Joyce Carol Oates
Joyce Carol Oates
di Luca Malavasi

TRUMAN CAPOTE l’ha definita una scrittrice illeggibile, una che batte a macchina («That’s not writing, that’s typing»), una creatura ripugnante, uno scherzo della natura che andrebbe decapitato in pubblico. E trattandosi di Capote, si potrebbe anche soprassedere: è noto quanto amasse farsi, più o meno gratuitamente, dei nemici, incendiare un mondo, quello delle belle lettere statunitensi, dal quale si è sentito, un po’ troppo spesso, sottostimato, e quanto poco gli piacessero gli scrittori americani (di successo) a lui contemporanei (più di tutti, Norman Mailer e Gore Vidal). Ma sulla ripugnanza che Joyce Carol Oates provoca in Capote incidono anche più rilevanti questioni “professionali”, e se una di queste – lui scrive relativamente poco, e con molto tormento; lei tantissimo, forse troppo, e un po’ di tutto – rimanda, in fondo, a una certa idea “romantica” dell’arte e dell’artista, del tutto opinabile, una seconda riguarda più direttamente la scena letteraria americana di fine anni Sessanta. Nella quale, dopo un paio di raccolte di racconti e un romanzo “giovanile”, Oates si afferma con un’imponente tetralogia finalmente tradotta da Il Saggiatore, quattro romanzi – Il giardino delle delizie, I ricchi, Loro, Il paese delle meraviglie – che, pubblicati tra il 1967 e il 1971, hanno origine da un’idea di letteratura che non potrebbe essere più lontana da quella che Capote ha faticosamente distillato con A sangue freddo (1966), il romanzo – il suo ultimo, di fatto – che dà avvio alla crisi dell’autore (per metà personale, per metà letteraria: contava su un’acclamazione tradotta in premio, il Pulitzer o almeno il National Book Award, che non arrivò). Un’idea alla quale Capote è rimasto fedele fino alla fine, come rivela Musica per camaleonti (1980), e che battezza non-fiction novel, mescolanza audace di cronaca e racconto, fatti e parole, osservazione documentaria e riscrittura romanzesca, guadagnandosi, tra gli altri, il plauso di Tom Wolfe, che in quegli anni sta facendo più o meno la stessa cosa, muovendo però dal giornalismo; ma non bastano, il personaggio Capote e la sua scrittura pungente e cristallina, a innescare la rivoluzione che egli aveva auspicato, mentre Oates, con i suoi romanzi fluviali in rapida successione – letteratura sfrenata, traboccante, ispirata, in cui l’autrice parla ad altissima voce (spesso per bocca dei suoi fragili e complicati personaggi) e l’indagine della “passione” distorce con le sue allucinazioni la realtà –, si guadagna consensi critici, successo di pubblico, premi che contano. Nella postfazione (2002) a Il giardino delle delizie ricorda: «Era come se avessi cosparso di benzina tutto quello che mi circondava e avessi acceso un fiammifero, e le fiamme che ne sono follemente scaturite erano, in qualche modo, il combustibile del romanzo e il romanzo stesso». Niente a che vedere, insomma, col “freddo” di Capote. […]

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