Giulietta Sacco
Giulietta Sacco
di Carlo Babando

Giulietta, che oggi è più facile scoprirti con le parole di una festa di piazza. Giulietta, che nei programmi delle televisioni private napoletane finisce che qualcuno ti nomina sempre. Giulietta, che per esaltare la tua dignità artistica sembra che sia necessario chiamarti sempre l’Amalia Rodrigues italiana, o la Rosa Balistreri della Campania. Invece bisognerebbe entrare nel tuo universo in punta di piedi, assistendo come spettatori silenziosi al dipanarsi di una carriera che ebbe gli ultimi colpi di coda con la Sanacore degli Almamegretta, e poi Nino D’angelo che scopriva la world music di Peter Gabriel cucendoti addosso “Preta ‘e mare”. “Addio al cuore di Cantanapoli”, così c’era scritto l’anno scorso sui coccodrilli con cui i quotidiani raccontavano che Giulietta Sacco era morta a settantasette anni: dopo lunghi silenzi, malattie, un microfono su cui aveva di nuovo trovato brevemente il fiato nel 2012 e poi niente più. Dicono che Mina sia una sua fervente ammiratrice, e forse proprio nella tendenza a manipolare la tradizione imprimendovi una personalità fortissima potrebbe nascondersi quell’amore. Anche così, tuttavia, pare di ridimensionare una figura popolare nel senso più vero e onesto del termine. La signora bionda era soprattutto del popolo, di chi proprio in quella “Nostalgia di mandolini” trovava sensazioni antiche come la terra. E se, nel canzoniere di Rosa Balistreri, la lingua siciliana è incastonata su tappeti scabri, carsici come fiumi sotterranei, l’ancestralità di Giulietta Sacco è declinata in maniera diversa. Per questo è accostabile al ritmo del fado, magnetico per dimensione inconscia: sinuoso eppure dolorante, come tutto ciò che mescola amore e morte rendendo giustizia ad entrambi. […]

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