I Love Dick
I Love Dick
di Luca Malavasi

“Dear Dick, hickory dickory dock. Time is nearly up and you still haven’t put down your papers long enough to tell me the one thing I’ve always needed: you’re normal. Fuck you, Dick”; oppure: “Dear Dick, your eyes have branded my heart & soul. With every sunrise you bring me closer to God. You broke me so that love now has an entrance. Thank you Dick”.
Di lettere indirizzate a Dick, e quasi sempre in bilico tra la supplica, l’insulto e l’ossessione, è pieno il sito http://www.wewillnotbemuzzled.com, aperto da Amazon Studios come prolungamento a uso e consumo dei fan della serie in otto puntate (rilasciate a maggio) I Love Dick. In ogni caso, comunque vada, lettere d’amore, perché “Every Letter is a Love Letter”, o almeno così sostiene la protagonista, Chris (la straordinaria Kathryn Hahn), alter ego autobiografico di Chris Kraus, autrice del romanzo (epistolare, pubblicato nel 1997) dal quale è tratta la serie. Artista, saggista, accademica, intellettuale e soprattutto femminista, Kraus fa questa volta – vent’anni dopo – da consulente per Jill Soloway, che produce e in parte dirige (alternandosi con Andrea Arnold) un racconto sopra le righe, snob, nevrotico, cólto sul desiderio delle donne, sulla sessualità, sul rapporto tra femminile e maschile. Una specie di spin-off dell’altro show di Soloway, Transparent (sempre Amazon Sudios, tre stagioni 2014-2017), nel quale Kathryn Hahn interpreta un rabbino; qui, invece, è una regista fallita (il suo ultimo film è stato rifiutato a Venezia), una moglie inquieta (dello scrittore e critico letterario Sylvère Lotringer, che ha il volto di Griffin Dunne) e un’innamorata autodistruttiva del Dick destinatario delle lettere (Kevin Bacon), che nel libro di Kraus è un intellettuale e un accademico e l’unico a non avere un cognome e un preciso riferimento nella realtà. All’epoca venne riconosciuto nel sociologo e teorico dei media Dick Hebdige (riconoscimento probabilmente corretto), ma nella serie Tv le cose cambiano, come pure la location: da New York a Marfa, in mezzo al nulla espanso del Texas, dove Dick è uno scultore concettuale con tanto di fondazione a suo nome e programma per residenze d’artista (Sylvère è lì, assieme alla moglie, grazie a una borsa di studio per scrivere un libro sull’Olocausto). Profilo non proprio inventato dal nulla, perché a Marfa Donald Judd (le cui sculture ricordano quelle di Dick, o viceversa) ha, per l’appunto, una fondazione (Chinati) che espone e attira artisti da tutto il mondo; ma il riferimento ha più il sapore dell’omaggio, ed è evidente che a Soloway il cambio di set interessa soprattutto perché catapulta i nevrotici intellettuali newyorkesi in un cenacolo di creativi insofferenti alle regole e ai limiti (e che lavorano attorno a questa insofferenza) chiuso, si fa per dire, tra la provincia e il deserto: l’esplosione epistolare di Chris sembra nascere, in effetti, anche dal desiderio di occupare con le parole un orizzonte senza fine e un tempo sospeso tra i silenzi cowboy e la poetica anti-intellettuale di Dick. […]

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