Easy Rider
Easy Rider
di Maurizio Bianchini

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Easy Rider è uno dei pochi film che mi sento di definire rock a pieno titolo, tra gli innumeri in cui la musica rock è solo presente, come la panna sulla torta Saint Honoré o i canditi nel panettone. Forse addirittura l’unico. Sono affermazioni perentorie, lo so, che spero di argomentare nelle righe seguenti. Per farlo vorrei circoscrivere l’area di ricerca e definirne bene i termini.
Quando il rock raggiunge, nella seconda metà degli anni Sessanta, il punto più alto della sua parabola creativa, produttiva e commerciale, la sua natura ibrida, interattiva, multisensoriale è già costituita in modo così completo e organico da non essere percepita più come tale. Il fun, fun, fun degli inizi è diventato un investimento emotivo complesso e stratificato. La sua potenza di fuoco visiva, per dire, è intrecciata già da tempo così strettamente a quella musicale, nella percezione del pubblico, che si fa fatica a immaginare il sound delle sue icone più conosciute, dai Rolling Stones in giù, come pura e disincarnata ‘emissione sonora’, allo stesso modo, per capirci, in cui lo sono La mer di Debussy o 4'33" di John Cage. Eppure alla natura peculiare di questa ricchezza di approccio non si è mai badato nelle storie del rock che pure si aprono quasi tutte, meno scontatamente di quanto sembri, col pelvis di Elvis. La capacità della musica rock di suggestionare a più livelli, di cortocircuitare nel suono sensazioni di natura più complessa, che pure ne è tratto identitario, il più costitutivo e performante, è stato scambiato a lungo per un accidente pittoresco, non il tat twam asi, ‘tu sei quello’, delle Upaniṡad che ne ha fatto un’esperienza proiettata oltre il puro piacere estetico, in ambiti di gratificazione emotiva più profondi, e mai però sottoposti a uno scandaglio profondo.
Le influenze musicali, il costume, i cambiamenti sociali, le utopie politiche hanno esaurito il campo delle ricerche. Che ogni brano musicale goda di una sua aura evocativa è evidente, la musica è arte senza forma, che si appropria di tutte. Ma che una generazione intera abbia tarato in qualche misura la sua idea di ‘essere nel mondo’ su delle canzoni, avrebbe dovuto renderci più curiosi riguardo al peso che certe canzoni hanno avuto sulle aspettative di tanti. Nessun altro momento storico a noi vicino, con la parziale eccezione del jazz dopo la seconda guerra mondiale e del titanismo teutonico di Wagner, ha conosciuto qualcosa di paragonabile e di (non del tutto immotivatamente) definibile come isteria, survoltazione sensoriale, obnubilamento bacchico. Ché questo sono le canzoni rock destinate a durare: vettori di un immaginario collettivo in cui il suono è consustanziale alle immagini; esplorazione transmediale; possessione panica orchestrata; esperienza estatica più che estetica. […]

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