Dove va il romanzo italiano?
Dove va il romanzo italiano?
di Maurizio Bianchini

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Una domanda cui verrebbe naturale rispondere: da tutte le parti, in ogni direzione, stando ai festival della letteratura di cui è inondato il Belpaese; i più grandi, con liste di impegni degne di un G7. E davanti alle 200.000 presenze, e agli innumeri eventi del Salone del libro di Torino, si viene presi dall’euforia di vivere in un paese di lettori forti, sempre con un libro in mano. E invece continuiamo ad occupare le parti basse delle statistiche sulla lettura. Attenendo all’intrattenimento e alla promozione editoriale, i festival della lettura incidono poco o nulla sul numero dei lettori; li motivano, al più, non li moltiplicano. Leggere è scelta individuale, idiosincrasica quasi; si forma nell’adolescenza e richiede, più delle ‘sagre del libro’, l’addestramento specifico fornito fino a qualche decennio fa dalla scuola, e ora, in via molto vicaria, dai social. La piaga dell’incultura di massa è da noi un fenomeno atavico, ma il poderoso passo in avanti rappresentato nel secondo dopoguerra dalla scuola dell’obbligo è stato in buona misura vanificato dalla ‘cultura audiovisiva’ cui una sempre più disattenta educazione scolastica ha mancato di fare argine nel momento di maggior bisogno: davanti al vigoroso disimpegno pedagogico, cominciato negli anni Ottanta e culminato nel ‘ventennio’ del magnate televisivo più chiacchierato del mondo, la cui discesa in campo ha sostituito i buoni maestri con comici di serie C e le brave maestre con soubrette di coscia lunga – un’era di involgarimento sistematico che, va detto ad onor del vero, ha coinvolto l’Occidente intero. Questo è il primo e più profondo motivo della mancanza di interesse per la lettura. E ad esso fa capo anche il secondo: la povertà della nostra offerta letteraria. Basta uno sguardo ‘comparatista’ a quelle dei paesi limitrofi per rendersene conto. Chi sono i nostri McEwan e Benville e Coe e Martin Amis? O i nostri Ernaux e Carrère e Houellebecq e Michon e Lemaitre? O i nostri Schlink e Sebald e Meyer? O i nostri Marias e Cercas e Aramburu? O il nostro Gospodinov, lo scrittore (bulgaro!) fresco vincitore del Booker Prize internazionale? E del resto dove andarla a cercare, la grande narrativa, in anni di star televisive in cui sono Fedez e Sgarbi a dettare il verbo non più gli scrittori e gli uomini di studio? Che da una scuola inerte, inerme e inetta; da una politica sospesa tra ignoranza, malaffare e vecchi feticci; da una società senza più anima né princìpi siano usciti Moresco, Piperno, Lagioia, Giordano, Falco, Siti… sembra un miracolo, in questo paese alla cui deriva pare volersi opporre solo il comunismo duro e puro di Montanari e Santoro e l’italianità berciata che va dall’Eurospin alla nuova destra. […]

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