Il cinema afroamericano nell'era Obama
Il cinema afroamericano nell'era Obama
di Antonio José Navarro

[foto da Chi-raq, Spike Lee 2016]

Quando il 20 gennaio 2009 Barack Obama assume la presidenza degli Stati Uniti, un misto di gioia, speranza, meraviglia e inquietudine avvolge la nazione. Obama è nero, anzi, mulatto, figlio di un economista keniota e di una donna bianca del Kansas di origini irlandesi; e fin dal principio, la sua figura pubblica e privata è oggetto di critiche e attacchi ben superiori al consueto. Come spiegano A. O. Scott e Manhola Dargis nel “New York Times”, «il presidente Obama ha funzionato come uno schermo su cui gli americani hanno proiettato le loro paure e fantasie. Da destra, è stato ritratto come un mostro le cui politiche erano un cammino terrificante verso il socialismo o altra esotica forma di tirannia. Per i liberali, al contrario, è stato una delusione a causa della sua volontà di negoziare coi repubblicani, rinunciando a lottare».
Anche alcuni leader della comunità nera lo tacciano di “falso” afroamericanismo, perché nelle sue radici non c’è il marchio infame della schiavitù – la sua eredità mista è il prodotto dell’amore tra due persone, e non degli stupri delle schiave da parte dei padroni –, critiche che lo stesso Obama alimenta rifiutando di fare della sua blackness l’epicentro della sua presidenza: «Non sono un presidente nero, ma un presidente che si dà anche il caso sia nero». Obama si distacca dallo stereotipo dell’afroamericano buffo o minaccioso abituale al cinema e in TV. Si scopre che è un tipo intelligente, eloquente, tranquillo e sicuro di sé: il sogno dell’uguaglianza razziale di Martin Luther King, in base al quale gli individui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per le capacità e il temperamento, sembra essersi fatto realtà. […]

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