ELIANE RADIGUE
ELIANE RADIGUE
di Gino Dal Soler

“…Credo che anche i suoni abbiano la loro personalità e questa dà il senso del tempo che è loro necessario. Ci sono suoni che hanno bisogno di tempo per raccontare la loro storia. Ce ne sono altri che sono un po’ più vivi, veloci. Cerco di rispettare il tempo dei suoni...”
(Eliane Radigue)


PARIGI, GENNAIO 2001
L’occasione è di quelle da non mancare: non capita tutti i giorni infatti la possibilità di incontrare Eliane Radigue, tra i primi grandi pionieri al femminile insieme a Pauline Oliveros, Maryanne Amacher, Laurie Spiegel, (per citare quelle relativamente più conosciute) della musica elettronica sperimentale e la cui monumentale “Trilogie De La Mort” è stata particolarmente apprezzata da molti lettori di questo giornale (vedi BU N.8). L’incontro avviene nel suo appartamento in un quartiere curiosamente silenzioso, visto che a pochi passi si trova la famosa Tour de Montparnasse. E’ un pomeriggio freddo e nuvoloso ed io confesso di sentirmi un po’ timoroso per questo appuntamento. Forse perchè Phill Niblock mi descrisse Eliane Radigue come una signora timida e schiva; in realtà con immensa sorpresa io e il mio amico Giambattista Comba (cui va tutto il mio ringraziamento per il paziente lavoro di traduttore) ci troviamo di fronte una signora sorridente, estremamente gentile e disponibile. Gli racconto di Phill Niblock, “un mio grande amico” mi dirà: “non c’è uno dei miei lavori che non sia stato presentato/testato per la prima volta nello studio-loft Newyorchese di Phill, per me era come verificarne l’impatto, prima di proporli altrove! E poi come ben sai l’approccio alla materia sonora mio e di Phill è estremamente simile, con una sola differenza: lui “suona” ad un volume altissimo, mentre per me è l’esatto contrario! Questo è il solo punto di disaccordo tra noi”…Eliane dopo aver presentato a Parigi nel giugno scorso la sua ultima pièce dal titolo “L’Île Resonante”, ora si è messa in stand by per dedicarsi alla edizione in cd di almeno due opere inedite che si rivelano fin da subito attesissime per gli appassionati : “Adnos 1-3” e “ð 847” (PSI 847). Anche “Cryptus” il suo primo lavoro (a “geometria variabile” lo definisce la musicista ) fatto a New York con l’enorme synth Buchla, e giocato su due elementi sonori che possono essere suonati in sincronia oppure no, dovrebbe vedere la luce prima possibile…Poi davanti ad un delizioso the di spezie che sorseggiamo lentamente, Eliane Radigue, questa musicista solitaria che più volte asserisce di aver perlopiù lavorato da sola, inizia a raccontare per Blow Up (rivista che già ha avuto modo di apprezzare), un bel pezzo della sua storia. Alle nostre spalle, silente e fiero, il suo fantastico ARP, il suo…”Stradivarius”.

CHEZ PIERRE SCHAEFFER, PARIGI 1955 / AVEC PIERRE HENRY, PARIGI 1967
“Ho conosciuto Pierre Schaeffer a Parigi nel 1955. A quel tempo lui dirigeva Radio France d’Outre-Mer ed anche lo studio di prove del laboratorio di Musica Concreta della RTF (Radio Televisione Francese). Erano i primi dieci anni della “musique concrète”. Ero venuta a sua conoscenza attraverso alcune sue trasmissioni sentite alla radio e ne ero rimasta molto colpita. All’epoca facevo piccoli lavori che si limitavano a torturare la scala delle 12 note; la musica seriale e dodecafonica erano così le cose più accessibili per uno che aveva come unico supporto il pentagramma! Per questo l’incontro con Schaeffer fu davvero fondamentale, per essere magniloquente è stato per me un po’ come l’incontro di Paolo sulla via di Damasco. Abbiamo avuto fin dall’inizio una buona intesa. Abitavo a Nizza in quei giorni, ero sposata e avevo già tre bambini piccoli, ma andavo spesso a Parigi per vedere i miei genitori. In occasione di quei viaggi ne approfittavo per fare un salto allo studio di prove di Pierre e iniziai così a fare le mie prime “gamme” di musica concreta e di manipolazioni diverse. Non esistevano ancora corsi di insegnamento di musica concreta. Lavoravo con Philip-pe Arthuis, Pierre Henry e quando era disponibile Pierre Schaeffer”.
Eliane Radigue ha un ricordo ancora vivido di quei momenti, anche se vissuti per periodi piuttosto brevi. Ad un certo punto però Schaeffer decise che lei poteva cavarsela da sola, e così le fece una lettera di presentazione per la RTF di Nizza affinché po-tesse aver accesso liberamente al loro studio. I mezzi per chi non disponeva di uno studio si sa erano pochi e un registratore era una macchina ingombrante che costava una fortuna! “Quindi incontrai il direttore di questa radio che mi accolse gentilmente, guardandomi dall’alto con aria divertita e che altrettanto gentilmente scrisse una lettera a Schaeffer, dicendo che non aveva tempo disponibile per me. E finì così. Ho ritrovato recentemente quella lettera, era datata 6 aprile 1956”. Esclusa ogni possibilità di lavo-rare a Nizza, Eliane riprende i suoi viaggi andata-ritorno su Parigi, che ad un certo punto si dimostrano piuttosto faticosi, specie con tre figli ed un marito (il noto scultore Arman) che iniziava la sua carriera con altrettanta esigenza di viaggiare, per cui deci-de di interrompere la ricerca per dedicarsi alla famiglia. E fu una pausa assai lunga, almeno dieci anni; solamente una volta se-parata dal marito e tornata a Parigi con i figli, Eliane potrà ricominciare la sua attività. E’ l’anno 1967, Pierre Henry in quel mo-mento non aveva più un assistente, così la Radigue trae vantaggio dalla situazione e prova a rimettersi di nuovo in gioco. Un aiu-to provvidenziale, se è vero che Pierre Henry installa proprio a casa di Eliane due grandi registratori “Tolana”, mettendole quin-di a disposizione una grossa “cellula d’ascolto”. “Avevamo organizzato il lavoro in modo tale che Henry mi affidava il materiale da montare, che io portavo a casa mia e una volta finito glielo restituivo. Per me era un modo per sperimentare su quei due grossi regi-stratori che di fatto sono stati il mio primo strumento. I suoni che potevamo ottenere mettendoli in circuito di feedback e regolando di poco i potenziometri erano fantastici! Era la stessa tecnica usata da altri musicisti come Terry Riley, e ad un certo punto diven-tammo molto esperti di queste manipolazioni. Questo fu il mio vero inizio. Ho ancora contatti con Pierre Henry, anche se non ci fre-quentiamo più così assiduamente”.

NEW YORK 1970
Il 1970 è un anno di svolta per Eliane Radigue, l’anno del suo trasferimento negli Stati Uniti. Perché questo salto geografico (e non solo come vedremo) non indifferente per quegli anni? “Ma per un’ottima ragione!” sorride divertita. “Quello era l’unico paese in cui c’era una grande disponibilità di sintetizzatori! Moog, Buchla, i sistemi modulari, tutte macchine che avevano come vantaggio quello di permetterci di produrre suoni con un controllo che non riuscivamo ad avere con i due vecchi registratori”. Parla al plurale Eliane, perché in quell’anno ebbe la fortuna di essere invitata dalla NY University, nello studio creato da Morton Su-botnick e dove è praticamente rimasta dal settembre del 70 fino al giugno 1971. Ed è lì che inizia a provare su quelle macchine che saranno parte inseparabile della sua vita artistica. “Ho lavorato con il Buchla che è uno strumento magnifico, ma mi innamo-rai dell’ARP che considero lo Stradivarius degli strumenti di quella generazione, il più bello! Ho conosciuto più tardi il Serge Modu-lar, uno strumento altrettanto magnifico, ma io ero ormai già “presa” dal mio ARP. Così l’ho portato in Francia e per me rimane una macchina che trent’anni dopo risponde ancora completamente alle mie esigenze nella creazione dei suoni.Ho lavorato con l’ARP tutta la mia vita. Qualche tempo fa sono stata invitata dagli amici del Mills College a passare un periodo di ricerca e scoperta intorno alle nuove macchine digitali, con le quali mi sono battuta per due anni, per poi ritornare al mio ARP. Perché questo chiedo incuriosito? “Tu sai che io lavoro all’interno del suono; con l’ARP programmo una base (“ma cuisine ordinaire” la chiama Eliane) e poi con i potenziometri introduco variazioni minime. Queste lente variazioni sono uno degli elementi che fanno evolvere il suono e fanno si che non sia mai identico. Questo è ciò che mi interessava e interessa sempre fare, ma non riesco ad ottenerlo con le macchi-ne digitali. Paul De Marinis (compositore del giro Lovely…ndr) mi ha detto: E’ normale, perché il suono analogico è continuo, men-tre quello digitale/numerico è discontinuo!. Nel momento in cui cercavo di modificare il suono digitale, ottenevo degli effetti non desiderati: glitch, clicks, rumori, interferenze che possono andar bene in alcuni casi, quando sono voluti, ma che non corrispondeva-no a ciò che volevo realmente ottenere”. Del resto il vero motivo che ha spinto Eliane ad interessarsi al suono digitale, sta nel fat-to che essendo l’ARP una macchina di una certa età (“ha trent’anni quella macchina!”, mi indica orgogliosa il suo imponente e meraviglioso totem/synth…), cominciava a manifestare dei problemi, per i quali non essendo un tecnico, la musicista non aveva soluzione. Pensò anche di investire sei mesi!! del proprio tempo per smontarlo e ripararlo da sola, finché la soluzione ottimale le si è presentata con l’arrivo di Jean Loup, un appassionato di questo strumento, che in poco tempo è riuscito a ripararlo e a dargli una nuova giovinezza. Ma perché tanta fascinazione per un solo strumento, che ha marcato tutta l’opera più importante della musicista-compositrice francese, da “Jetsun Mila”, “Songs of Milarepa”, a “Trilogie de la Mort”? “Perché l’ARP è uno strumento dall’estrema qualità sonora, relativamente facile e flessibile in termini di manipolazione e da ultimo molto preciso. Perché mi piace, perché mi affascina?… Amo nella musica gli spazi non definiti, incerti; immagina di scrivere un pezzo in La e poi di colpo ti accorgi che non è proprio un La, ma nello stesso tempo non sei molto lontano da un La… non sono mai dei grandi spazi, piuttosto uno spa-zio non ben definito tra due modulazioni, in cui ad un certo punto puoi dire: ah! Siamo in Sol e immediatamente dopo dici: no, è un Fa! Nello stesso tempo non sai esattamente in che tonalità sei, se minore o maggiore, ma non sei mai lontano da dove pensi effetti-vamente di essere…Finché rimani in una tonalità, tutto è estremamente rassicurante, quello che mi affascina è invece il dubbio, quello che mi attrae è il fatto di restare in quel punto sospeso dove ti chiedi dove sei, ma nello stesso tempo senti di non esserti com-pletamente perso. Ho sempre cercato di riprodurre quella dimensione: restare in quegli istanti di sospensione musicale che sono forse troppo corti nella musica cosiddetta tradizionale, anche se ci sono delle eccezioni (Mozart per esempio). Tutto questo è possi-bile, grazie all’estrema precisione dell’ARP. Non potrei lavorare con strumenti presettati. Mi piace invece suonare nelle zone incerte, dove l’orecchio si perde e attraverso questa “erraticità” si crea uno spazio di libertà. Ma paradossalmente il prodotto finito è tutt’altro che improvvisazione! Non è possibile improvvisare. Questo è evidente nei miei concerti dal vivo, dove è frustrante rendersi conto della rigidità della composizione, in quanto una volta finito il prodotto, non puoi più modificarlo, cambiarlo e quindi correg-gerne gli eventuali errori. E di errori ne ho fatti molti, poiché in tutti i miei lavori c’è almeno un elemento che non mi soddisfa. Ma tant’è, questo è un po’ il mio segno distintivo”.

LA VIA DI MILAREPA -1975
Il 1975 è per Eliane Radigue un altro anno di svolta; sarebbe semplicistico e riduttivo parlare di sola conversione mistica. Di fatto nel Buddismo Tibetano, la compositrice trovò stimoli ed elementi che l’allontaneranno per quattro lunghi anni dalla musi-ca, anni spesi in ritiro e meditazione, ma al cui rientro in “scena” daranno vita ai suoi frutti migliori, alle opere di straordinaria intensità e respiro. “Tutto accadde intorno al 1974, quando in uno dei miei frequenti viaggi negli Stati Uniti per proporre la mia nuova composizione “Adnos 1” che avevo presentato anche al “Festival d’Autumne” di Parigi, alla fine di un concerto tenuto al Mills College, tre giovani francesi mi si sono avvicinati dicendomi una cosa che all’epoca mi sorprese molto: Lo sai che non sei tu a fare la tua musica? Ah Bon? risposi, d’altra parte qualche tempo prima a San Francisco incontrai Terry Riley con alcuni suoi amici, e tra di loro qualcuno mi disse: Ah sei tu Eliane? Ho saputo che la tua musica è molto meditativa… Chissà forse ero Buddista senza saperlo. Così al mio ritorno a Parigi mi sono messa in contatto con un centro Buddista attraverso tre discepoli del lama tibetano Kalu Rim-poche e mi sono accorta di aver trovato quello che cercavo da molto tempo, quindi per tre anni mi sono data alla pratica della me-ditazione senza occuparmi d’altro. Inevitabilmente, dal momento che la mia musica non è separata dalla mia vita, il Buddismo ha influenzato il mio modo di fare musica. Posso dirti che ho avuto il grande privilegio di realizzare la musica che volevo, non avendo nemmeno la pretesa di chiamarla musica, definendola piuttosto “proposta sonora”. Il ciclo compositivo dedicato al poeta e santo del Tibet Milarepa (vissuto nell’undicesimo secolo) steso durante tutti i primi anni 80, è considerato da Eliane come il suo peri-odo più “impegnato”, in cui eccezionalmente ha lavorato non solo con i suoni ma anche con un testo denso e profondo, quale i 100.000 canti di Milarepa. La “Lovely Music” l’ha licenziato per intero nel tempo, a partire da una lunghissima cassetta esclusi-vamente strumentale dal titolo “Jetsun Mila” (oggi introvabile, ma pare verrà ristampata prima o poi in cd), e a seguire i due entrambi disponibili “Songs of Milarepa”, (originariamente solo su Lp e da qualche anno anche nella versione estesa in doppio cd) e “Mila’s Journey Inspired by a Dream”. “ Per quei dischi ho registrato la voce di Robert Ashley a New York, mentre quella del Lama Kunga Rimpoche è stata registrata ottimamente da Maggi Payne in uno studio professionale. Poi nel mio studio mi sono limi-tata a far interagire le loro voci con i miei suoni. Ho passato con Bob Ashley e Kunga Rimpoche uno dei momenti più belli della mia vita; questa è anche l’opera che mi ha dato maggior soddisfazione, anche perché paradossalmente è quella a cui ho lavorato di me-no! (ride) anche se la vita di Milarepa non è stata certo qualcosa di semplice come una passeggiata. Il Buddismo non è acqua di rose, può essere qualcosa di molto potente!” L’attenzione verso ogni piccolo dettaglio e variazione sonora, la lentezza e minuziosi-tà nel dispiegare e dilatare nel tempo ogni sua opera, fanno ovviamente pensare ad Eliane Radigue come ad una compositrice minimalista tout court. “Minimalista io? Possono chiamarmi come vogliono: spettrale, minimalista, non m’importa davvero. So che sono spesso catalogata come minimalista. Perché no? E’ vero che utilizzo un minimo di elementi sonori, ma nello stesso tempo non è certo un mio problema! Piuttosto Eliane è affascinata dall’idea e significato del “tempo”. “Il tempo è un alleato del quale non tengo conto. Ho sempre tutto il tempo di cui ho bisogno, ho sempre tutta la mia vita davanti a me. Vedi, posso dire questo oggi, con le mie rughe e i miei capelli bianchi. Cerco sempre di vivere in un tempo che non abbia tempo. E’ lo spazio meditativo per eccellenza. Quando sei in meditazione, non sai quanto tempo ci passi, se è quello di uno schiocco delle dita o di due ore. C’è solo l’orologio even-tualmente che ti fa capire che è passato un certo tempo. Per la mia musica è la stessa cosa, ho sempre tutto il tempo che mi serve. Credo che anche i suoni abbiano la loro personalità e questa dà il senso del tempo che è loro necessario. Ci sono suoni che hanno bisogno di tempo per svilupparsi e raccontare tranquillamente la loro storia. Ce ne sono altri che sono un po’ più vivi, veloci, cerco di rispettare il tempo dei suoni…

LA TRILOGIE… 1988-1998
“Trilogie de la Mort”, non è solo l’opera più ambiziosa e monumentale di Eliane Radigue (triplo cd su XI), ma apre uno squarcio doloroso eppure intenso come non mai sulla propria vita. “Non pensai nel 1988 di scrivere una trilogia. In seguito al la-voro su Milarepa l’unico progetto che avevo in mente era quello di realizzare un’opera basata sul “Libro Tibetano dei Morti”. “Kye-ma” è il punto di partenza; in tibetano questa parola ha un significato come “ahime”, un sospiro. Per quanto ne so la radice tibetana “kye” rappresenta tutto ciò che è nato, che vive, e “Ma” è il suffisso universale che indica la madre, e quindi io l’ho interpretato co-me: tutti gli esseri nati da una madre. Ciò che mi piaceva è che il suono “Ka” corrisponde alla prima lettera dell’alfabeto tibetano. Poi accadde che mio figlio perse la vita in un incidente due mesi dopo la creazione di “Kyema”. Ho terminato di scriverlo alla fine dell’88 e venne realizzato nel 1989. Questa è la ragione per cui questa pièce gli è dedicata a titolo postumo. Siccome quando lavoro ad un pezzo, mi capita di pensare già a quello successivo, quasi contemporaneamente ebbi l’idea di realizzare un’altra pièce dedica-ta ad un pellegrinaggio immaginario alle pendici del M.Kailash, la montagna sacra per eccellenza. Se Kyema rappresenta i sei stati del Bardo, “Kailasha” è diviso in quattro parti che corrispondono alle quattro direzioni, ed è anche la casa di Milarepa. La morte di mio figlio ha inciso molto sulle sonorità che ho dato a questo pezzo”. Anche “Kailasha” inizia per “Ka”. Ma ancora non si può parla-re di una trilogia. E’ soltanto intorno agli anni 91-92, una volta terminata questa composizione (al solito Eliane impiega almeno due anni per completare un’opera di tale dimensione) che ella incomincia a lavorare intorno a nuovi suoni. Proprio in quegli anni scompare anche il suo maestro spirituale, e quindi la morte la tocca da vicino per una seconda volta, anche se in modo di-verso. “Andai in Nepal per partecipare alla cerimonia della cremazione e lì di nuovo mi son trovata a giocare con le parole. “Kou-me” (il terzo atto della trilogia ndr) inizia ancora con la lettera Ka; “Kou” potrebbe significare nel mio tibetano “corpo sacro” come il corpo sacro di Buddha, e “Me” è una desinenza che indica sia il fuoco, sia l’assenza: “il n’y a pas”…Per cui per me diventava una parola che stava per: “la scomparsa del corpo nel fuoco”. In effetti la parte centrale di “Koume” ha questo crescendo che evoca l’elemento fuoco, nel suo significato di slancio e sublimazione. Contiene un po’ anche l’ambivalenza della morte intesa come dolore e nello stesso tempo come superamento verso qualcos’altro. Mi è difficile tradurre tutto questo in parole, per cui ho cercato di metter-lo nella musica. Avevo appena terminato questa terza parte quando Michel Redolfi mi invitò a partecipare ad un festival. Parlando con lui di queste tre composizioni legate all’argomento morte, venne fuori proprio da parte sua il titolo “Trilogie de la Mort” e così e rimasto grazie a lui”.

Ó=a=b=a+b… 1969/2000
Il 2000 ha visto la ristampa del primo disco in assoluto di Eliane Radigue, un doppio 45 giri uscito per la prima volta nel 1969 in tiratura limitata a 250 copie! E inizialmente anche senza copertina… E’ stato solamente qualche anno dopo in occasione di un’esposizione nella galleria Parigina di Yvon Lambert, che quest’ultimo ha realizzato la copertina. Fino a quel momento non erano che due piccoli vinili che si potevano combinare/suonare tra di loro all’infinito a non importa quale velocità:45, 33, 78 e perfino 16 giri. La riedizione a cura di Jean Collet per la Povertech Industries di Sacramento in California, è esattamente la stessa, ma questa volta la tiratura è aumentata a 400 copie. “Come ci sono arrivata? Fine anni 60, erano le prime cose che creavo a partire da sonorità elettroniche assai grezze e selvagge. Ho prodotto una serie di lavori che adesso qualcuno potrebbe chiamare musica per ambienti. Per essere più precisa, avevo lavorato per uno scultore che aveva realizzato un’opera mobile, una grande sfera dentro la quale delle parti si muovevano lentamente e per l’insonorizzazione di questo progetto usavo tre registratori che riproducevano del-le bande sonore con una durata lievemente differente. Cosicché il suono evolveva costantemente per tutto il tempo dell’esposizione, che era di un mese. Ti posso raccontare un altro esempio: durante un’installazione fatta in una galleria d’arte di Parigi, le pareti erano state rivestite di fogli di legno compensato, sui quali avevo fissato dei diffusori che trasmettevano i suoni direttamente nel legno. Anche in questo caso le tre bande sonore erano sfasate leggermente tra loro”. “Ó=a=b=a+b”, (questo il titolo concettuale del doppio 45 giri), va nella stessa direzione, ed è stato presentato per la prima volta al festival di Como!! nel novembre del 1970 da un amico di Eliane, mentre lei era negli States. “Questo mio amico ha realizzato l’”azione” con 6 giradischi collegati ad un piccolo mixer. I dischi venivano suonati a diverse velocità e scherzando un giorno gli ho detto che è stato il primo DJ della storia! All’epoca avevo scritto anche il “Labyrinthe Sonore”, un lavoro assai più complesso. Ero stata contattata da uno degli organizzatori del padi-glione francese alla fiera internazionale di Osaka. Con lui parlai di quest’idea di una installazione basata sul sistema delle bande sonore sfasate, solo che invece di essere diffuse nello stesso luogo o da un solo diffusore, sarebbero state riprodotte in luoghi diversi all’interno del padiglione, secondo un percorso prestabilito. A tutto questo avrei aggiunto dei piccoli “incidenti sonori”, captando dei suoni in tempo reale e riproducendoli nel sistema di diffusione. Il progetto come puoi immaginare per quel tempo, si rivelò rapi-damente impraticabile. Troppo acrobatico! Alla fine tutto si ridusse ad un breve pezzo di dieci minuti. Più recentemente però ho avuto la soddisfazione di essere invitata per tre settimane al Mills College su richiesta di Chris Brandt, per condividere le mie espe-rienze con gli allievi della sua scuola. Con loro ho pensato proprio di proporre il progetto del “Labirinto Sonoro”. A quel punto la mappa del luogo divenne lo spartito, ai venticinque allievi che avevo a disposizione, si sono uniti la Corale, l’Orchestra, dei grandi solisti come Pauline Oliveros e Maggi Payne… Alla fine eravamo una quarantina di persone coinvolte nel progetto! Io avevo questa base di 7 piccoli pezzi di diversa durata, che servivano come filo d’Arianna per gli altri accadimenti sonori che ad essi si mescolava-no”. Credo comunque che tutti questi suoni selvaggi e liberi, così difficili da controllare e pilotare, abbiano una loro ricchezza ed identità. A quel punto è interessante lasciarli vivere, liberi di esprimere la loro singolarità”.

Un grazie di cuore a Werner Durand, Giambattista Comba e Maria Grazia Meda, che hanno reso possibile quest’intervista.

[pubblicato su Blow Up #35 - Aprile 2001]
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