JIM THOMPSON
JIM THOMPSON
di Roberto Curti

La strada? Certo, la strada lì.
E ora sembra che la strada sarà per sempre;
Non bianca, non soffice, non giusta,
Ma dura e dritta come una strana eternità.
(Prologo: una strada e un ricordo, in Una spaventosa faccenda e altri racconti)


IN UN’ALTRA VITA, forse, Jim Thompson sarebbe diventato un musicista, di quelli che con le chitarre ammazzavano i fascisti. Amava Hank Williams, Woody Guthrie, Leadbelly e i Louvin Brothers. E il suo mentore, l’uomo che lo introdusse alle opera di Eugene V. Debs e Karl Marx, plasmandone la coscienza politica – dirà Thompson, all’epoca trivellatore nei pozzi di petrolio dell’Oklahoma, che leggere il Capitale fu «il punto di svolta della sua esistenza», e che Marx gli «aveva dato le parola per capire la sua vita»[1] –, fu un cantautore, hobo e agitatore politico alla Woody Guthrie di nome Harry Kirby McClintock, meglio noto come “Haywire Mac”, celebre soprattutto per la prima versione di Big Rock Candy Mountain: Thompson lo ritrarrà (cambiandone il nome in “Strawlegs” Martin) nella sua autobiografia romanzata Bad Boy (1953). Racconta poi il suo biografo Robert Polito di un’estemporanea esibizione canora con la sorella maggiore Freddie, nel 1928, con l’appena ventiduenne Jimmie a sgolarsi in una stonata versione di Frankie and Johnnie. La ballata di due amanti, un adulterio che finisce nel sangue. Amore, tradimento, morte. In queste tre parole c’è già tutto Thompson. O quasi. Ne manca una: fuga. L’opposto di viaggio, il movimento su cui si fonda il mito americano: progresso, scoperta, conquista. In Thompson c’è regressione, ritirata, sconfitta. Altro che destino manifesto!
È vero che «i libri di Thompson sarebbero inconcepibili senza il retaggio di tutti gli scrittori pubblicati da Black Mask tra gli anni ’20 e ‘30»[2], ed è innegabile l’affinità con autori quali Dashiell Hammett – se non altro per l’amore per la bottiglia e la militanza nel partito comunista negli anni ’30 – e il drappello degli scrittori noir suoi contemporanei. Ma James Myers Thompson (1906-1977) è in realtà più vicino ad altri lidi. Presentando nella prestigiosa Série Noire di Gallimard Pop. 1280 (1964) Marcel Duhamel spendeva i nomi di Céline, Henry Miller, Erskine Caldwell e addirittura Lautréamont. Goffredo Fofi, nei «Quaderni piacentini», riprendeva l’analogia con l’autore di Viaggio al termine della notte aggiungendo un altro carico da undici: William Faulkner. Per Geoffrey O’Brien era «un Dostoevskij da dime-store». Troppa grazia? Certo, Thompson scriveva romanzetti pulp, una trentina scarsa in trent’anni, tredici solo tra il ’52 e il ’56, cotti e mangiati con i ritmi folli dello scribacchino che lotta per arrivare a fine mese, e che macina pagine come un hobo macina miglia. Butta giù l’esordio, Inferno sulla terra (Now and on Earth, 1942, sorta di autobiografia romanzata sui suoi giorni da operaio aeronautico) in appena dieci giorni (secondo quanto lui stesso racconta, in una pulciosa stanza d’albergo e con una macchina da scrivere fornitagli dall’editore, lavorando «alla media di venti ore quotidiane, senza mangiare quasi nulla e dissetandomi ogni tanto da una bottiglia di whisky»). Ma alla fine dei ’60, quando il mercato dei paperback si è ormai rinsecchito, spodestato dalla TV, e i suoi libri sono fuori catalogo, si arrabatta ancora alla meno peggio nel disinteresse degli editori, tra copioni-marchetta per il piccolo schermo, romanzi abbandonati e una vena ormai agli sgoccioli. […]

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