Insides
Insides
di Beppe Recchia

QUANDO agli inizi di settembre ha cominciato a circolare la notizia di un sicuro ritorno degli Insides e della pubblicazione di un album, il primo in venti anni, un manipolo di estimatori – magari non più di una ventina, incluso chi scrive – sparso ai diversi angoli del mondo, sarà andato comprensibilmente in iperventilazione. Le ragioni sono molteplici, alcune semplicemente legate all’effetto spiazzamento – laddove le preziose ristampe e le nuove masterizzazioni venute alla luce lo scorso anno sembravano più volgere lo sguardo al passato, che lasciare intravedere un possibile futuro – o al dato meramente affettivo di poter finalmente scrivere l’happy ending di una carriera musicale precocemente interrotta alla metà degli anni ’90 dalla petulante e retromaniaca macchina pubblicitaria del britpop, incapace, al di là dei singoli meriti artistici, di lasciare spazio a qualcosa che fosse “diverso”, e in primo luogo da sé.
Ma c’è una ragione ancora più importante e profonda: gli Insides hanno incarnato – insieme, tra gli altri, a Disco Inferno, Seefeel, Moonshake, Pram – una delle stagioni più brevi e luminose della musica britannica, quando la spinta all’astrattismo chitarristico da un lato e la maggiore accessibilità di campionatori e sequencer dall’altro indicavano la strada della decostruzione dei cliché del rock e suggerivano la codificazione di un nuovo linguaggio di sintesi, quasi di un nuovo pop. O come avrebbe detto Simon Reynolds, di un post-rock, espressione che, per quanto finita in seguito a rappresentare anche cose molto diverse, doveva intendersi come una categoria aperta, uno spazio delle possibilità. Le (poche) pagine che hanno scritto Kirsty Yates e Julian Tardo hanno pochi punti di contatto con quanto sia successo prima, o dopo, di loro; e il nuovo “Soft Bonds” [recensione sul numero scorso] prosegue caparbiamente su strade sinora troppo poco esplorate. […]

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