J.J. CALE
J.J. CALE
di Stefano I. Bianchi

A RIGOR DI LOGICA la musica di JJ Cale sarebbe folk, dato che è un po’ blues, un po’ country e un po’ jazz. Eppure, se le caratteristiche del folk devono essere la comunione dei sensi e dei sentimenti, i suoni della solidarietà e della spartizione di gioie e drammi, insomma la carne da condividere con gli altri, le sue canzoni sono tutto fuorché folk. Non si espongono mai: usano la lingua di tutti ma la parlano a pochi. Sono canzoni confidenziali e intimiste, introspettive fino a sembrare introverse, non attraggono mai occhi indiscreti. Nessuno ha mai suonato come Cale nella storia delle musiche folk e nessuno probabilmente riuscirà mai a farlo; le sue note spingono all’emulazione ma costringono alla frustrazione. Come in un racconto di Carver, pochi suoni disegnano interi mondi e scavano nella profondità dei sentimenti con una limpidezza e una brevità tali da restituire la paradossale idea di allungamento, iato, sospensione. Da cui la peculiare definizione del suo stile come laid back, cioè rilassato, tranquillo, riservato, informale, gestito senza affanno né ansia, forse anche pigro e indolente. È anche uno stile vocale originalissimo il suo, e rimanda direttamente al vecchio crooning pop-jazz, quando il cantante confidenziale mormorava sussurrando al microfono come fosse l’orecchio di un’amante. Aliti, soffi e carezze di parole dette a un quarto di voce, quasi parlate; “Call me the breeze” titola una delle sue canzoni più celebri, ed è una vera brezza leggera, un bisbiglio basso ed erotico. Mi viene in mente solo un altro nome ‘folk’ il cui suono sia stato tanto radicalmente personale ed esclusivo, quello di Loren Connors.
John Weldon Cale da Oklahoma City (ma cresciuto a Tulsa), classe 1938, è sempre vissuto ai margini di qualunque business e ha avuto molta fortuna nel riuscire a farlo. La prima e principale, quella d’esser stato coverizzato da gente più capace di lui a trasformare in moneta l’emozione: Eric Clapton e i Lynyrd Skynyrd che hanno rifatto Cocaine, After Midnight e Call Me The Breeze gli hanno assicurato una vecchiaia tranquilla e lontana da quei riflettori così inadatti alla sua persona rustica e gentile. Ma ce ne sarebbero ancora tanti e molto disparati da citare: Tom Petty, Captain Beefheart, Santana, Randy Crawford, i Kansas, la Allman Brothers Band, Johnny Cash, la Band, Chet Atkins, Freddie King e i Widespread Panic hanno ripreso le sue canzoni, Neil Young, Mark Knopfler e Bryan Ferry lo citano come influenza fondamentale e alcuni di loro, dallo stesso Clapton ai Dire Straits, hanno cercato di ripetere il suo suono fallendo con grande fortuna. Il più duraturo e fedele di essi, Eric Clapton, è anche riuscito a incidere un disco con lui nel 2006, dopo decenni di corte insistente; ma nonostante il successo commerciale e critico “The Road To Escondido” è un album che non ha aggiunto altro che una fastidiosa patina di eleganza e professionalità alle canzoni trasformandole in un disco che non avrebbe dovuto essere e ammorbandole con assolo educati e puntuali e una voce suadente in primo piano che sono l’antitesi del laid back. Naturalmente è una fortuna che il disco esista per il discorso delle royalties, ma valga quanto disse JJ in un’intervista dell’89 a proposito dei suoi discepoli: “Questi ragazzi, tipo Clapton e Mark Knopfler, prendono in prestito le idee. Qualcuna la prendono da me e qualcun’altra da altri. Anch’io ho fatto lo stesso prima di loro ma è comunque un piacere vedere che gente di questo calibro si ispira a me. Come songwriter il loro lavoro mi ha portato sotto i riflettori e mi ha permesso di non fare quel che fanno loro, cioè agitarsi tanto per apparire dappertutto. Io scrivo le canzoni e me ne sto per i fatti miei, loro le incidono, ne fanno un successo di massa e mi portano i soldi. Cosa potrei chiedere di più?” […]

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