Jack Bruce
Jack Bruce
di Alberto Pezzotta

QUALCHE SETTIMANA dopo la morte di Jack Bruce (25 ottobre 2014) passavo davanti a un negozio di dischi (si dice ancora così?), uno dei pochi che sopravvivono a Milano, e in vetrina c’era un cofanetto con una raccolta di Eric Clapton, ma del bassista dei Cream non c’era nulla. Negli obituaries nostrani sui principali quotidiani, tutto ciò che nella carriera di JB è seguito allo scioglimento dei Cream (dal 1968 al 2014, quarantasei anni contro i tre del trio con Clapton e Ginger Baker) era un buco nero, liquidato come un periodo trascurabile in cui JB faceva il “turnista”. Al massimo si ricordava il contributo ad Apostrophe, un Frank Zappa che ai miei tempi veniva considerato minore, o a Berlin di Lou Reed. Un po’ poco.
Perché Jack Bruce non è diventato un mito come Zappa o Reed? Che cosa fa il prestigio e la rilevanza nella musica rock? Che cosa assicura un posto nella Storia? Il numero di dischi o CD venduti, il numero di download, la folla ai concerti? Il numero di biografie? (Di Bruce ce n’è una, onesta, di Harry Shapiro, Jack Bruce: Composing Himself, Jawbone, 2010.) Qualche convegno accademico di media studies, una raccolta di saggi pubblicata da qualche University Press? Immaginiamo il titolo: Smiles and Grins. Twisting Genres in Jack Bruce’s Songwriting. Oppure: Bass Desires and Ego Trips: A Lacanian Approach on the Roles in Jack Bruce’s Bands, Improbabile, eh? E allora cosa fa la fama? Il culto fedele sotterraneo e costante di qualche migliaia (o decine di migliaia) di aficionados sparsi per il mondo, che alimenta collezionismo e ristampe, e alla fine arriva a imporre un nome in una Hall of Fame di happy fews convinti di avere gusti migliori degli altri, e forse neanche tanto desiderosi di diffondere il Verbo? Forse. Anche se il rischio è che a furia di dire che il tale è sottovalutato, poi diventa difficile reperire qualcuno che l’abbia effettivamente sottodimensionato, mentre il consenso è diventato ecumenico e conformista senza che nessuno sembrasse accorgersene. È quello che è capitato, nell’arena della Patrie Lettere, a Luciano Bianciardi e Tommaso Landolfi, così “sottovalutati” che non ci si ricorda di nessuno che non li abbia posti sul piedistallo (e parla uno che si è laureato su Landolfi, nel lontano ’89) E il vittimismo ingiustificato dei fan club esoterici diventati istituzionali supera per antipatia la costruzione identitaria snobistica degli happy fews. Cerchiamo di evitare entrambi. […]

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