La scrittura nel disastro
La scrittura nel disastro
di Fabio Donalisio

Lo mondo è ben così tutto diserto
[Purg., XVI]

Rimemoravano il nome del dolore
[Gadda, sceneggiatura per il finale]

La povertà, la cupidigia che ne deriva ai poveri, come pure la mescolanza amore-denaro, stringono di una continua, latente minaccia la vita e la proprietà dei ricchi, apparentemente certe e sicure negli istituti di difesa, nelle leggi, nel provvisorio equilibrio di fatto. I ricchi credono di ottenere per amore quello che ottengono “pagando”, volenti o nolenti. I poveri fingono (o comunque esercitano) l'amore per essere pagati o per ripagarsi, in un modo o nell'altro
[Gadda, nota a La casa dei ricchi]

Cor gran ritratto de Quer Tale appeso al muro: un grugno, perch'era nato scemo, de volé vendicasse de tutti
[Gadda, Pasticciaccio]

La parola fu dapprima un culto, e poi divenne un mestiere / Non esistono più possibilità di liberazione, non essendo più possibile parlare di oppressione
[Blanchot, Disastro]

Teniamolo a mente: ci sono alcune idee che noi idealisti speravamo non sarebbero mai venute meno / L'individuo improbabile, accidentale, con le sue ambizioni idiote
[Grünbein, Discorso di Milano]

Non esiste uno schema mitico per decifrare la mutazione attuale della fine dei tempi. Non sappiamo come concepirla, come darle la forma del mito o della storia, e così incancrenisce e dilaga, una malattia circolatoria culturale / La nostra intera civiltà si poggia su fondamenta di diluvio e fiamme
[O'Connell, Appunti da un'apocalisse]

Dobbiamo comprendere il dolore come una forma radicale di insurrezione / Con ogni sacrificio il deserto avanza
[Demonologia rivoluzionaria]

Una guerra rivoluzionaria contro lo Stato metropolitano moderno non si può combattere se non all'inferno
[Land, Collasso]

NON SI PUÒ procedere che per frammenti, come ha reso visibile, una volta per tutte, Blanchot nella sua estrema (quasi postrema) Scrittura del disastro, meritoriamente riproposta dal Saggiatore dopo anni di latitanza; e non vi è altra maniera che l'incompiutezza, la consapevolezza dell'impossibilità di concludere un qualsiasi discorso: pena la semplificazione a oltranza del linguaggio, la twitterizzazione del pensiero; in ultima analisi il nuovo fascismo. Nel peggiore dei casi, resta la descrizione dell'afasia, l'argomentazione del vuoto linguistico con gli strumenti imperfetti della lingua. Tutte cose del secolo scorso, si dirà. Obiezione (ac)colta, vostri onori onorevoli, anzi: (ac)coltissima. Ma se la fisica subatomica ha dimostrato l'inconsistenza della concezione lineare del tempo, nello stesso momento in cui l'agonia socialdemocratica ha officiato frettolose esequie (con tanto di kirie e confutatis) alla nozione illuminosa di progresso, forse varrebbe la pena concedersi qualche movimento di pensiero retrogrado, retrospettivo, retrambulo o finanche reazionario, pur di trovare una forma linguistica (e chi lo sa? magari pure letteraria) per esprimere i tempi funesti in cui abbiamo la ventura di perpetrare le funzioni biologiche di base (produci-consuma-crepa, si sarebbe detto nel tardo Novecento). Certo una cosa, un'unica cosa non si dovrebbe: contraddire in modo così vistoso il teorema di Wittgenstein, scrivere con tanta foga di tutto lo scrivibile, perseverare nell'insana fiducia nella forma narrativa come panacea di tutti i mali, anestetizzare la sovversione del dolore con i paludamenti confortevoli del romanzo iperrealistico. L'oltranza romanzesca, il romanzo “a tutti i costi” che, banalizzando ogni singolo possibile gesto, ogni possibile sfumatura emotiva in una lingua di koinè aliena da ogni guizzo, sta contribuendo alla paralisi delle facoltà fantastiche del cervello umano, nonché al bando del pensiero dalla letteratura. Tocca forse riscoprire addirittura la radicalità fanfarona di un Giambattista Marino, in pieno Seicento, piuttosto, per capire dove siamo finiti. A forza di tutto è poetabile dov'è la poesia? O meglio, dov'è il pensiero della e nella poesia? Dove sono le possibilità poietiche della letteratura? […]

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