Ghostpoet
Ghostpoet
di Stefano I. Bianchi [intervista di Diego Palazzo]

“Non mi piace la poesia, non me ne frega niente e non ne so assolutamente niente.”
“So quello che sono, e non sono un rapper.”

TANTO PER iniziare non chiamatelo poeta e non lo scambiate per un rapper. “So che il mio errore di base è stato chiamarmi Ghostpoet. Non mi piace la poesia, non me ne frega niente e non ne so assolutamente niente”, dice Obaro Ejimiwe in una delle numerose interviste rilasciate all’epoca del primo album. “La parte ‘ghost’ del mio nome nasce dall’idea di ‘scomparire’ per permettere alla musica di prendere il tuo posto, non intendevo riferirlo a me come persona. Per la parte ‘poet’, questa l’ho messa semplicemente per non sembrare un rapper, che non è mai stato mio interesse e mai lo sarà!” A Obaro, si capisce, non difetta il carattere. “Il rap è rap, è un genere. Se qualcuno mi chiamasse ‘indie guy’ non mi piacerebbe ugualmente. Poi la gente ha la sua opinione e a me va bene lo stesso, però io so quello che sono, e non sono un rapper. Ascolto molto grime, ascolto hip hop, ascolto indie rock, dance, folk, trance. Ascolto di tutto e non m’interessa limitarmi a un solo stile. Certo, l’hip hop è stata la prima musica con cui sono venuto a contatto e nei primi anni cercavo di imitare lo stile di gente come Nas, Mos Def, Salib Kweli, Notorious BIG perché mi è sempre piaciuta la scrittura descrittiva. Ma una volta che ho conosciuto altri stili, specialmente l’indie rock, mi sono letteralmente perso dietro Patti Smith. Amavo quanto erano descrittive le sue canzoni. La poesia? No, la poesia non è mai stata la mia tazza di tè. Mi ricordo ancora quando ce la facevano studiare alle superiori e la odiavo letteralmente.”
Diciamo allora che Obaro Ejimiwe, trentenne musicista londinese di origini nigeriane, non è né un poeta né un rapper ma usa la musica per comunicare. Detto ciò, a mio avviso è arduo sostenere che sia un rapper nonostante i media lo definiscano regolarmente come tale, però che le sue parole posseggano molti elementi poetici è fuor di dubbio. Per l’attitudine e i moduli esecutivi, ascoltandolo il pensiero corre immediatamente a gente come Linton Kwesi Johnson, Gil Scott-Heron o, più di recente, Roots Manuva. Laddove gli altri trattavano dub, reggae, soul e blues, qui gli ambiti sono il rock più e meno sperimentale e l’elettronica ‘glitch’. Laddove le parole degli altri celebravano la necessità e la bellezza della lotta politica, le tensioni razziali e i travagli interiori della parte più dimenticata della società, Ghostpoest racconta un universo notturno e sfocato, popolato di dropout senza timone, perditempo e tiratardi che vagano lungo notti insonni girando intorno a vicende personali minuscole, difficoltà relazionali ed esistenziali, in generale problemi che restano vivi giusto il tempo che serve al narratore per censire la loro esistenza prima che essi svaniscano in una sorta di dormiveglia esistenziale, prima che con una nuova giornata se ne presentino di nuovi destinati a loro volta a scomparire in un ciclo ininterrotto. […]

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