LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, foto di Davide Betella]

Nana Bang
Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp
Teatro Borsoni, Brescia, 23 marzo 2025
Non sarà come ai “vecchi tempi” – che tanto vecchi poi non sono: parliamo di circa tre lustri fa – in cui Brescia respirava brezze una tantum non inquinate dalle industrie ma creative, ciò nonostante è un gran bel segnale che una delle colonne della scena cittadina torni in pista tastando il polso al qui e ora. Marco Obertini (promoter, DJ e svariate altre cose: lui, comunque, preferisce definirsi “agitatore”) conferma uno sguardo da sempre focalizzato sull’attualità nella rassegna curata al Teatro Borsoni intitolata “Café Tassili”: il nome, infatti, mette in risalto l’idea di un luogo di incontro e una concezione del viaggio sonoro come esperienza (multi) culturale, sottolineando quanto confini e barriere siano concetti insensati. Anche se il mondo occidentale spinge in direzione contraria, per fortuna c’è chi ancora si affida alla curiosità, all’apertura mentale e al crossover e, dopo il concerto di Bombino nell’ottobre 2024, invita sul palco Massimo Siviero, Sarathy Korwar e per l’appunto la Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, alla quale è spettato il compito di inaugurare la rassegna con un’entusiasmante musica “totale” che scavalca i generi e le categorie perché sa da dove proviene e dove è diretta.
Con la contaminazione e la trasfigurazione del passato lavorano anche Andrea Fusari e Beppe Mondini alias Nana Bang, progetto scaturito dai Gurubanana che ha preceduto gli svizzeri in una scelta molto azzeccata, poiché il loro minimale, surreale folk elettroacustico percorso da ricordi blues, tecnologia garagista, finestre melodiche d’autore e stralunate filastrocche incarna l’anello di congiunzione tra Kevin Ayers, i Violent Femmes e dei Suicide con la gioia di vivere. Se per alcuni saranno una sorpresa (cercate i loro dischi: ne vale la pena), l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp può essere annoverata senza alcun dubbio tra i classici contemporanei. Seria però mai seriosa, la folta banda elvetica vanta il dono dell’originalità e da tempo porta avanti una concezione di suono “progressista” che, assecondando istinto e ragione, trasporta in una fertile terra di nessuno dove carezze folk, obliquità new wave, tiro afrofunk, archi torti e ritorti, ottoni che sferzano e voci che si intrecciano sono magnifica cosa sola e, sì, unica. Decollando da album di eccellente fattura, nel loro caso la dimensione concertistica costituisce uno spazio ideale per sprigionare l’intesa ineffabile che sul serio appartiene a un’orchestra onnipotente: ovvero, al collettivo capace di costruire solidi ponti tra ipotesi di The Ex color pastello e di una Penguin Cafè Orchestra punkettosa, di travolgere con un misto di gioia e introspezione e, attingendo da un post che è prima attitudine e poi stile, di disegnare panorami in cui ti smarrisci. Dopo bis invocati con entusiasmo ti scopri felice e carico di energia. Di più, da una fresca domenica sera di inizio primavera non avresti potuto desiderare. Giancarlo Turra


Thus Love/Dream Nails
Covo Club, Bologna, 15 marzo 2025
I Thus Love si sono trovati appena prima della pandemia in un fienile in mezzo a un bosco nei pressi di Brattleboro, nel Vermont, l’hanno chiamato “Hobbit Hole” e ne hanno fatto il quartier generale dove scrivere e registrare le loro canzoni. Non hanno alcuna attinenza apparente con Joseph Rudyard Kipling, che pure a Brattleboro trovò dimora sul finire del 1800 e vi scrisse, tra gli altri, “Il libro della giungla”, e nemmeno con H.P. Lovecraft, che in quella cittadina ha ambientato parte del racconto “Colui che sussurrava nelle tenebre”. Piuttosto, vanno in giro con un’attitudine dichiaratamente queer – si fanno chiamare con pronomi tipo they/them (aka Echo Mars, voce e chitarra), he/they (il batterista Lu Racine), she/they (la bassista Ally Juleen) ed infine he/him (Shane Blanck, chitarra e synth) – e da quel fienile in mezzo al bosco sono poi usciti con due dischi che, questione di tempo e opportunità, li faranno famosi. Nel frattempo arrivano in Italia di soppiatto per un paio di date (Milano sold out e Bologna quasi) inserite in un fugace tour europeo che a loro fa curriculum mentre noi che siamo diversamente giovani e nostalgici, apprezziamo anche per la situazione contingente (l’intimità del piccolo club, i gruppi tutti da scoprire, vecchi e nuovi amici che si incontrano…) che un tempo era la normalità e oggi fa venire la pelle d’oca per quanto fosse romantica e ancora non lo sapevamo.
Ad aprire la serata sono le Dream Nails, un terzetto al femminile (o riot girl, o transgender che dir si voglia) proveniente da Londra, che ama definirsi una via di mezzo tra Ramones e Bikini Kill ma, pur non difettando in simpatia, con una personalità che al momento sembra ancora compressa al livello delle intenzioni. Anche per loro due soli dischi all’attivo e quindi una manciata di canzoni che incuriosiscono più per le tematiche dei testi che non per il genio artistico e, per tale che è l’omologazione con i canoni estetici del post punk in voga negli ultimi anni, dopo averle ascoltate risulta difficile pronosticare loro un futuro minimamente radioso. I Thus Love, al contrario e come già detto, di personalità ed esuberanza ne hanno da vendere a rimorchio di Echo Mars, il frontman con l’espressione strafottente à la James Dean che si confonde in una morbida ambiguità fatta di sguardi e ammiccamenti ad ampio raggio. Soprattutto però hanno già un ampio repertorio di canzoni ispirate che acchiappano al primo ascolto. Ci puoi sentire i Dream Syndicate come i Pavement in On The Floor o Lost In Translation, ad esempio, altrove riverberano i Replacements, ma tutte sono solo attinenze che valorizzano un percorso stilistico personale che i Thus Love si stanno costruendo con cognizione e buon gusto. E poi dal vivo, già alla loro giovanissima età, sono essenziali, eccitanti e divertenti, il che rende tutto più esclusivo e unico, non solo in prospettiva. Andrea Amadasi


Fennesz
Napoli, "Live In Auditorium" (Rockalvi Main Out Basemental), Auditorium Novecento, 13 marzo 2025
Dopo vent’anni Fennesz torna a Napoli. Su disco il meglio ormai viene dal passato. Cosa aspettarsi dunque da un live del restio musicista austriaco? Non so se tutti hanno apprezzato (la maggior parte sembra di sì), ma la versione della sua musica, questa sera, non aveva molto a che fare con le sonorità sospese dei dischi. Certo, il modo di trattare il suono e di lavorare i pezzi è lo stesso, e in questo è decisamente un maestro, ma, questa sera, è proprio il suono, la matrice sonora a deflagrare, e Fennesz ne ha assecondato i sommovimenti magmatici. Sarà che qui ormai si vive di bradisismo e scosse telluriche, ma il concerto ha dirottato la musica dalle volute eteree, per certi versi ambient, verso profondità dense e scure, andando in profondità. I suoni non venivano dall’aria e manco dal tablet ma dalla terra, da sottoterra, con una fisicità debordante (un amico – per sicurezza – si è sentito il concerto con i tappi alle orecchie e “pazienza – ha detto lui – se ho perso qualche armonica”) in cui le sfumature non sono state date da discrete linee eleganti ma da bordate di noise, in un flusso incandescente ma oscuro, sotterraneo, che – però – fa sentire il suo effetto in superficie. Le casse, come totem postapocalittici o antenne mimetiche, sono state le vere protagoniste. E, inutile nasconderselo, tra queste masse sonore non è improbabile avvertire avvisaglie di guerre incombenti, di altri boati o ruggii, di altre sirene. Forse la rabbia (sì proprio rabbia) con cui Fennesz ha aggredito più che suonato la chitarra ha a che fare con queste avvisaglie. Meno consapevole e denso ma bravo Noklan che lo ha preceduto e introdotto con un set all’altezza. Girolamo Dal Maso


Godspeed You! Black Emperor
OGR, Torino, 8 marzo 2025
Alle otto di sera l’imponenza architettonica postindustriale delle Officine Grandi Riparazioni (in sostanza, dove per circa un secolo e fino al 1992 si faceva manutenzione ai treni) fa da sfondo al lungo serpentone di gente in attesa di entrare, regalando un supplemento d’enfasi visiva alla prima del ritorno in Italia dei Godspeed You! Black Emperor, già segnalati in ottima forma dagli “spifferi” francesi e soprattutto spagnoli dei concerti immediatamente precedenti. Nonostante questo però, il sold out non è nelle corde dei GY!BE in un luogo così grande e incombente, ma a ben vedere è pure meglio così, con quegli ampi spazi nelle retrovie dove potersi accoccolare in comodità e godere di un’esperienza differente, meno conforme alla situazione e quindi più intima, in ogni caso molto immersiva. Prima però c’è da scrollarsi il pur volenteroso Mat(hieu) Ball, il chitarrista dei Big Brave che usa sollecitare compulsivamente sugli amplificatori le meccaniche per nulla celesti della sua Gibson per scatenare un lungo bordone di stridori saturi che si collocano nell’ambiente come complementi di design sonoro sì ricercati ma discutibilmente significativi, e che alla fine non fanno clamore né lasciano segni particolarmente indelebili nella memoria. Poi alle dieci le luci tornano ad abbassarsi e, come loro consuetudine, uno alla volta i GY!BE salgono sul palco per raggiungere ognuno il proprio strumento nel proprio spazio di pertinenza, lungo una linea a semicerchio anche questa ormai consolidata. Da questo momento gli elementi che contraddistinguono lo spazio, il suono e le immagini vintage proiettate con pellicole sovrapposte da Philippe Léonard, appostato di fianco al mixer, si uniranno in una simbiosi situazionista così esclusiva che non lascia prigionieri, lungo l’ora e mezza di concerto tra cavalcate strumentali imponenti e stratificate e momenti in cui i più piccoli dettagli fanno la gran differenza. Un concerto che ha come spina dorsale la quasi totalità dell’ultimo disco: all’inizio Sun Is A Hole Sun Is Vapors, Babys In A Thundercloud e Raindrops Cast In Lead sono però ancora più dilatate, epiche e avvolgenti, ogni singola nota di ogni singolo strumento è compiuta e definitiva. Poi Fire at Static Valley si colloca come frangiflutti prima di Pale Spectator Takes Photographs e Grey Rubble - Green Shoots, infine Moya e BBF3 completano il lungo giro sulle montagne russe. Alla fine, mentre i GY!BE se ne vanno così come sono arrivati, è subito il momento di riavvolgere il nastro e rivivere i momenti più emozionanti, e sono tanti, mentre le luci si accendono (rimaste spente per tutto il concerto, con gli unici riflessi luminosi che provenivano dalle immagini proiettate sullo sfondo) e il deflusso lento e confuso delle persone descrive di qualcosa di grandioso che si è appena concluso. Andrea Amadasi


The Limiñanas
The Fighting Cocks, Kingston, London, 25 febbraio 2025
Incontro i coniugi Limiñanas (Lionel e Marie da Perpignan, sud della Francia) nello storico record shop Banquet Records a Kingston, sobborgo a sud-ovest di Londra, per la presentazione del nuovo lavoro “Faded”. Foto e firme di consuetudine per soddisfare i fan presenti e via al Fighting Cocks, pub locale dove in serata è prevista l’esibizione che Lionel mi preannuncia in formazione quintetto, con bassista, tastierista e voce/chitarra acustica ad accompagnare Marie (batteria e voce) e Lionel (chitarra). Si inizia con lo strumentale, da fatidica colonna sonora di un film immaginario, Spirale, seguito a ruota dal bel singolo Prisoner of Beauty, e Shout, dove la voce di Tom (Gorman, ex cantante dei Kill the Young) cerca di non far troppo rimpiangere quelle di Bobbie Gillespie e Timothe Regnier (aka Rover), rispettivi ospiti d’onore in Faded. Questo trittico iniziale accantona per la serata l’ultima prova discografica dei nostri per passare ai classici di una discografia ormai ventennale: l’ipnotico numero sixties Down Underground, le delizie garage pop Salvation e Shadow People, la newordiana The Gift e Instabul Is Sleeping, connubio perfetto tra Velvet e Joy Division con le tastiere che creano rassicuranti spiragli e bagliori di intensa luce che spezzano l'oscurità dei quattro minuti di durata. Inaspettatamente, almeno per me, arriva l’ottima, selvaggia e tiratissima, cover di TV Set dei Cramps, con Tom che improvvisamente si trasforma in licantropo ed offre probabilmente la sua migliore performance vocale della serata. A seguito dieci e passa minuti di pura estasi kraut (o, come dicono loro, Fraugrock!) di una (da me) non ben identificata track (sorry!) che potrebbe facilmente rappresentare l’apice del concerto se non fosse che parte Je m’en vais con il suo incedere ipnotico, così semplice ed efficace che dopo tre minuti si trasforma in Rocket USA dei Suicide in tutta la sua ieratica ripetizione, grave e solenne, per un finale davvero strepitoso. Con tale conclusione le richieste di bis del centinaio di presenti passano, giustamente, del tutto inosservate. Merci Marie, Merci Lionel. Ferruccio Guglia


Il Teatro degli Orrori
Vox Club – Nonantola (MO), 20 febbraio 2025
Per capire che è un periodo propizio per le reunion basta guardarsi intorno. Spesso ci sono anniversari da cavalcare ma a volte no e in ogni caso si mettano l’animo in pace i bastian contrari di professione, la logica del “mai dire mai” è eterna e universale e, nello specifico, si spalma sulla voglia di tornare a suonare insieme parimenti a quelle cose là, innominabili perché fa brutto ma se lo chiedete a Gionata Mirai ve le chiama per nome senza problemi e c’è da fidarsi… Perciò questo è il momento del Teatro Degli Orrori – fino a qui, probabilmente la migliore e più importante band italiana di questo secolo – e la data zero di Nonantola del tour “Mai Dire Mai”, lo diciamo subito, ha decretato una band in buona salute, che probabilmente non ha nemmeno dovuto fare un gran rodaggio per ritrovare l’armonia giusta a nove anni dall’ultimo concerto insieme. A differenza del passato, Pierpaolo Capovilla è il primo a salire sul palco: con la calcolata indolenza tipica della sua teatralità raggiunge il microfono e vi si congela accanto per qualche secondo, quanto necessario a Gionata Mirai, Giulio Favero e Francesco Valente di predisporsi al proprio rango. E subito dopo, sono le nove e un quarto, si compie il ritorno del Teatro Degli Orrori, da quel “possiamo incominciare” che è l’incipit di Vita mia, alla quale seguiranno in sequenza Dio mio e Lei venne per completare un trittico romantico e formale allo stesso tempo, dato che ricalca in toto l’inizio di “Dell’impero delle tenebre”. E sarà proprio il disco da cui tutto ebbe inizio, insieme al successivo “A sangue freddo” (di cui è freschissima la ristampa a cura di Overdrive Records) che risulterà il più saccheggiato di un concerto che nelle due ore di durata dimostra che quando si ha qualcosa da dire e da dare non servono effetti particolarmente speciali, è sufficiente saper maneggiare la giusta quantità di energia intervallando con qualche articolata introduzione, soprattutto se è di Capovilla. In questo caso per recuperare la confidenza lasciata scivolare via, nell’acqua sotto i ponti del tempo, quella inevitabilmente commovente su La canzone di Tom, quella allegra ma non troppo su Majakovskij e quella amaramente disillusa su Il lungo sonno (Lettera aperta al Partito Democratico). Poi è rimasto nervoso, potente, robusto e indisciplinato a seconda dei momenti, il suono di manovalanza aristocratica che mettono insieme Mirai, Favero e Valente, un fragore a volte così poco addomesticato che l’acustica solitamente ottimale del Vox fa fatica a restituire fedelmente. Alla fine per Il Teatro Degli Orrori e i loro fan le buone notizie sono due: la prima è che nessuno tra il pubblico ha più fatto caso al tanto tempo che è passato e la seconda, che siccome sembrano rose probabilmente fioriranno. Andrea Amadasi


Antonio Raia/Makoto Sato/Walter Forestiere/Chris Corsano
Napoli, Auditorium Novecento, 21 febbraio 2025
Ha iniziato Sergio Naddei presentando il suo ultimo disco, ma in realtà se stesso, la storia di un paguro che perde e ritrova la sua casa. In inglese si chiama Hermit Crab e qualcosa dell'eremita vagabondo c'era in lui, installato per qualche minuto su una sedia con la sua chitarra, insieme innalzata e custodita. Il disco è stato registrato nella riserva naturale del Cratere degli Astroni (vicino Napoli) e tratta in modo originale la questione abitativa che è una questione prettamente urbana. Il senso narrativo è dato da uno stile che combina come Grubbs-O'Rourke ai tempi dei Gastr del Sol vari approcci alla chitarra acustica. Ecco, allora, un po' di John Fahey e un po' di flamenco amalgamati in uno stile personale e piacevole.
Ma il piatto principale era un altro. Dopo l'ouverture ecco allora Roberto-C. ai disegni proiettati, figure in divenire per somma di frammenti colorati che giocano tra di loro, che hanno fatto da sfondo alla musica di Antonio Raia, al suo respiro e ai suoi sax, ma anche alle sue braccia a dirigere nell'ultima tranche i tre percussionisti compagni di ventura. Fra i tre la parte del leone l'ha fatta decisamente Chris Corsano, anche se si sentiva che il suono era, per quanto mutevole e variegato, uno. La musica (o forse suono?) è stata molto fisica e spirituale. Fisica come membrane ora battute (del resto che ci dobbiamo aspettare dai percussionisti?) ora accarezzate; spirituale come soffio, ritmo di vita, suoni di caos coordinato come nell'ultimo Coltrane o in Albert Ayler, come una vitalità sempre risorgente e sempre resistente, un flusso sonoro che è sia ancestrale che attuale, tanta energia trasmessa, energia positiva, come un mantra. In tempi di perenne emergenza, ecco il senso di qualcosa che "deve" urgere, insinuarsi come una crepa nell'immobilismo imperante come una gabbia di cemento, una crepa da cui fuoriesce un rivolo di suoni che sono luce, balsamo, sprone, pungolo. Curiosamente, il giorno dopo ho partecipato a una giornata di studio su Giovanni Testori, uno che invita a non lasciarsi vivere ma a prendere in mano, con amore e violenza, il proprio destino e a un incontro sulla drammatica situazione delle carceri italiane. In poche ore, ecco tre forme diverse di resistenza, di bellezza, di forza, di qualcuno che segue la sua strada trasmettendo, ora serenamente, ora disperatamente, empatia e compassione. Girolamo Dal Maso


The Courettes
Sonic Ballroom, Colonia, 22 febbraio 2025
Ritornano al Sonic Ballroom di Colonia a un anno di distanza e, come un anno fa, i Courettes riempiono il piccolo club di Ehrenfeld fino al sold out. In apertura ci sono gli onesti Filthstones che scaldano comunque l’ambiente. Poi entrano in scena Flavia e Martin Couri: tubino Sixties bicolore lei, completo all black lui. In anni e anni spesi a girare per i palchi di mezzo mondo i Courettes sanno come mettere in piedi un rock’n’roll show, lato estetico incluso e conoscono tutti i trucchi del mestiere per accattivarsi il pubblico. Attaccano con “You Woo Me”, uno dei brani del loro ultimo splendido album “The Soul Of …The Fabulous Courettes” che li ha visti virare decisamente verso il Sixties pop. In apertura il set si concentra proprio sulle nuove canzoni, poi il duo danese-brasiliano pesca a piene mani da un repertorio che si è fatto già piuttosto ricco, specialmente dal precedente “Back In Mono” da cui arrivano “I Want You! Like A Cigarette” e “Night Time” manifestamente ispirate ai girl groups, ma anche la ballatona “Misfits & Freaks” e una “Trash Can Honey” che tira fuori la più ruvida anima garage della coppia. Mentre Martin picchia sui tamburi con eleganza, Flavia si dimena, chiama gli applausi, imbraccia la chitarra come un fucile, si apre una via in mezzo alla gente, salta e suona sul bancone del bar fino a lanciarsi sugli astanti che la sorreggono sulle loro teste per riportarla sul palco. Poi fa inginocchiare il pubblico, un trucchetto appreso dai maestri Fleshtones, lo ipnotizza con un sermone prima di fare esplodere la sala con l’hit garage “Boom! Dynamite”. Non c’è spazio per uscire e rientrare, solo una pausa di qualche secondo per i bis: il morbido 60’s pop di “Keep Dancing” e l’ultrafuzzata avvolgente “Shake”, due dei pezzi forti del nuovo album. Poi solo applausi scroscianti e inchini del duo alla sala gremita. “Mach schau” era solito gridare l’impresario Bruno Koschmider ai Beatles durante la loro residenza all’Indra di Amburgo. Esattamente quello che i Courettes sanno fare oggi: make a show! Roberto Calabrò


The Messthetics with James Brandon Lewis
100 Club, Londra, 16-02-2025
A volte i (mezzi) miracoli si avverano: a distanza di 30 anni l’idea di vedere nuovamente in azione sul palco la sezione ritmica dei Fugazi mi eccita come un giovincello pruriginoso. Li avevo lasciati al porto di Catania nei primi anni 90 ai bei tempi di “In On the Kill Taker” e ritrovo Brendan Canty (batteria) e Joe Lally (basso) al 100 Club, leggendario locale londinese situato in un basement in piena Oxford Street, per l’ultima data del tour europeo del disco uscito lo scorso Marzo (per la leggendaria Impulse!) del trio strumentale The Messthetics (con l’avventuroso chitarrista Anthony Pirog), accompagnati dal virtuoso sassofonista James Brandon Lewis. Dopo il breve e quieto intro jazz Asthenia parte la gran cavalcata di Forth Wall, con la riconoscibilissima sezione ritmica che conferma in pieno le nostre aspettative (sì, sono proprio loro!...), con il sax di JBL in grande spolvero. Tutte le nove traccie dell’ultimo lavoro vengono eseguite durante la serata: l’hard funk danzereccio di That Thang; la monumentale Three sisters, col sorprendente intenso finale dai complicati intrecci chitarra/sax che si sfidano reciprocamente per alzare sempre piu l’asticella dell’ inventiva; la fujazziana (scusatemi ma non ho resistito) Time is the place; la miracolosa Boatly con inizio groove jazz lento che col progressivo e inesorabile aumento di tempo vira verso lidi post rock non dissimili a quelli frequentati da Godspeed You! Black Emperor ma con coda mozzafiato tra il sax esagerato di Lewis che sbraita, sbuffa e sbava e gli accordi pizzicati di Anthony. Quest’ultimo è un vero maestro nell’uso dei pedali e il suo effettato intro annuncia Emergence, ovvero la classica bomba fugaziana con l’urlante sax free jazz di JBL che rimpiazza le grida declamatorie di Ian e gli urli di Guy. A seguire L’Orso, un solido e robusto jazz rock. Grazie a ritmi rallentati del blues swing di Railroad Tracks Home tiriamo il fiato per un attimo. C’è spazio per due nuove  composizioni (la stesura del nuovo album è gia pronta, registrazione prevista entro l’estate): se Lopin’  è puro jazz classico,  Instanktive è una scheggia impazzita, suona come una versione ferocemente selvaggia e aggressiva della Mahavishnu Orchestra, con Anthony in versione novello McLaughlin amfetaminizzato. La stessa sensazione si prova con Mythomania e l’esplosiva Serpent Tongue (entrambe dal loro omonimo esordio del 2018) dall’irruente inizio e momenti di improvvisazione free al limite della cacofonia. Il bis è affidato alla cover Once upon a time di Sonny Sharrok, giusto per chiarire le coordinate e l’immaginario dei nostri in caso ce ne fosse di bisogno.
Sapere che Brandan e Joe sono ancora in giro è già di per sé un’ottima notizia; sapere che sono in ottima forma e che in questo viaggio sono accompagnati da due esploratori avant-jazz di questo calibro mi rende felice. Contastare che letteralmente spaccano (divertendosi da matti, come mi conferma il buon Brendan a fine concerto) e non hanno perso un minimo dell’onestà, coerenza, affabilità e modestia che li ha sempre contraddistinti, pone fine alla mia (eterna) sofferenza causata dalla mancanza dei Fugazi. La leggenda continua alla grande. Ascoltare (ma molto meglio, ammirare dal vivo) per credere. Ferruccio Guglia


24 Hours of Eno: La celebrazione del “bastardo piagnucoloso"
31 gennaio 2025
Sono alla diciottesima ora di visione/ascolto di “24 ore di Brian Eno” un prodotto strimmato a pagamento dalla Anamorph. E’ un loop di 4h 30’ di programma ripetuto per 24 ore e ad ogni reiterazione cambia composizione, durata e ordine dei frammenti audio-visivi che sono il database dello spettacolo. Come diceva Bob Ashley sulle sue “Private Lives”: un’opera da ascoltare quando ti prepari un panino o fai altre faccende.
Con inframmezzata una dormita di buone sei/sette ore, in questo caso la musica ambient è diventata la colonna sonora di casa mia. Come è- da vent’anni - colonna sonora da sale di attesa di day hospitals o chirurghi estetici, musica per spa e sale di in cui (per parafrasare McLuhan) “il massaggio è il messaggio.”
Come sempre con Eno, la musica vende concetti e - dietro questa 24h - si vende l’idea del “generativo” ovvero dell’algoritmo della Macchina che diventa arte. Un po’ come in quelle Chance operations cagiane, in questo caso ‘il computer’ mischia a caso materiale video eterogeneo per ricomporre filmati (diciamo) ’sempre nuovi.’ Il materiale usato è nel programma: un inedito documentario di 90’ “Eno”, spezzoni d’epoca tratti da un pre-quel già proiettato alla Biennale, una nuova composizione audio-video di Eno, la prima d’un filmato di un concerto di Laaraji, interviste con regista e troupe del documentario e nuovi elementi audiovideo-grafici.
L’idea è descritta come “un continuo fluire di arte, musica, e video per 24 ore di fila. Mostreremo sei versioni uniche dell’acclamato documentario generativo “ENO”, oltre a molteplici dosi di parti di “NOTHING CAN EVER BE THE SAME” che è il video di generative art firmata da Brendan Dawes and Gary Hustwit e basato sulle foto, interviste e filmati originali d'epoca da fonti usate nel documentario “Eno" seppure rimixate “in un febbricitante sogno senza fine.”
Quella del “sogno senza fine” è un’iperbole per il documentario, ma calza a pennello per definire il concerto di Laraaji, che ho visto ieri sera (in prima mondiale) intitolato “IT'S ALL LIGHT: LARAAJI AT NINE ORCHARD” (ovvero registrato nello spazio posto sulla torre dell’hotel Nine Orchard di New York, nella Lower East Side.) Filmato di musica ‘oltre la ambient’ perché se Laraaji - anche al recente Tiny Desk concert - ama suonare ancora il solito zither martellato dal suono pulito pulito, riverbero a parte, in quest’occasione dal vivo usa una dozzina di pedali (distorsioni flanger phaser delay etc.) quello che mi pare un moderno Gizmo (un aggeggio che mette in vibrazione le corde ad lib), oltre che una kalimba elettrificata. Musica che intriga parecchio e sta al primo disco di Laaraji per la Ambient di Eno quanto il Miles Davis di “On The Corner” stava a “Kind Of Blue.” Un concerto afoso, un soundscape abbastanza unico (con voci, risate, cantato e rumori di acqua sfrucugliata) e vivente grazie anche alle deliziose visualizzazioni psichedeliche inventate dal Liquid Light Lab, di cui ho riportato qui alcune foto, perché ne valgono la pena.
Tra le stranezze aggiungerei le “sessioni di ascolto” di Devon Turnbull (creatore delle casse OJAS) in cui sul piatto gira il vinile di “Plateaux Of Mirror” o di “Discreet Music” e ad ascoltarli il dettaglio inauditi. E tra le novità aggiungete la première mondiale di “BLOOM: LIVING WORLD,” un “video piece” firmato Brian Eno e Peter Chilvers.
Man mano che le 24 ore si dipanano, si manifestano le ripetizioni, nonostante il differente “missaggio,” che consente ai realizzatori di parlare di questo “documentario generativo ENO” come di qualcosa sempre diverso. Ed è all’avvicinarsi delle 24h di riproduzione di musica e discorsi Eniani - sempre a cavallo tra raffinato, “tardo lib” e tecnofilìa - inizio a formarmi due idee, figlie di questo florilegi/Eno.
Una è che la kermesse di 24h espliciti il desiderio di questo 76enne “produttore bastardo piagnucoloso” (come si autodefinì nel 1994) di conficcare solidi paletti miliari a punteggiare il suo contributo alla storia della musica pop, l’imperituro spazio che merita nel rock. Per i suoi fans odierni (di certo intellettuali, magari un po’ tardo-lib e spesso tecnofili) questa kermesse crea il definitivo strumento agiografico. Opera indispensabile per coltivare la brand/Eno in uno spazio economicamente significativo.
Il documentario e i frammenti aiutanop a rinfrescare la memoria dell’impatto/Eno nel rock. Così le prove pre-Eno degli U2 suonano orripilanti… E Eno lascia intendere che se lui non avesse messo Fela Kuti sul giradischi, David Byrne mai avrebbe immaginato i cori di “Remain In Light.” Persino Bowie arriva a dire che, nonostante molti non avessero chiaro cosa facesse Eno, comunque la sua presenza in sala di registrazione cambiava i giochi.
Il che introduce la seconda ipotesi, che mi porta a verificare gli effetti della re-iterazione continua di musica senza spigoli e sostanzialmente diversa ma molto simile a sé stessa. Ovvero che man mano che questo l’ascolto va avanti, l’ascoltatore espande uno spazio emotivo che negozia un senso di appartenenza calmo, riposante: come fosse un sedativo aurale (probabilmente il primo motivo alla base del successo della “ambient.”) Eno, non a caso, altrove afferma che è proprio “provocare appartenenza” il motivo fondamentale dietro ai gusti musicali che ciascuno di noi sviluppa.
Eno mi riporta alla mente i Settanta, un periodo così lontano da oggi che… si poteva fare successo teorizzando “musica rock concettuale.” Così si disse che la ambient veniva fuori da Eric Satie (le cui Gymnopedies sono spesso citate come ispiratrici del genere; ma allora i primi 3’ dell’Anello dei Nibelunghi, i.e. il prologo del “RheinGold” wagneriano, ha inventato il minimalismo?!) E si scomodò Marcel Duchamp perché, ricorda bene Eno, aveva messo un oggetto povero - un pisciatoio - nel museo. Eno sul pisciatoio di Duchamp aggiunge anzi il ricordo della volta in cui avevano esposto il ‘pissoir’ (per dirla in francese) in un museo britanno e lui andò a versarci della pipì Eniana. E visto che l’opera era sigillata in una teca, il Malandr/Eno non poté sortir fuori il pisell/Eno bensì dovette versar l’orina in una bottiglietta e solo poi - con la cannuccia - versarla dentro una fessura della teca. Se tutto poteva/doveva essere arte, quello era un pisciatoio - e come tale meglio pisciarci dentro, ricorda. Tutto cose senza più senso, oggi, anzi sul confine dell’arresto. Più edificanti, in tempi di deficit d’attenzione, i suoi ricordi su quelle famose “Strategie Oblique”: le originali erano memo scritti su tavolette di legno, solo in seguito commercializzati come intelligenti carte da Frate Indovino.
“24 ore di Eno” è insomma un “Greatest Hits” e un sofisticato prodotto di media art che chiede amore per via della propria naiveté (esecutiva, innaffiata con grande Tecnica produttiva) e buon gusto. Perché, ricorda Eno ad un punto: ‘“non devi suonare roba, bensì realizzare idee.” E di come si ritrovi a “piantare il seme di una musica e lasciare che fiorisca da solo [rectius: con l’algoritmo della Macchina.]
Tra le interviste gli spunti più interessanti indirizzi li ho trovati sul come costruire un timbro col synt: io creo soundscapes, dice, cioè “uno spazio [sonoro] in cui voglio essere.” Qui è il vero cuore della filosofia eniana: immaginazione timbrica che concepisca suoni come riflessi(oni) in progress del proprio carattere. Purtroppo ciò include legittimare l’imbarazzante collaborazione con Pavarotti (sul quale rimando all’ultima nota a pie’ pagina del libretto “Beatlemania”) divenuta - assolutamente inutile - colonna sonora del tragico scenario dei Balcani anni ’90, insieme a quel… “brutto-ma-Bono.”
L’opera soffre (o si beneficia) di brevi schermi neri e silenziosi, ma quasi sempre è monopolizzata da un continuo mash-up di suoni e immagini elettroniche dal ritmo/montaggio ossessivo-compulsivo, contrastante col calmo incedere della traccia sonora. Curioso che musiche ambient, cioè trame fatte da riverberi infiniti e filamentose note lunghe decine di misure, vengano commentate da immagini tendenti al costante movimento: perché questo gap parallattico?
Stando all’indicazione proposta sullo schermo ‘dal vivo’ la “24 Ore di Eno” è stata seguita da una platea globale di 900/1900 persone max. - che è un altro gap parallattico tra produzione sterminata e pochi fans. Il motivo? Boh.
Non so, ma in un momento particolarmente aulico del documentario, Eno esorta a confrontare “una serie di problemi separati” (ecologia, giustizia, relazioni con il pianeta ecc.) E apoditticamente: non dice neppure cosa fare ma promette - con fare Trumpiano - un mondo “nuovo.” Sì, ma quale esattamente? Boh. “Se ce la facciamo attraverso tutto, ci troveremo in un mondo migliore, molto migliore.” Cioè? “Sarà un nuovo posto.” Il tutto condito con toni alla Charles Manson, come quando parla di… arrendersi:

“arrendersi è la perdita dell’ego - smettere di essere te stesso - arrendersi è l’idea di come adattarsi per non venire distrutti.”

Capìta l’antifona? Luca Majer


Alessandro Stefana
“Visioni Urbane”, Rionero In Vulture (Pz), 30 dicembre 2024
La notte di Capodanno del 1952 Hank Williams muore nella Cadillac su cui un autista lo sta portando a un concerto. Sui sedili posteriori vengono ritrovati i testi di alcune di quelle che sarebbero diventate sue canzoni. Nello stesso anno la Folkways pubblica i primi tre volumi della mitologica “Anthology Of American Folk Music” di Harry Smith. Si nutre di date che si rincorrono come in un anello di Moebius e di un’epica di solitari e sconfitti il racconto strumentale di Alessandro “Asso” Stefana, che ribadisce, dopo l’ottima impressione destata dall’eponimo, secondo album uscito nel 2024 e giustamente presente nelle playlist finali (anche nella nostra generale), anche dal vivo personalità, visione, talento, solidità artistica. Il modo in cui porge i pezzi, languide digressioni per chitarra o lap steel e talora basi sparse e rarefatte che servono per dilatare i panorami, mostra come la comprensione di tutto ciò che è in senso lato folk (“è l’unico genere che attraversa culture e confini”, dice) sia avvenuta a livello non solo profondamente musicale ma anche di cuore e stomaco, portando nel sangue quel sentimento di elegia, di viaggio, di attenzione ai margini, di lotta. Il concerto si apre con The Wandering Minstrel e non ci potrebbe essere titolo più adatto per cominciare questo viaggio, con il sole a batterci indifferente e definitivo in faccia e la terra rossa di un’America reale e immaginaria, immaginifica, tutta intorno a noi. Come dice lo stesso “Asso”, con questo pezzo si parte dal folk americano per poi virare verso Oriente e tornare a casa. Ecco, in qualche modo riportano tutto a casa queste canzoni senza parole; solo in un pugno di frangenti è stata costruita la musica attorno a delle registrazioni della voce di Roscoe Holcomb, come ad esempio nella versione che guarda alle stelle di Man Of Constant Sorrow, così diversa da quella che abbiamo amato nella soundtrack di “Fratello dove sei?” dei fratelli Coen. Se Roscoe Holcomb era un minatore e quindi ha scavato tutta la vita nella polvere, Stefana decide di portarlo dall’altra parte, verso il cielo. Non per caso dopo il menestrello vagabondo è il tempo della casa (The House), dove risuona una chitarra che porta dritti dritti dalle parti del Jim O’Rourke di “Bad Timing”. In linea generale suoni lontani fungono da orizzonte per divagazioni tra Americana e ambient, come un incrocio implausibile e dunque perfetto tra il Bill Frisell di “Big Sur” e gli Stars Of The Lid. In chiusura Moonshiner (il distillatore in epoca di proibizionismo, ancora un paesaggio costruito attorno alla voce di Holcomb) due omaggi fusi in un medley a Simon Jeffries della Penguin Café Orchestra, che ha scombinato le coordinate musicali del nostro, aprendogli un mondo, e a John Fahey. Fantastico un po’: una collaborazione con Rhiannon Giddens e/o con Cesare Basile? Menzione d’obbligo per la realtà di Visioni Urbane, un centro polivalente magnifico e che semina cultura e musiche in un comune del Sud come Rionero in Vulture,in provincia di Potenza. Resterei volentieri dopo il concerto a fare chiacchiere, lo spazio è pieno zeppo di gente, l’atmosfera è informale e rilassata, ma mi aspetta più di un’ora di strada attraverso la Basilicata per tornare alla mia base temporanea, nelle terre che io chiamo Salernitanistan. Ne è valsa la pena. Titoli di coda. Nazim Comunale


“Dancity Winter Festival”
Foligno, Spazio Zut!, 28 dicembre 2024
“Dancity è un festival internazionale di cultura e musica elettronica, organizzato dall’omonima associazione culturale, che si svolge dal 2006 in Umbria. Il festival si costruisce sulla ricerca e la sperimentazione e sul connubio tra innovazione e tradizione, ospitando in luoghi suggestivi artiste/i internazionali, giovani talenti, produzioni proprie, prime assolute.” Lo tenevo d’occhio da tempo ma non ero ancora riuscito a capitarci. Finalmente questa edizione invernale di fine 2024 è stata l’occasione per venire a Foligno. Appuntamento di due giorni col Dancity Festival a fine anno a Foligno: mi perdo l’incipit con la prima italiana di Escapology, il nuovo live A/V di Kode9, ma la sera del sabato riesco comunque a vedere tre live, due dei quali molto interessanti. Il primo è la cosa migliore della serata: Giovanni Iacovella è un giovane batterista già attivo con She’s Analog e A Nice Noise; ha passato qualche anno ad Amsterdam e ha da poco fatto rientro in Italia. Il suo set è una serie di epifanie, agguati e illuminazioni che dimostrano la non comune capacità di raccontare una storia con gli strumenti (batteria ed elettronica), mettendo il virtuosismo al servizio innanzitutto dell’espressione. Difficile incasellare in un genere quanto proposto nel concerto che scorre rapido e naturale come acqua (ottimo segno, ne avremmo sentito volentieri ancora, non c’è stato un solo momento interlocutorio): in alcuni frangenti pare di ascoltare gli Storm’n’Stress che si pigliano a capocciate con Autechre dando vita a una sorta di scapigliato free glitch core. Un febbrile brulicare di idee, ritmi sghembi, dimostrazioni di inventiva e controllo, afrofuturismo, post-rock, indietronica spuria, memorie dello Squarepusher più efficace, Jaga Jazzist suonati da una one man band, Aphex Twin per il modo similare di condurre il ritmo, come un cavallo imbizzarrito ma agile e scattante. Oppure i Mice Parade remixati da Jim O’Rourke per quei quattro che se li ricorderanno. Il risultato colpisce e sorprende per energia e eclettismo: un hyper pop ascensionale che mette a frutto intuizioni tra le più disparate e le sintetizza in un’enciclopedia che ad ogni pagina presenta tesori. Ne sentiremo ancora parlare. Dalle stelle alle stalle col set di Carmen Villain, tra bordoni di synth, soffi (un clarinetto così ornamentale da sfiorare l’inutile), respiri, un rimestare di nubi elettroniche che può suonare accattivante per la grana dei suoni ma non lascia trasparire il lampo di un’idea interessante. Si chiude decisamente in crescendo con Pye Corner Audio, la cui ricetta è semplice ed estremamente azzeccata. Un suono scuro, suadente, che a me ricorda quello dei Laika, mentre a schermo (da dieci e lode la parte visual) scorrono frames di piccole apocalissi psichiche alla moviola, in un blob vintage visionario e perfetto per questi bassi wave rallentati e oppiacei. A un certo punto un vocoder krafwerkiano ci ricorda, come sottolineato anche dalle immagini, che passato, presente e futuro, sono solo nomi e un mood che porta dritto dritto agli incubi più sexy di Twin Peaks ci immerge in un vellutato stupore che sa anche di minaccia alla moviola. La musica di Martin Jenkins (date un ascolto a “The Endless Echo”, pubblicato nel 2024 da Ghost Box) è di un’eleganza sobria, classica, e riesce a evitare le trappole di didascalia e retorica grazie a una certosina cura dei particolari e a un respiro narrativo notturno e profondo. Complimenti ai ragazzi dell’associazione, con la speranza che lo “sfratto” dallo spazio Zut!, operato dall’attuale amministrazione comunale, non ostacoli il percorso di una realtà che merita attenzione, stima e supporto. Nazim Comunale


Deba: “Sufi Songs and Dance by the Women of Mayotte” / Sacro Suono Festival
Chiesa di Santa Maria Donnaregina Vecchia, Napoli, 20 dicembre 2024
Ryley Walker
Auditorium Novecento, Napoli, 20 dicembre 2024
Venerdì prenatalizio, in una Napoli ingolfata dal traffico delle feste e dai turisti. Con lo scooter siamo corsi da una parte all’altra del centro storico tra sacro e profano, dai pressi del Duomo ai pressi dell’Università, un Medioevo che lascia le sue tracce e la sua storia che non vuole saperne di finire, due monumenti che si sono ricreati in vari modi, ma in fondo sempre gli stessi. Si inizia con un evento del festival organizzato da Enzo Avitabile. Questa sera tocca a un ensemble femminile sufi (Deba) che viene da sperdute isole dell’oceano, esposte a sole e cicloni. Il loro canto è una nenia danzante, fatto di melodie melismatiche di cui non è essenziale capire il significato. Ciò che conta è farsi rapire dal senso, una musicalità orante che è impastata di vita, anima fatta corpo e che ha trovato occasionale tappa del suo peregrinare nel gotico quasi astratto di Donnaregina Vecchia.
E poi via di corsa all’Auditorium Novecento, piccolo gioiello di acustica e storia musicale per Ryley Walker. In mezzo due oceani e un continente, ma la terra e il cielo sono gli stessi. Come ormai solito, nelle pause per accordare le chitarre il ragazzotto americano ci intrattiene parlando di vongole e conigli ischitani. Meglio la musica e, per capirne senso e sentimento bisogna partire dalla fine, dall’ultimo pezzo, un intenso e pure fedele omaggio a John Martyn (Over the hill). Sarà che curiosamente gli ultimi tre giorni prima avevo ascoltato vagonate di John Martyn (due raccolte che mi aveva passato anni fa Marco De Dominicis), non ho potuto non fare a meno di sentire l’affetto e lo studio di Walker per un tipo di songwriting e di fingerpicking, fatto di lunghe suite avvolgenti ma anche depistanti, con scorci e sortite inattese che, tuttavia, finiscono sempre per ricomporsi. Mettiamoci pure un po’ di Buckley (più padre che figlio) e, almeno per la parte elettrica, Warren Zevon, eppure questa è musica che non guarda al passato (anche se di essa si nutre meditandola senza sosta) e nemmeno al futuro: si gioca tutta nel presente, nel suo farsi e rifarsi, di sera in sera, di canzone in canzone, di viaggio in viaggio. Girolamo Dal Maso


Oh! Gunquit
Paper Dress Vintage, Hackney, Londra, 6 dicembre 2024
Noncurante dell’allerta meteo preannunciata dall’imminente arrivo della tempesta Darragh mi reco al Paper Dress Vintage, zona Hackney, un’accogliente boutique di vestiario con annessa saletta concerti. La serata promette bene. A scaldare il pubblico c’è il leggendario Barry Myers ovvero DJ Scratchy, (tour DJ dei Clash dal 1978 al 1980), come supporto una rara apparizione dei Future Shape of Music, ovvero il collettivo del chitarrista e produttore Alex McGowan (aka Captain Future), a “crime gospel and primitive blues” 9-piece. Mezz’oretta di gris-gris sound con lo spirito di Dr. John che aleggia nell’etere dove sprofondiamo nel nero pece degli occhiali da sole di Alex per riemergere incolumi e purificati grazie al gospel delle coriste che ci indicano vie salvifiche da percorrere e ricordarci che nonostante l’ineluttabile evidenza del “Gone all Wrong” bisogna sempre “Rise Up” (entrambe stanno nel recente Shakedown Gospel) con qualsiasi mezzo a disposizione (“Help me Jesus”, che conclude il set).
Poi tocca agli Oh! Gunquit, quintetto capitanato dal chitarrista Simon Wild e dall’americana trapiantata a Londra Tina Swasey. Last Day on Earth apre le danze tra l’euforia del pubblico. Segue Fireballs, che riporta alla mente i grandi B-52's, e con il surf del nuovo singolo Shark Bait il party è in full swing con la platea tarantolata dalla contagiosa energia trasmessa dal gruppo. Si prosegue tra numeri ben collaudati (Head Bites Tails, Dance Like Fuck, Suzy Don’t Stop) e inediti dal quarto album in uscita a marzo (Flex, prodotto dall’Alex prima citato). What Do You Want, col suo infettivo groove wave funkeggiante, il feroce inno Sniffing Glue e Ride the Trip Out con sax e tromba che duellano: la chitarra buzzsaw surf di Simon, il sax urlante di Luciano, la ritmica forsennata del grondante Ergun e la scatenata Tina (probabilmente la migliore frontwoman attuale) sono i magici ingredienti per un coinvolgente party a go-go di puro divertimento. Sulle note di Whiplash Tina, frusta in mano, scende in platea a fustigare le chiappe del festoso pubblico, e sul surf strumentale Crossfire suona la tromba facendo Hula-Hoops! So Long Sucker e Whack It, con Tina e Luciano a esibirsi tra il pubblico, sembrerebbero concludere la serata, ma dopo il siparietto lotteria con tanto di premi e regalini natalizi (gradito per tirare un po’ il fiato) la festa continua con Bad Bad Milk e Voodoo Meatskake, con Tina che invita il pubblico a salire sul palco a ballare col gruppo per un gran finale. Gli Oh Gunquit! non sono soltanto un grande gruppo di exotic sci-fi surf punk & trashy rock-n-roll (come si definiscono) ma una delle migliori party bands attuali. Vi consiglio calorosamente di non perderli se capitano dalle vostre parti: ne rimarrete folgorati e passerete una serata di gioioso escapismo, che di questi tempi non è roba da poco. Ferruccio Guglia


Joe Gideon - King Hannah - The KVB
Monk, Roma, 5 dicembre 2024
Dopo mesi di risacca sul versante concerti-indie-internazionali-di-media-entità, quelli cioè che piacciono a noi hipster ormai old skull, Roma stasera torna a risplendere, al Monk, grazie ai ragazzi di DNA Concerti - che, tiratina d’orecchie, dovrebbero ricominciare a portare più cose nella Capitale visto il loro prezioso roster e visto che da queste parti la sete è così tanta che serate del genere vanno facilmente sold out - che portano tre artisti britannici pescati dalla propria scuderia, in una sola volta con una formula pay-per-view insolita da queste parti ma obbligatoria per l’economia e la sostenibilità della serata: si paga per singolo concerto (in realtà smezzati tra Joe Gideon/King Hannah - The Kvb) oppure si fa un mini-abbonamento per vedere tutti gli artisti insieme.
Apre la mini kermesse quel vecchio lupo chiamato Joe Gideon, inseparabile dalla sua telecaster, che, anziché dalla sorella Viva Seifert come ai tempi dei Joe Gideon & The Shark, si fa accompagnare dal prestigioso session man John J. Presley che si alterna tra synth, tastiere, basso e seconda chitarra assecondando con grazia e disinvoltura il parlato/cantato/recitato loureediano di Joe. Ipnotici e magnetici, soprattutto quando performano dei pezzi molto intimi e bluesy che dal vivo vengono ridotti all’osso, - così fragili e intensi che ti vergogni quasi a scattare una foto tanta è la paura di rompere il flusso - Gideon e il compare passano in rassegna le ultime cose del catalogo insieme ai vecchi pezzi, come Civilisation, che fecero la fortuna degli “Shark” a fine anni zero e che hanno predetto poi tante cose inerenti al filone neo-post punk.
La coppia, nella vita e in musica, chiamata King Hannah, e vale a dire Hannah Merrick (voce e chitarra) e Craig Whittle (alla chitarra) si fa coadiuvare dal vivo da un batterista e da un bassista/tastierista, per cercare di riprodurre al meglio la complessità e la stratificazione dell’ultimo “Big Swimmer”, stasera passato completamente in rassegna. Il canovaccio strutturale delle canzoni del nuovo album prevede (quasi) sempre un inizio scarnificato, quasi cullante, batteria/basso/voce che prende letteralmente fuoco nei ritornelli e nelle lunghissime code strumentali, quando la rustica chitarra di Craig ha il sopravvento. Dal vivo questa prammatica è messa in rilievo da una forte vena portisheadiana, molto psych-blues. Hannah, con la sua presenza e la sua voce tra il tossico e il sensuale, è magnifica avvolta nel suo abito rosso con fantasie gitane che abbina a delle vecchie gazzelle® rovinate, diventando il simbolo di uno stile che unisce raffinatezza ed eleganza ad una buona dose di leggerezza. Ammalianti. Questa è musica che live ti entra addosso, poco da fare. Quasi sul finale esibiscono un’ottima versione stomp di State Trooper del Boss per poi chiudere - dopo che la cantante ha ripetuto più volte che l’Italia è il suo posto preferito per suonare - con la cover di Blue Christmas di Dove O’Dell, appena pubblicata dal duo su tutte le piattaforme.
Se, e siamo sinceri, su disco i KVB non ci hanno mai convinto del tutto, e li abbiamo sempre stigmatizzati come uno dei mille gruppi che fa synthwave/EBM a mo’ dei New Order e derivati… dal vivo invece dobbiamo ammettere che sono una vera e propria bomba! Tra ghiaccio e fuoco le canzoni guadagnano in bpm e resa scattante e il duo, composto da Nicholas Wood alla chitarra e voce e da Kat Day ai synth/tastiere e voce, dà il meglio di sé creando dei potenti strati musicali psych e noisy grazie ad un suono pieno e denso, studiato al millimetro, ma non per questo meno “sentito”. Techno-pop suonato alla vecchia maniera, con i Kraftwerk ben in testa, ma attualizzato con dei suoni molto calienti. Dei robot con il cuore insomma. Marco Giappichini


Teho Teardo & Blixa Bargeld
Kulturkirche, Colonia, 3 dicembre 2024
Teho Teardo e Blixa Bargeld tornano a Colonia per recuperare la data saltata lo scorso anno e per presentare il nuovo splendido album “Christian & Mauro”. L’attesa è palpabile. La Kulturkirche di Nippes, chiesa luterana e importante polo culturale che aveva già ospitato i due anni fa, segna il tutto esaurito e si rivela il luogo perfetto per acustica e atmosfera. Quando l’ensemble si presenta sul palco – assieme ai due leader la formazione è completata da un quartetto d’archi, da Laura Bisceglia al violoncello e Gabriele Coen al clarinetto basso – la prima cosa che appare evidente è un Bargeld di buon umore, ottimo viatico per una serata che si rivelerà magnifica. Attaccano subito con due pezzi forti: “Starkregen”, l’ipnotico brano d’apertura del nuovo LP, e l’ormai celebre “Mi scusi”. Il pubblico della Kulturkirche ascolta silenzioso e attento, salvo poi esplodere in fragorose ovazioni alla fine di ogni composizione. La strana alchimia tra due musicisti all’apparenza così diversi si materializza sotto i nostri occhi. Bargeld è la primadonna, l’attore consumato che sul palco gigioneggia, scherza e intrattiene il pubblico coinvolgendolo con la sua presenza e il suo carisma. Teardo è l’architetto sonoro di questa magia: dalla sua postazione suona e dirige con mano sicura un ensemble raffinato e affiatatissimo. Il concerto attraversa la discografia dei due, dai brani del primo album ormai lontano nel tempo (“Still Smiling”, 2013) fino alle ultime composizioni che il pubblico sembra già conoscere a memoria. Il quartetto d’archi, la chitarra, gli effetti e le campane di Teardo, i preziosi inserimenti di violoncello e clarinetto creano un’atmosfera onirica e cinematica che avvolge gli astanti. L’asticella rimane altissima per tutto il concerto, con alcuni picchi di assoluta bellezza. La saltellante “Bisogna morire”, che riprende una passacaglia del Seicento e nasce da un suggerimento fatto anni or sono dal maestro Morricone a Teho, scivola nella delicatissima “I Shall Sleep Again”. Altro momento clou della serata, introdotto in inglese da un Blixa in vena di aneddoti, è “Dear Carlo” ispirata al fisico e divulgatore Carlo Rovelli che pure avrebbe dovuto partecipare al brano. Il recitato di Bargeld mette insieme osservazioni terrene (“You make excellent cakes”) e contemplazioni dello spazio, mentre la musica ha un incedere inquietante con una coda che non può che definirsi psichedelica. Così come “Come Up and See Me” con un finale in crescendo con cui i musicisti si congedano dal pubblico, ma solo temporanemente. Richiamati a gran voce, saliranno nuovamente e per ben due volte sul palco. I due bis regalano ancora un altro momento ispiratissimo, cantato – come spesso accade - in italiano e tedesco: una “Menschenentsafter” (letteralmente: “Spremiagrumi per umani”) al contempo ironica e amara, perfetta fotografia della società in cui ci troviamo a vivere. Roberto Calabrò


Diaframma
Teatro Politeama, Poggibonsi (SI), 17 novembre 2024
"Chiuderò il sentimento in scatole vuote, quei ricordi appassiti in un frammento d’autunno". È con queste parole, tratte da Neogrigio, secondo brano del primo leggendario album “Siberia” che i Diaframma aprono il sipario su una serata di musica in cui passato e presente si incontrano. Un concerto che non è solo celebrazione, ma anche un atto di resistenza poetica e musicale, capace di scuotere le corde più intime dei fan. Nella sala sotterranea del Politeama di Poggibonsi siamo poco più di cento sopravvissuti all’età di spotify e dei reality. Tutti con la barba grigia, i capelli (per chi li ha) arruffati e liberi ed un abbigliamento evergreen trasandato, ma tutti assolutamente convinti del valore musicale del progetto Diaframma e della sua cosmica astrazione. Come ha dichiarato Fiumani in uno dei suoi rarissimi interventi parlati durante lo show: “tutti mi chiedevano spiegazioni sui testi delle nostre canzoni, ma io cercavo l’astrazione, volevo anche un liceo astratto”.
Il concerto è farcito di chiari richiami visivi ed emotivi all’era della New e Dark Wave, al coraggio di Alberto Pirelli e della sua I.R.A Records, al valore della musica che non si arrende alle mode, che non guarda al suono raffinato e all’intonazione ma si concentra sulla sostanza astratta dei testi e sulla solidità cura degli arrangiamenti. Tutto (volutamente) parla e suona anni Ottanta. Siamo immersi in una sorta di garage dei “Guardiani della Galassia”, ma quelli delle terre italiche, che invece che scatenarsi sui brani dei Jackson 5 lo fanno sulle note di Blue Petrolio dei Diaframma.
Federico Fiumani, anima e guida della band fiorentina, è sul palco con Edoardo Daidone alla chitarra, Luca Cantasano al basso e Tancredi Lo Cigno alla batteria. Una formazione con un equilibrio consolidato, che fa da spina dorsale al lungo tour dedicato ai 40 anni di Siberia, destinato ad andare avanti anche nel 2025. Un live scarno e viscerale che si dipana come un racconto in musica tanto essenziale e privo di artifici quanto denso di emozioni. Fiumani si conferma un narratore autentico alternando momenti di introspezione come in Impronte e Ultimo Boulevard a scariche di energia pura con pezzi come Gennaio e la cover dei Television See No Evil. La piccola Sala Set del Teatro Politeama di Poggibonsi a tratti è silenziosa e concentrata: la connessione tra palco e platea è palpabile. Ogni brano è accolto con applausi sinceri e cori appassionati che creano un’atmosfera unica. È come se i Diaframma sapessero trasformare la malinconia delle loro liriche in una celebrazione collettiva capace di unire anime diverse sotto lo stesso tetto sonoro.
Fiumani incarna l’essenza del poeta post/moderno, duro e fragile al tempo stesso, integerrimo e disponibile, lontano quanto basta dalle mode per piegarle al proprio pensiero. Con il suo stile diretto e a tratti spigoloso non cerca di compiacere, ma solo di raccontare. I testi, graffianti e sinceri, rimangono il cuore pulsante della sua arte. Da Siberia a Diamante Grezzo, ogni canzone è un frammento di un percorso umano e artistico che si snoda tra il freddo degli anni ’80 e le inquietudini dei giorni nostri. Se gli arrangiamenti delle canzoni non mostrano un lavoro di cesello e di ricerca sonora, è perché i Diaframma puntano all’autenticità e alla credibilità prima di tutto. Ogni sbavatura, incertezza e digressione diventano parte di un quadro che vive e respira rendendo il concerto un’esperienza vera, lontana dalle perfezioni artificiali del mainstream. La scaletta della serata è un viaggio nella discografia anni Ottanta della band. Spiccano momenti di pura magia come Libra, Desiderio del nulla, Elena, e l’intensità struggente di Labbra blu, Caldo e L’odore delle rose. Federico Fiumani è un resistente, un samurai della musica italiana. Come un moderno Hiroo Onoda, anche se dimenticato su un’isola discografica lontana dalle rotte commerciali, non si arrende al tempo che passa né alle leggi del mercato musicale. In una scena musicale spesso ingabbiata da logiche commerciali, Fiumani sceglie la via della coerenza e della verità artistica. Questo tour celebrativo di “Siberia” non è solo un omaggio al passato ma un promemoria per il presente: la musica, quella vera, è ancora capace di emozionare, ferire e guarire. Quando usciamo dal teatro è chiaro a tutti che abbiamo assistito a qualcosa di unico, l’istantanea di un periodo straordinario in cui la musica era qualcosa che ti cambiava la vita, ispirava e indicava a ognuno una sua strada. Che tu fossi vestito con giubbotti di pelle, che avessi le borchie anziché i jeans o i piumini, le camicie sgargianti o il rossetto sbaffato, eri parte di una grande speranza. Federico Fiumani, nel suo immenso talento e nella sua fragilità ci ha ricordato dove eravamo e, soprattutto, che ancora possiamo essere qualcosa di più, con i nostri difetti, le stonature e le stempiature dell’età, ma sempre diversi e credibili, resistenti e sconfitti. Se esisteranno ancora un garage, una chitarra, una batteria e un basso possiamo partire per un viaggio straordinario e difendere la galassia della musica dalla banalità e bruttezza del mercato, avendo sempre come nostro faro guida la poesia. Mentre l’ultima nota si spegne e in un misto di eccitazione e tristezza ci avviamo verso casa, resta l’eco di una serata che ha saputo trasformare il grigio dell’autunno in un’esplosione di colori interiori. I Diaframma sono ancora qui, più vivi che mai, lottano con noi e per noi, e sono pronti a scrivere nuove pagine di una storia irripetibile. Andrea Laurenzi


“Barezzi Festival”
Parma, varie sedi, 14, 15 e 16 novembre 2024
Diciotto anni di Barezzi meritano un veloce ma doveroso preambolo: al di là del valore sempre elevato degli artisti italiani e internazionali che si sono esibiti sui vari palchi in tutti questi anni, nonché l’etica di un evento che offre un’esperienza intima ed esclusiva, da vivere all’interno di luoghi unici e suggestivi come i teatri e gli auditorium sparsi sul territorio (oltre al rinomato Teatro Regio), ciò che veramente fa la differenza – e che andrebbe spiegato molto chiaramente alla moltitudine di impresari della musica dal vivo – è la virtù sempre più latitante del mettere davanti a tutto la crescita culturale. Che comunque la si voglia vedere è un obiettivo ancora sostenibile, oltretutto con l’impegno collaterale della ricerca e della successiva valorizzazione di giovani artisti da proporre al futuro attraverso contesti e laboratori specifici rivolti anche a quelli che frequentano le scuole dell’obbligo. È un impegno romantico ma importante, nonostante rischi di passare inosservato o addirittura peggio, bistrattato laddove la mercificazione è sempre più l’unica cosa che conta. Per questo occorre evidenziarlo quanto più possibile come baluardo di sopravvivenza, in aggiunta al più che positivo riscontro di pubblico di ogni singolo appuntamento, da co
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