carico compositivo che di predominanza degli interventi strumentali: caso in generale raro (a meno di forzature, come la ripartizione di mezza faccia ciascuno nel secondo disco di “Ummagumma”), e può essere una spiegazione del perfetto equilibrio che ne consegue sull’album.
Il quale potrebbe essere liquidato in fretta, dal punto di vista musicale, dicendo che le canzoni che contiene sono di grande, grandissima qualità; e saremo di nuovo da capo. Perché questo rimane opinabile; perché ci sarà sempre qualcuno che sosterrà che non varranno mai le crudezze del vero rock’n’roll o che per opposto non potranno mai competere con le esplorazioni più ardite delle avanguardie.
Beh, tutto vero; il pregio di “The Dark Side Of The Moon” è un altro. È proprio quello di essere un disco ponte, il traghetto ideale per un pubblico mainstream verso qualcosa di un po’ più evoluto delle semplici canzonette o delle forme musicali più canoniche. Chiariamolo subito infatti, anche se in definitiva la cosa è evidente: questo disco è un prodotto mainstream a tutti gli effetti, né potrebbe essere altrimenti per uno degli album che ha stazionato più a lungo nelle classifiche di vendita del mondo intero. Quindi, giudichiamolo soprattutto in quel contesto; non andiamo a confrontarlo con Beefheart o con gli Henry Cow, sarebbe sbagliare completamente bersaglio. (Tra l’altro, cito a memoria mia e del 99% di chi conoscevo, i genitori di chi è nato negli anni ‘60 non lo sopportavano; possiamo ritenere questo un indicatore del fatto che comunque aveva una componente di rottura con la tradizione?…)
L’elemento decisivo, il lasciapassare essenziale dell’intero contenuto di “The Dark Side Of The Moon”, è la melodia; e volenti o nolenti è quasi sempre quello l’aspetto principale a decretare il successo di un prodotto musicale (questo vale per i Beatles come per i Ricchi e Poveri o i Blink 182). Per fortuna, non c’è solo quello. C’è un languore sincero e commovente che rende credibili pezzi come Breathe e Us And Them ed Eclipse; c’è un richiamo al rock’n’roll che per quanto smussato e addomesticato (Time) ha una sua valenza in termini emozionali; c’è un gusto inconsueto nel mischiare ritmi dispari e ritornelli ammicanti (Money). E ci sono poi gli elementi caratteristici del suono Pink Floyd, quelli che fanno la differenza, e che rispetto ad altri sperimentatori pop, i Beatles per esempio, hanno un’identità molto più forte, distintiva fino al punto di diventare un marchio di fabbrica: un uso disinvolto e moderno dell’elettronica (quant’è seminale un pezzo come On The Run?); l’abilità assolutamente unica nell’introdurre dei rumori nel corpo sonoro (il famoso battito di cuore che apre l’album, gli orologi di Time, i registratori di cassa di Money); le possibilità di osare al momento in cui non ce lo si aspetta (la parte cantata di Great Gig In The Sky è terrificante di bellezza e di paura, i dialoghi strumentali di Any Colour You Like hanno un grandioso potere suggestivo).
Data in pasto al grande pubblico, una miscela del genere ha funzionato. Vogliamo confrontarla con i successi mainstream degli anni a venire (Phil Collins, Madonna e Michael Jackson neanche dieci anni dopo!) per capirne il valore assoluto? Non mi sembra il caso. “The Dark Side Of The Moon” è stato la chiave per aprire la mente a quelle persone che, colpite in qualche modo dallo spirito (relativamente) innovativo di quel disco, hanno magari avuto la voglia, e la curiosità, di cercare cose che altrimenti non avrebbero mai trovato. Un disco ecumenico ma sincero, non una rottura ma un ponte importantissimo per capire che c’era qualcosa “oltre” le proposte preconfezionate dagli standard (poi i Pink Floyd sarebbero divenuti anch’essi uno standard; e difatti la qualità degli album successivi venne presto decadendo).
“The Dark Side Of The Moon” emblema del progressive anni ‘70? Falso: tutti i gruppi del genere erano già nati e formati all’epoca, e se c’è un difetto che il disco non ha, almeno sul piano musicale (al contrario del suo predecessore “Atom Heart Mother”), è quello della prolissità e degli eccessi di fioritura strumentale - qui abbiamo canzoni, per quanto siano sofisticate. Semmai, quello che gli si può muovere come appunto è un tantino di retorica nel contenuto. L’album è un concept sull’alienazione dell’uomo nel mondo moderno, la sua solitudine, la povertà della sua condizione esistenziale: niente di particolarmente originale, a dire il vero, anche se il trattamento non è malvagio. D’altronde Waters, autore dei testi, è sempre stato molto più vicino ai valori dell’establishment di quanto non se ne sia mai reso conto (la sua Another Brick In The Wall oggi potrebbe tranquillamente essere oggetto di studio in quelle scuole che voleva criticare…). Ma se i detrattori del disco dell’epoca punk si sono fermati a quello per stroncarlo, non hanno neanche avuto (o voluto avere) orecchie per sentire. (9) (Bizarre)


Degli album rock annoverati tra i ‘classici’ “The Dark Side Of The Moon” è sicuramente quello dalla presenza maggiormente “ingombrante”: 30 milioni di copie vendute (pare che nel Regno Unito una famiglia su cinque ne possegga un esemplare) e una permanenza pressocché perenne nelle classifiche - in tempi recenti, un milione di copie vendute ogni anno. Ricordiamo che in precedenza il gruppo non era mai andato oltre le 250.000 copie - posizione più alta nelle classifiche statunitensi il # 55 di “Atom Heart Mother”, tre anni prima. Spinto dall’enorme successo di Money, singolo Top 20, “The Dark Side” arrivò al # 1, chiudendo in modo definitivo il periodo sperimentale del gruppo. Un album-punto di svolta, quindi, che si trovò - del tutto inaspettatamente, anche per i Pink Floyd - ad esplodere raccogliendo i consensi di quelle fasce di pubblico che, affacciandosi sul mercato del rock, ne decretarono uno sconvolgimento di enormi proporzioni - e drammatiche conseguenze. Se il lettore ha pazienza…
E’ indubbio che i Pink Floyd degli inizi erano Syd Barrett: sue le belle canzoni, sue le sperimentazioni chitarristiche con echo e bottleneck ispirate dal Keith Rowe degli AMM. Andato in tilt il nostro eroe, mentre nessuno scommetteva sui superstiti, Roger Waters imbarcò Dave Gilmour - il chitarrista amico di Barrett - e provò a continuare. Nel giudizio che diamo sugli album del periodo (“A Soucerful Of Secrets”, “Ummagumma”) è implicito quello su “The Dark Side”. Gilmour non è certo tenero: “La band credette di aver raggiunto un buon risultato con la title track di A Soucerful Of Secrets. Non posso dire di aver capito quello che succedeva mentre lo facevamo, con Roger seduto a disegnare piccoli diagrammi su pezzetti di carta.” Confusione e velleitarismo, dunque, con The Narrow Way “esperimento mal registrato” e parti di “Atom Heart Mother” definiti “un’assoluta mondezza”. Questa la situazione paradossale che venne a crearsi: che chi, oltre a scrivere testi e canzoni, aveva “una visione” - Waters, ex studente di architettura - era anche lo strumentista meno valido del gruppo (ed è noto che su disco Gilmour suonò parecchie parti di basso, cosa facilmente riscontrabile confrontando i due diversi “attacchi” - come Keith Richard e Bill Wyman su “Beggars Banquet” e “Let It Bleed”) mentre il chitarrista, più dotato e disciplinato, non ne aveva alcuna, se non in termini di “confezione”. Qui, ovviamente, è questione di punti di vista: se sia meglio mirare alto, rischiando di produrre un “interessante fallimento” - se è poi così che si vuole definire “Ummagumma”, album che comunque fece da detonatore per mezza scena continentale - o centrare perfettamente un bersaglio di desolante (e accessibile) banalità. Il restringersi degli orizzonti non riuscì comunque a impedire che in “The Dark Side” tutti i limiti del gruppo - strumentali, compositivi, di arrangiamento - venissero impietosamente alla luce (si confronti invece l’impianto - melodico, armonico e metrico - di un album di canzoni quale lo zappiano “Over-nite Sensation”, pubblicato lo stesso anno). E’ ovvio che non tutto è da buttare: c’è il quadro di chiarissima organizzazione di On The Run, una garbata folk song quale Brain Damage, le chitarre con Leslie di Any Colour You Like, certi tocchi di produzione (gli orologi di Alan Parsons su Time). Ci sono però anche dei cori eccessivi, e a tratti irritanti, che dovrebbero forse sopperire alla nota normalità vocale del gruppo, e un invadente sassofono francamente cafone.
Chi comprò questo disco? Tutti - chi scrive compreso. Ma il fatto che crediamo interessante è che l’enorme successo di quest’album fu parallelo all’allargarsi del mercato: nonostante la perdurante leggenda, negli anni 60 il rock era un dialetto, dal seguito minoritario, circoscritto e (relativamente) omogeneo, con vendite (relativamente) basse. Il suo tramutarsi in lingua mainstream non fu senza conseguenze - non è mai un problema di quanti ma di chi: posti di fronte a folle ululanti i King Crimson si sciolsero (vedi BU # 21), il povero Lou Reed si vide tramutato in un rock’n’roll animal, il traballante ma volenteroso “Tommy” divenne la farsa della versione filmica… e i Pink Floyd? Abituati al “loro” pubblico, silenziosissimo anche quando numeroso (“Avevamo suonato davanti a 10.000 persone, e durante i passaggi quieti potevi sentire il rumore di uno spillo che cadeva”), si ritrovarono con le prime file che urlavano “Money!”. L’impatto non fu indolore: se Gilmour fece buon viso a cattivo gioco - il successo, dopotutto, ha i suoi prezzi - è da qui che nascono le nevrosi di Waters che, passando per il testo di Have A Cigar (“Wish You Were Here”), le atmosfere di “Animals” (Punk Floyd?) e il famoso incidente di Montreal - quando sputò in faccia a un esagitato spettatore delle prime file - portano dritti dritti a “The Wall”. (5) (Beppe Colli)


“Nel catalogo non ci sono dischi dei Pink Floyd. La provocazione è tanto maldestra da suscitar l’ilarità. In effetti, i quattro dal color di rosa hanno ben altre preoccupazioni che non quella di passare alla storia, specie per questa via. Una simile constatazione ci rende l’animo sgombro da ogni scrupolo e ci consente di tirar dritto in perfetta letizia. Comunque si valuti il nostro comportamento, di una cosa siamo certi: venderà più copie il loro ultimo long playing che non questo accidentato ‘manuale’ contropelo.”
Belle parole e bei concetti, quelli che Riccardo Bertoncelli pose a suggello della sua introduzione a Musica da non consumare, discografia indispensabile degli anni ‘70 scritta a quattro mani con Franco Bolelli. Si sono però rivelati profetici? Al 100% sì e al 100% no. Prendete, per esempio, “Dark Side...”, sfrenato esempio di magniloquenza salottiera creata con lo specifico obiettivo di ‘vendere’, obiettivo peraltro centrato in pieno, dato che dall’epoca della sua uscita ha stazionato ininterrottamente per anni nelle parti alte delle classifiche; non solo, il trasferimento in CD ne ha addirittura rilanciato le quotazioni in borsa.
Non vi sembra allora che un disco creato appositamente per vendere meriti, qualora raggiunga il suo obiettivo, un posto nella storia? State pur certi che se “Dark Side...” fosse andato incontro a un insuccesso commerciale non staremmo qui a parlarne; già oggi, a meno di un lustro dalla sua uscita, nessuno parla più delle “Murder Ballads” di Nick Cave, un disco altrettanto salottiero e patinato di quello ma che, al suo confronto, ha venduto quisquilie. Gli incensatori di “Dark Side...” ne esaltano il lavoro di studio e gli effetti speciali; falsamente, perché tale lavoro e tali effetti non erano certamente una novità, né per i Pink Floyd né per altri (Beatles in primis), la novità sta invece nell’uso che di tali effetti viene fatto. Con “Dark Side...” la rivoluzione elettronica raggiunge per la prima volta i vertici delle classifiche a livello mondiale e il lavoro di studio (anche, se non soprattutto, nel senso di studiare a tavolino un prodotto che vada incontro ai gusti del pubblico) diventa sempre più importante, celebri frutti di una musica, che possiamo definire ‘da autoradio’, come “Rumours” dei Fleetwood Mac o “The Joshua Tree” degli U2, sono inconcepibili prima del suo avvento. In questo senso “Dark Side...” ha un’autentica posizione di spartiacque.
Viceversa, pensate davvero che se il disco non avesse venduto tanto e non ci fosse stato propinato in tutte le salse, in miriadi di imitazioni e in tutti gli ambienti, dai bordelli ai supermercati ai pub ai luoghi di lavoro, il suo contenuto risulterebbe oggi così scontato e stucchevole? Un altro nodo e un’altra domanda che lasciano come minimo spazio a qualche dubbio.
Pochi si azzardano oggi a sostenere la tesi del capolavoro, non di meno il disco rimane nel cuore del pubblico, pensate che in un referendum fra i lettori, organizzato all’inizio dei ‘90 da un giornale certamente non floydiano e tanto meno filoinglese (Mucchio Selvaggio), “Dark Side...” si piazza al 13° posto, davanti a pezzi da novanta (amati e considerati in egual misura da critica e pubblico) come “Blonde On Blonde” di Dylan, “Astral Weeks” di Van Morrison, “Are You Experienced?” di Jimi Hendrix, “Closer” dei Joy Division, “Marquee Moon” dei Television, “White Album” e “Sgt. Pepper...” dei Beatles; nella stessa graduatoria “The Piper At The Gates Of Down” è 49° mentre “The Wall” non compare neanche fra i primi cento.
Signori, il tempo stringe e non ho parlato affatto di musica, d’altra parte in questo caso sarebbe come parlare del ‘cacio con le pere’, una cosa che tutti conoscono all’infuori della razza ormai estinta dei contadini. Vale solo la pena di dire che la scissione prismatica della copertina andrebbe letta al rovescio, dalla variopinta psichedelia degli inizi verso una piatta monocromaticità che possiamo facilmente riassumere con poche parole: “Money... Get a good job with more pay and you’re O.K.”.
Concludendo, raggiunge “Dark Side...” la sufficienza? Al 100% no e al 100% sì. No, perché ha dato impulso a una deplorevole era sintetica (il cui avvento ci sarebbe comunque stato lo stesso ma ai primi, come dire?, un po’ di colpa dovremo pur darla...), suona oggi falso e tedioso, è il tipico prodotto in cui conta più il fumo dell’arrosto e rappresenta alla perfezione il concetto della musica - ma non solo, anche del cinema, della politica, della guerra e della vita stessa - intesa unicamente come spettacolo; il Sunday Times, a tal proposito, recensendo il concerto in cui venne presentato il disco, tre mesi prima che avesse inizio la sua incisione e in anticipo di oltre un anno sulla sua uscita, parla di un “...palco dominato da tre torri argentee di luce, che lanciano bizzarre ombre di rosso, verde e blu su tutta la scena, con una nebbia fumogena che emerge da raggi accecanti...”. Sì, perché ha fatto indubbiamente epoca e, soprattutto, perché è dura andare contro il comune sentire dei quasi trenta milioni di individui che lo hanno comprato. (5-6) (Etero Genio)


Bistrattato da entrambe le barricate ultrà della bandiera Pink Floyd (i barrettiani così come i “muratori”), “The Dark Side of The Moon” è per la discografia del gruppo inglese l’equivalente di quelle trasmissioni che tutti guardano ma al tempo stesso criticano, colpevole di non essere né “The Piper at the Gates of Dawn”, né “The Wall”. Ma qui faccio il bastian contrario come la rubrica richiede e dico che “The Dark Side” va salvato proprio per quello che non è, più che per quello che è. I Pink Floyd qui non annaspano alla rincorsa dei fantasmi di se stessi come nel pretenzioso “Ummagumma”, né sono ancora ridotti a mero paravento delle pallossissime paranoie personali di Waters. Hanno preso atto di essere un gruppo completamente diverso con solo il nome in comune con i folletti dispettosi degli esordi e fanno quello che fa ogni professionista degno di essere considerato tale: arrivano con il mestiere dove non arrivano con l’ispirazione, confezionando un prodotto più che dignitoso. Aldilà dello specifico musicale, “The Dark Side” potrebbe essere utilizzato come esempio da manuale di come si realizza non un capolavoro ma un “classico popolare”: senza necessariamente entusiasmare nessuno ma riuscendo a piacere un pochino a tutti e quindi a durare (per non parlare dell’influenza esercitata su legioni di produzioni discografiche a venire): con un brano di presa immediata (Money), un solido tessuto connettivo e qualche sprazzo di genialità residua (The Great Gig in the Sky). Da “Wish You Were Here” in poi, anche questa sparirà e resterà solo la maniera, la comoda pigrizia di interpretare i Pink Floyd che il pubblico si aspetta. (Massimiano Bucchi) (7)


[pubblicato su Blow Up #25 – Giugno 2000]
© Tuttle Edizioni 2008
Tag: DESTROY BABYLON: Pink Floyd
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