Fredric Brown
Fredric Brown
di Roberto Curti

A volte per scrivere un racconto bastano due frasi. Non ci credete? Eccovi serviti.
«L’ultimo uomo sulla Terra sedeva da solo in una stanza. Qualcuno bussò alla porta.»
Una «piccola, soave storia dell’orrore» che Fredric Brown citava in esergo a uno dei suoi racconti più celebri, Toc toc (che in realtà dura molto più di due frasi, e scombussola proprio la succitata idea di partenza in maniera sorprendente). Ed è proprio la sintesi la dote più nota dello scrittore di Cincinnati, noto soprattutto per i suoi mirabili racconti di fantascienza, spesso brevissimi e infallibili nel prendere il lettore di sorpresa con capovolgimenti e colpi di scena che scattano all’ultima riga, se non all’ultima parola. Come l’antologizzatissimo Sentinella, Per questa volta, no, La risposta, L’esperimento. Storie partorite da una mente curiosa, capace di appassionarsi ai trabocchetti della logica (Paradosso perduto, il summenzionato L’esperimento) e alle costruzioni nonsense (Pianeta da pazzi). Come scriveva Mauro Boncompagni, «quello di Brown è un universo in cui il paradosso regna incontrastato, in cui apparenza e realtà si mescolano fino a confondersi, dove il luogo comune è un travestimento del bizzarro e dove la normalità appare spesso come un arresto momentaneo della follia generale che coinvolge tutto e tutti». Il tutto, va aggiunto, condito da un’abilità linguistica ben al di sopra della media della letteratura pulp coeva.
Piccolo, minuto, di salute cagionevole (i problemi respiratori lo porteranno a una fine prematura nel 1972, a soli 65 anni: le sue ultime volontà sono degne dei suoi racconti: «No flowers, no funeral, no fuss»), mite e dall’aria professorale, lettore enciclopedico e scacchista in erba, Brown era, per dirla con le parole dell’amico Robert Bloch, un «autentico purista lessicale […] mot juste e double entendre erano i suoi arnesi del mestiere ma lo affascinavano ugualmente le peculiarità della lingua parlata, che nelle sue opere proponeva con precisione puntigliosa», tanto che spesso le edizioni italiane dei suoi lavori tradiscono l’impaccio dei traduttori alle prese con giochi di parole, slang e quant’altro. E la sua opera è pervasa da un’ironia che Bloch paragona a quella di Ambrose Bierce, con in più «una vena giocosa che dava dimensione nuova anche al suo cinismo più sferzante e alla satira più veloce». […]

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