GUIDO MORSELLI
GUIDO MORSELLI
Fabio Donalisio

Il vuoto di GUIDO MORSELLI. E la strada di McCARTHY

Nobody home
Ci sono libri che aprono mondi, altri che li chiudono. Li esplodono o li implodono, li sfilacciano al limite dell'astratto, o li distruggono brutalmente. Il più delle volte giocano con la distopia, con il trucco di cambiare una delle coordinate dell'umano, lasciando intatta la riconoscibilità del resto, e vedere dove si va a parare. Di proposte distopiche la letteratura fantascientifica ne ha lasciate intravedere parecchie. Ma non è questo il luogo, né il tempo. Se non di notare che quasi nessuna, per motivi intuibili, attinenti all'assunto ancora inattaccabile, after all these years, di essere centrali e indispensabili nell'universo, ha rinunciato all'antroporfismo, alla verità visuale dell'anthropos. Basti pensare agli alieni dei film, ai robot dei cartoni animati. Come se il quid biologico della specie homo fosse così perfetto da essere rispecchiato ai quattro angoli del cosmo, e nelle visioni tecnologiche più selvagge. Ma non di questo, appunto. La scintilla è la rilettura di uno dei testi fondanti e (per sottrazione) fondativi del Novecento italiano, da poco riproposto da Adelphi in tascabile: Dissipatio H.G. di Guido Morselli. Un libro a suo modo maledetto, scritto poco prima del suicidio del suo autore, nel 1973, ultimo di una lunga serie di romanzi rimasti completamente inediti in vita e destinati subito dopo a una postumità perenne e criticamente acclamata.
Morselli, lombardo benestante, fu uno dei pochi che riuscirono ad affrontare la rogna della scrittura del tutto affrancati dalla servitù lavorativa. Ma nemmeno questo, a quanto pare, consegnava qualche tipo di felicità chiavi in mano e la sordità editoriale (in questo caso davvero inaudita) finì per stroncarlo per stillicidio. Un antieroe altoborghese dunque, uno sconfitto ricco dalla vita piatta e per nulla empatica. Capace però di esperire delle solitudini talmente profonde e talmente egotiche da concepire e poi scrivere (e scrivere così) la sparizione, per dissipazione, del genere umano (H.G. vale Humani Generis) nel vacuo di una notte. Il protagonista, il “rimasto”, è un uomo colto e triste, ritiratosi sui monti di una Svizzera astratta eppure rocciosa, in una frazione di un piccolo paese. Le ha tutte del misantropo. Ha in odio lo sforzo sociale produttivo comunemente noto come “lavoro”, soprattutto nelle sue declinazioni urbane. Ha fuggito la città, qui denominata Crisopoli, la città dell'oro, perché ricettacolo delle banche e della borsa, prodromo della smaterializzazione finanziaria. Ha abbandonato l'idea stessa di amore, anche nella sua accezione de minimis riguardante il mutuo soccorso quotidiano. Non ha forze sufficienti per coltivare amicizie, per scrivere lettere che non suonino ipocrite (chissà come si comporterebbe su Facebook). Ha rinunciato persino alle letture. Ha una coppia di pastori che si occupa del suo sostentamento materiale, di mantenerlo un dito al di sopra del limite del degrado fisico secondo gli standard del decoro occidentale. Ha un passato fumoso di disturbi psichici e di internamento soft in strutture curative coatte. Ama follemente la montagna e camminarla. La progressiva e cercata destrutturazione dell'individuo non può che culminare nella morte. E così, una notte, sale verso una grotta in altura, nel nulla roccioso delle vette, dove un sifone naturale costringe all'annegamento chi ci dovesse cadere dentro. [...]


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