Iannis Xenakis
Iannis Xenakis
di Piercarlo Poggio

Personaggio obliquo e naïf, Xenakis è stato oggetto nel corso dell’anno di omaggi intesi a celebrarne il genio proteiforme. Tra essi vale la pena ricordare la mostra “Révolutions Xenakis”, tenutasi dal 10 febbraio al 26 giugno alla Cité de la Musique di Parigi, curata dalla figlia Mâkhi e da Thierry Maniguet, con le scenografie di Jean-Michel Wilmotte. Un riuscito tentativo di illuminare l’opera del maestro secondo una prospettiva non specialistica e di relazionarla con i sommovimenti politici e culturali della sua epoca. In ambito discografico si segnala invece il cofanetto in cinque cd/lp della Karlrecords “Electroacoustic Works”, sguardo compiuto su uno specifico settore del vasto catalogo di X., una sequenza di titoli mixati e ripuliti dal tecnico del suono Martin Wurmnest (zeitkratzer) che, a partire dalle prime esperienze vicine alla musique concrète realizzate alla fine degli anni Cinquanta, giunge a documentare, dopo l’intermezzo dei visionari e travolgenti Polytopes (1969-1978), la fase elettronica dei Novanta resa possibile da nuove tecniche e tecnologie.
X. amava dire di essere «nato venticinque secoli troppo tardi», a significare la sua ossessiva idealizzazione dell’antica Grecia, universo in cui filosofia, scienza, natura e arti erano giunte a una inedita fusione. Non per nulla si porterà appresso per tutta la vita una copia della Repubblica di Platone, letta e riletta un’infinità di volte e in qualche misura ispiratrice di La Légende d’Eer. Eppure l’interesse per il passato (si appassionò anche alle civiltà precolombiane) non gli impedì di rivolgersi in modo pionieristico verso la modernità più radicale. In lui i ruoli di compositore, architetto, ingegnere, matematico e informatico, in luogo di frazionarsi in rivoli distinti concorrevano a definire l’originalità dell’uomo e del creatore instancabile. Era evidente perciò che nel suo immaginario il suono non potesse ridursi a qualche nota da distribuire su un pentagramma. «La musica non è un linguaggio, ogni brano è piuttosto una roccia dalla forma complessa con striature e disegni incisi sopra», dichiarava X. alla presentazione del Diatope realizzato nel 1978 per inaugurare il Centre Pompidou, messaggio cifrato indicante la necessità di tornare alle origini filosofiche e poetiche dell’arte. Un modus operandi messo in pratica sin dagli esordi, oltre vent’anni prima, motore di una ricerca del tutto pura e astratta che agiva sulla musica contemporanea nutrendosi di tradizioni giapponesi, balinesi e indiane. […]

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