LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Teho Teardo, foto di Andrea Amadasi]

Teho Teardo
Sala dell’Ottocento in Galleria Nazionale, Complesso Monumentale della Pilotta, Parma, 31 ottobre 2025
Il titolo è “Twin Peaks and Other Infinitives” e il tema portante è dato dai suoni notturni registrati nei boschi dei monti friulani al confine con la Slovenia, riletti attraverso una trascrizione in musica e intrecciati a temi di compositori classici contemporanei come Angelo Badalamenti, Stefano Bollani, Barbara Strozzi e Henry Purcell. La rappresentazione al buio, con il pubblico sdraiato in rigoroso inquadramento in questo salone con le lunghe pareti laterali sovraffollate di dipinti accademici, è una logica deduzione rispetto alla genesi sonora del progetto, che si “materializza” dopo la brevissima introduzione orale e i due minuti accompagnati dal suono estemporaneo di alcuni campanacci, poi anche la luce rossa che illumina la postazione di Teardo si spegne del tutto. Da questo momento tutto ciò che è reale diventa molto marginale e l’esperienza d’ascolto si fa via via sempre più coinvolgente, sulle trame di una lunga suite dall'andamento sinusoidale con momenti di altissimo pathos ritmico alternati a suoni caleidoscopici, lisci e sinuosi. Sembra di stare nella realtà virtuale di un “Tron” senza gli assilli cibernetici e se qua e là si percepiscono echi lontani di Daft Punk come di Morricone e Piovani, a un certo punto, quando Teardo imbraccia la chitarra per introdurre il Laura Palmer’s Theme, viene spontaneo pensare che probabilmente avrebbe ottenuto risultato ancora migliore se al suo posto avesse suonato In limine, dal tema de “L’alligatore”, la serie Tv andata in onda qualche anno fa sulla Rai di cui egli stesso ha composto la colonna sonora. Detto ciò, è fin troppo ovvio concludere che “Twin Peaks and Other Infinitives” è un’esperienza da vivere preferibilmente dal vivo e in libertà da qualsiasi turbamento interiore, a patto però di riuscire, chi di dovere, ad agevolare l’approccio “fisico” del pubblico in modo più libero e rilassato che non come in questo caso, con la zavorra di trovarsi in uno spazio museale con tutte le fastidiose limitazioni del caso. Andrea Amadasi


The Bevis Frond
Paper Dress Vintage, Londra, 25 Ottobre 2025
In un mondo in continuo cambiamento è rassicurante ancorarsi alle poche certezze rimaste in giro. Per cui onore e gloria al sommo bardo di Walthamstow, Nick Saloman aka The Bevis Frond, che, noncurante delle mode passeggere, da ben quattro decenni ci delizia con la sua magica pozione di psichedelia atemporale elargita attraverso una generosa discografia il cui nuovo capitolo (triplo!) uscirà in primavera. “I am waiting here, not for the money, not for the gear, just for a hug, a little bit of recognition” canta il buon Nick in The Hug (tratta dall’ottimo “Focus in Nature” dell’anno scorso), per cui approfitto dell’invito e non perdo l’occasione di abbracciarlo prima del concerto, ritrovando la simpatica ed affabile anima gentile di sempre. L'aneddotica che accompagna Nick è proverbiale, ma a causa di un problema tecnico sorto dopo qualche brano (che si mangia ben 10 minuti del set) questa sera evita le tipiche, simpatiche digressioni tra un pezzo e l’altro, dopo che già all’inizio, per scusarsi della camicia celeste con balze d’annata che sfoggia, ci ha regalato questa perla introduttiva: “La mia squadra del cuore (il QPR) ha perso nuovamente per cui ho pensato di tirarmi su il morale acquistando questa nuova camicia, mi sembrava molto cool, ma adesso ripensandoci…sembro davvero un coglione!” Il riff semplice ma efficace di Hole#2 apre la serata, con l’assolo wah wah di Nick che lacera la parte centrale del brano, e si conclude con l’elettrizzante cover degli Open Mind Magic Potion. Nel mezzo ci stanno schegge di stentoreo hard rock (Maybe) che a tratti virano verso lidi blues (Stoned Train Driver), inni da capogiro (Old Worlde), dieci minuti alla Neil Young (Pale Blue Blood, con uno stratosferico riff di Paul Simmons), ben diciotto di avventurosa improvvisazione lisergica da liquefazione neuronale (Superseeder), un bel botta e risposta delle due chitarre (Mr Fred’s Disco) e ovviamente immortali gemme di perfezione pop (Flood Warning e le quasi-hits He’d be a Diamond e Lights Are Changing). Sembrerebbe che neanche il bel documentario uscito l’anno passato (“Little Eden, A Film About The Bevis Frond”) sia riuscito a dargli quel poco di notorietà che meriterebbe (nonostante l’endorsement di fan come Evan Dando e Teenage Fanclub) ma chi lo conosce sa bene che Nick è una specie in via d'estinzione, un monumento rock e un patrimonio da accudire gelosamente. La Corona Britannica dovrebbe immediatamente affibbiargli il titolo di baronetto!... Ferruccio Guglia


Uzeda
Wishlist Club, Roma, 16 Ottobre 2025
Bravi, se non bravissimi, i ragazzi di Wishlist che sono riusciti a intercettare gli Uzeda portandoli a Roma, dove non tornavano da qualche annetto: non è facile accaparrarsi le prestazioni dei catanesi, visto che la loro etica DIY li porta a non avere un’agenzia di booking, suonando quindi sporadicamente e senza un vero e proprio tour organizzato. Detto questo, dopo gli opening spettrali e horrorifici affidati alla chitarra e alla relativa loop station di Tuktu and the Belugas Quartet prima e al contrabbasso effettato di Caterina Palazzi poi, gli Uzeda salgono sul palco nella miglior forma possibile: mentre salgono sul palco potrebbero sembrare una qualunque cover band di paese, ma quando attaccano i jack diventano improvvisamente impossessati dal demonio. I diavoli del noise-rock, probabilmente. Il live - che passa in rassegna gran parte dell’ultimo “Quocumque jeceris stabit” del 2019 e qualcosa da “Stella” e dalle primissime cose - scorre sul filo del rasoio sin dalla prima nota: respiri il ferro grazie alla chitarra siderurgica e meccanica di Agostino Tilotta e al basso tagliente di Vincenzo Virgillito; Davide Oliveri, alla batteria, spariglia i tempi e li rende “contro” o “dispari” spiattando a più non posso mentre, in tutto questo rigurgito (spesso sul filo del funk o del crossover), la discola Giovanna Cacciola (una via di mezzo tra la Lydia Lunch più istrionica e growl e la Kristin Hersh più belluina) sembra andare in trance, salmodiando meravigliosamente. Insomma, mentre voci e singoli strumenti sembrano deragliare e collassare a più non posso, mai etica del suono è stata più compatta e integrata di questa. Gli Uzeda sono dei secchioni, divertiti (e divertenti), della matematica applicata al rock che incredibilmente (e questa forse è la magia di chi ha sudato tanto e ama sudare ancora e darsi al pubblico) riescono ad essere urgenti e sacrali, hic et nunc, come neanche dei ragazzini di 18 anni. E che dio ce li conservi più a lungo possibile. Tra i live dell’anno, tutti concordi dentro la sala. Marco Giappichini


C’Mon Tigre
Spazio Bianco DumBO, Bologna, 10 ottobre 2025
La sede è un lungo capannone all’interno di un’ex area ferroviaria facente parte di un progetto di rigenerazione urbana, che già solo alla vista, oltre che concettualmente, mette di buon umore. Il contenitore di eventi, per chiamarlo sommariamente così, è il ROBOT 16, il festival bolognese di musica elettronica e arti digitali ideato e organizzato dall’Associazione Culturale Shape sulle tracce di quello che fu il Netmage, dal quale ha preso più di qualche spunto e del quale ha poi raccolto l’eredità a partire dal 2011, anno dell’ultima edizione del festival organizzato da Xing. I protagonisti in questo caso sono i C’Mon Tigre, nel mezzo di un ricchissimo programma di live e dj set il cui unico difetto, nei giorni di venerdì e sabato, è stato quello della sovrapposizione di alcuni degli eventi con conseguente obbligo di scelta. Il palco su cui i C’Mon Tigre presentano il loro “Lumina” in anteprima assoluta è lungo e stretto al centro della scena, come una zattera di salvataggio sovraccarica di ogni sorta di strumentazione reale e virtuale (e ben tre postazioni regia al centro del palco) pronta a salpare verso l’ignoto con la musica come stella polare e con essa la volontà di evocare sul pubblico, distribuito in piedi attorno al palco, suggestioni tentacolari attraverso un ascolto assolutamente intimo e privato con le cuffie wireless fornite in dotazione. Alla vista è tutto molto scenografico e coinvolgente: il collettivo C’Mon Tigre (che ci ha abituato a essere di geometria variabile: in in questo caso sono cinque, seminascosti sotto sgargianti cerate da ravernauti e “tracciati” in volto da segni rossi di un tribalismo apolide che mette un po’ in soggezione) si avvia a “salpare” intorno alle dieci, nell’oscurità frammentata dai laser e dai visual, da lì e per un’ora si starà in balia degli eventi. L’Africa con i suoi suoni più tradizionali, il funk, il jazz, sprazzi di cassa dritta e poi tropicalismi assortiti e altro ancora, con i movimenti non sincronizzati delle luci blu delle cuffie che suggeriscono scene di un Tron che al cinema non vedremo mai. A un certo punto potrebbe sembrare di fluttuare nel futuro ma nella realtà è tutto molto contemporaneo e persino basico nel concetto di fusione dei linguaggi espressivi che fa della musica un’arte libera e senza confini. Sicuramente più complesse e articolate sono state la genesi e la messa in opera di questo progetto, che è perfettibile in vista della rappresentazione milanese di inizio novembre – ma buona comunque la prima, come si usa dire in questi casi. Andrea Amadasi


The Beta Band
O2 Apollo Manchester, 4 Ottobre 2025
Uno degli inizi più disastrosi di sempre per una reunion auspicata da 21 anni: non azzeccare la tonalità vocale (stonando dall’inizio alla fine) dell’iniziale Inner Meet Me è un duro colpo per la rediviva band di Steve Mason e soci che purtroppo si ripercuoterà sul mood di una buona fetta del live mancuniano dei nostri (tour che per la cronaca prevede solo una manciata di date tra UK e USA). D’altronde l’attesa era alta, altissima per chi li ama da sempre e per chi non può far a meno di mettere i leggendari “Three E.P.” (ai quali viene dedicata la serata) sul piatto un tot di volte all’anno. La rinomata indisciplina inglese poi mette benzina sul fuoco (altro che i soliti italiani!): è tutto un brusio dovuto, anche, al frenetico saliscendi dalle proprie sedie per rifocillarsi di birra che acuisce uno straniamento di base che gli scozzesi dal palco non contribuiscono a placare, tutt’altro. Altra nota stonata è l’esibizione di Assessment che diventa un vero disastro: l’impianto va via di botto a metà canzone, i nostri la ripetono da capo (male, malissimo con una chitarraccia che copre tutto) e l’immaginifico scoppio bandistico sulla coda della canzone (quello sì atteso da 20 anni e passa, almeno dal sottoscritto) si rivela di cacofonica bruttezza per via dalla chitarra di Mason che vorrebbe imitare i fiati con risultati tragicomici. Ma mentre il brusio sale insieme alla quantità di birra (e pensate che il più giovane astante avrà sì e no 50 anni e passa) e io e il mio socio Carmine iniziamo seriamente a pensare: “ma chi ce l’ha fatto fare di prendere un volo per venire fino a qui?”, ecco arriva che il miracolo: una B + A esibita in pieno stato di grazia, micidiale nel suo ipnotico e stravagante psych trip-hop con tanto di bomba rockeggiante sul finale ridesta l’attenzione di un pubblico imbenzinato ma, finalmente, adesso partecipe. Il finale è un crescendo emozionale (ed emozionante, vivaddio) che passa da una Dry The Rain cantata a squarciagola da tutta la Hall in uno stato di trance agonistica (calcistica) e dalle magnifiche versioni di Broke, It’s Over, Squares per arrivare alla fanfarona e acid-hip-hop The House Song. Meno male va’, in qualche modo l’hanno portata a casa… Marco Giappichini


Merope
Roma Europa Festival, La Pelanda, Roma - 30 settembre 2025
Corde ed estasi. Il belga Bert Cools e la vocalist e polistrumentista lituana Indrė Jurgelevičiūtė sono al momento gli unici tenutari della sigla Merope, progetto multidirezionale e multietnico operativo da circa tre lustri. Funestata dalla sparizione di alcuni strumenti cardine – pedaliere multi effetti, microfoni e quant’altro – la loro apparizione al Rome Europa Festival si risolleva nell’immediato grazie a un’intima e originale riproposizione di brani ancestrali della cultura lituana. La band – che di recente ha anche collaborato con il vate Laraaji ed il chitarrista Bill Frisell – rifugge le più banali logiche della trasposizione popolare, optando al contrario per una rilettura tutt’altro che scontata, informata dalle tecniche estese dell’improvvisazione e dai più conturbanti ghirigori della drone-psichedelia: una rilettura che, oltre a connetterci con un universo remoto, ci permette di apprezzare le doti di solerti arrangiatori e di liberi agitatori. Con l’ultimo album da studio “Vejula” hanno raggiunto il loro possibile apice creativo, ma quanto messo in scena questa sera lascia ben presagire per un futuro altrettanto ardito. Le corde pizzicate da Indre – zither e altri strumenti tradizionali – emanano la stessa luminescenza delle arpe corteggiate dalla Ashby o da Alice Coltrane. La chitarra di Bert Cools è un contrappunto delizioso, iscritta al lavoro di grandi interpreti del neo-primitivismo americano come Tom Carter o William Tyler. L’abbraccio è totale. Che gli eredi della Third Ear Band abbiano assunto un nuovo volto? Luca Collepiccolo


The Morlocks
Em Drügger Pitter, Colonia, 27 settembre 2025
Era da un paio di stagioni che i Morlocks non andavano in tour. Della formazione originale della leggendaria garage band californiana rimane da tempo soltanto l’inossidabile Leighton Koizumi che, nel corso degli anni, ha dimostrato una capacità fuori dal comune nell’individuare i musicisti giusti per mantenere intatta la forza espressiva della band. Così, oltre alla carismatica presenza del frontman, questa line-up può contare su due axemen straordinari come il chitarrista tedesco Bernadette Pitchi (Gee Strings) e il francese Roméo Lachasseigne (Les Grys-Grys, Les Lullies) e sulla solidissima sezione ritmica composta da Olivier Pilsner al basso e Buanax alla batteria. L’obiettivo è sempre lo stesso: non fare prigionieri e saturare l’ambiente con una miscela di garage, punk e blues che si rivelerà esplosiva. Attaccano con un pezzo nuovo di zecca, “Totem Phase”, che non sarà l’unico, e subito dopo fanno esplodere una versione del classico “Sitting On Top Of The World” prima di tuffarsi nel rock’n’roll ad alto voltaggio di “Bothering Me”, opening track dell’ultimo eccellente album “Bring On The Mesmeric Condition”.
Il motore inizia ad andare su di giri non appena il gruppo si lancia nell’anthemica “We Can Get Together” seguita a ruota dall’arrembante “Sex Panther”, uno dei pezzi di punta di quel piccolo capolavoro garage-punk che è “Easy Listening For The Underachiever”. Indicativa anche la scelta delle cover che vengono piazzate qui e là nella scaletta: una primitiva versione di “Hang Up” dei Wailers, una roboante “Teenage Head” dei Flamin’ Groovies (da sempre un cavallo di battaglia live del quintetto) e un’ipnotica “You Don’t Know” dei 13th Floor Elevators con cui i Morlocks chiudono il set dopo neppure un’ora di infuocato rock’n’roll. Richiamati a gran voce dal pubblico che affolla l’E.D.M., piccolo ma accogliente pub di Ehrenfeld, Koizumi e soci ritornano in scena per una manciata di bis in cui non possono mancare le urticanti “Dirty Red” e “You Burn Me Up”. Perfetta chiusura di un concerto in cui il quintetto ha ricordato a molti quale sia l’essenza più autentica del garage rock. Roberto Calabrò


Mulatu Astatke
Ancienne Belgique, Bruxelles, 21 settembre 2025
Mulatu is back. Per chi si è perso il “padre dell’ethio-jazz” (classe 1943) fino ad oggi, questo ‘Farewell tour’ è il treno da non perdere. La sala bruxellese da 2.000 posti era sold out da tempo per la terza volta di Mulatu Astatke. Il maestro è un pezzo di storia della musica e fa capire subito che non si scherza: apre con una suite lunghissima che intreccia modi etiopi antichi a una composizione jazz; alle fine Mulatu stesso sottolinea che la melodia che ha eseguito al vibrafono è scritta con notazioni musicali etiopi. È un’introduzione austera che mette tutti sull’attenti, dopodiché l’abbraccio “pop”: parte Yekermo Sew, resa celebre dalla colonna sonora di “Broken Flowers” di Jim Jarmusch e la sala si scioglie. Sezione ritmica implacabile su tappeto sonoro vellutato di Mulatu, vibrafono e tromba si rincorrono su un groove ipnotico che sembra non finire mai. Nella terza parte entrano in scena gli archi: l’ethio-jazz si allarga e, per un momento, sfiora un territorio quasi noise, violoncello e contrabbasso graffiano senza perdere controllo, un lampo di psichedelia che in 15 secondi spazza via 50 anni di overdrive, fuzz e effetti vari (analogici e non) per poi rientrare subito su cadenze di ethio-jazz leggere e precise, come se fosse la cosa più normale del mondo. I musicisti che accompagnano Mulatu sono straordinari. L’acustica dell’Ancienne Belgique è nota per essere tra le migliori del mondo, c’è chi si chiede se sia reale quello che sta sentendo o un SACD… Nel cuore del set c’è spazio per un interludio di sole percussioni, un omaggio diretto alla tradizione etiope suonato prima senza arrangiamenti per chiudere full monty con la band: è il momento più alto del concerto per un pubblico talmente caloroso che sorprende persino il maestro, ormai navigante sembra su un’altra dimensione, eterea e al di sopra delle piccole cose di questo mondo. In chiusura Mulatu dedica un brano a se stesso, un congedo gentile che racchiude i suoi sessant’anni di carriera, l’artista stesso ha definito questo tour d’addio “la conclusione della sua missione di portare l’ethio-Jazz in ogni angolo del mondo”. All’Ancienne Belgique non si era mai vista una fila così lunga per entrare: dalla storica venue fino alla Bourse, 150 metri più in là. D'altra parte è andato in scena un capitolo di storia della musica suonato con la calma autorità di chi l’ha scritta. Pasquale D’Apice


Sprints + Jennifer in Paradise
Monk, Roma, 20 Settembre 2025
L’inossidabile Radio Rock - tra alti e bassi comunque un’istituzione a Roma - insieme a DNA Concerti portano al Monk di Roma una gustosa chicca tardo estiva: una settimana prima dell’uscita del loro secondo LP “All That Is Over” (recensione sul numero cartaceo di ottobre della rivista che state leggendo in questo momento on-line (PS: se già non lo siete, ABBONATEVI), gli irlandesi Sprints ce lo presentano dal vivo in anteprima assoluta nella data zero di un tour che successivamente toccherà Europa, UK e Nord America. Onorati di tutto ciò, come il pubblico astante d’altronde, aprono le danze sul palco i romani emo-core Jennifer in Paradise con un warm-up di una mezz’oretta tutto muscoli e chitarre roboanti, che scalda benissimo i motori per lo sprint finale. Salita sul palco, Karla Chubb, rossa fiammante come non mai, onora la sua maglietta che raffigura Eddie degli Iron Maiden con una voce che è metallo incandescente, ancora più tagliente che su disco, mentre il nuovo chitarrista Zac Stephenson abrade tutto quello che c’è da raschiare sulla sua chitarra (mooolto Idles sound, tra shoegaze e noise) e la sezione ritmica pesta con groove che sfiorano e sfidano il nu-metal, oltre che il consueto nu post-punk. Il live è ultra-dinamico (parole che rubiamo al maestro Guglielmi, sorridente in prima fila accanto a noi) si poga, si suda (tanto, lo ripete spesso anche Karla), ci si diverte (epica la battuta della cantante: “hi Rome, we are the Spritz” con tanto di beverone arancio in mano) e si ascoltano per la prima volta una manciata di fresche canzoni (spoiler: belle e urgenti, non diciamo di più) che potrebbero veramente lanciare nello stardom alternative che conta i quattro irlandesi. La prima sensazione è che il combo sia pronto per i palchi belli grandi, la seconda è di avere davanti una band importante (e impegnata socialmente, vivaddio, ne sono prova i continui rimandi alla Palestina e alla pace), consapevole dei propri mezzi e conscia di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: un mondo alla deriva, come dice anche Karla dal palco. Un modo perfetto per questa musica abrasiva e viscerale allo stesso tempo. Marco Giappichini


Thurston Moore Group
Oslo, Londra, 14-09-2025
A trentacinque anni di distanza da quando vidi i Sonic Youth a Milano ritrovo Thurston Moore nell'intimità dell’Oslo ad Hackney, East End di Londra, accompagnato al basso dalla divina Deb Googe dei My Bloody Valentine, Jem Doulton alla batteria e Alex Ward alla chitarra e clarinetto. Bastano le stridenti e ronzanti note iniziali dell’apripista Forever More, teso post punk con sconsolato giro di basso dark e semplice ritmo kraut, per identificare immediatamente l’artefice del suono e rassicurarci che siamo destinati ad essere trascinati in un’odissea chitarristica, tra accordi ripetuti e riff intermittenti accompagnati dal seducente cantato funebre di Thurston. La successiva Hashish ci avvolge nel suo intricato ginepraio di estatiche e tintinnanti linee di chitarra per poi deliziarci tra ipnotico basso grintoso e morbide melodie, con la parte vocale che ricicla Sunday (che stava su “A Thousand Leave” dei SY). La ripetitività iniziale dei dodici minuti dell’epica Siren ci invita prima a meditare e poi a muoverci per seppellirci infine in un crescendo di burrascose ondate di feedback e riemergere presentandosi nella sua forma canzone grazie al vocale. Segue l’omaggio ai Velvet minori di Temptation Inside Your Heart con implacabile basso di Deb, batteria metronomica e duello di chitarre grattugiate in mutazione jam cosmica. Il clarinetto di Alex appare nell’intro dell’onirica Sans Limite, che illumina con le sue luci screziate e nel finale dell’elegiaca Hypnogram che termina con feedback spettrale. Cantaloupe è la sorella stoner della classica Sugar Kane, con tanto di assolo psichedelico di Alex neanche fosse Nick Soloman/Bevis Frond. Gli aggressivi gorgheggi delle chitarre introducono Aphrodite, che si fa notare per il gran lavorio ritmico e il pulsante basso voluttuoso tra stridenti distorsioni chitarristiche. A ruota la delicata e trasognante The Diver col suo andamento vagamente ritualistico dal sensuale esotismo. Si conclude con i 18 minuti dell’audace eclettica sperimentazione di Locomotive, con la batteria che parte col ritmo ciclico del veicolo di trasporto che intitola il brano e perfidi e taglienti accordi stratificati in pieno riverbero e delay per poi addentrarsi in territori free jazz cosmico con incessanti droni chitarristici, quindi visitare brevemente luoghi familiari dalla connotazione alt rock, prender quota grazie a crescenti accelerazioni noise e progressione kraut, ritrovare l’assolo psichedelico di Alex e concludersi magistralmente con gli assordanti tre minuti finali di pura cacofonia alla “Metal Machine Music”. Gran bella serata dove Thurston, muovendosi su territori ben consolidati, ha deliziato i presenti che hanno goduto pienamente del riecheggio di un familiare passato, di quell'incommensurabilmente glorioso passato. Ferruccio Guglia


The Fleshtones
100 Club, Londra, 11 settembre 2025
Per i newyorkesi Fleshtones utilizzare gli aggettivi “leggendari” e “mitici” è dovere: sono l’unico gruppo fuoriuscito dal calderone CBGB’s di metà anni Settanta (Ramones, Cramps, Dead Boys, Television, Blondies, Talking Heads, ecc…) che ha ininterrottamente continuato a produrre dischi (tutti almeno sopra la sufficienza) e ad esibirsi dal vivo per mezzo secolo con la formazione originaria (unico cambio Kenny Fox, che dal 1990 li accompagna al basso e alla voce). Autori di almeno due imprescindibili capolavori del genere (i primi album “Roman Gods” e “Hexbreaker!”) e protagonisti di innumerevoli, memorabili serate grazie alla contagiosa energia trasmessa al pubblico, per un periodo di tempo erano la migliore party band in circolazione. Ricordo ancora un concerto di decenni fa dove riuscirono a coinvolgere tutta la platea a creare un trenino (!) per uscire fuori dal locale (!!) schiamazzando in strada lo “sha la la la la” di Roman Gods tra gli sbigottiti e increduli passanti, per poi tranquillamente ritornare dentro il club, salire sul palco e continuare la festa con il loro “super-rock”, termine da loro stessi coniato per riassumere la personale, perfetta miscela di garage, beat, soul, surf e punk. Il fatto che questi quattro settuagenari continuino tuttora a intrattenerci divertendosi è di per sé motivo di celebrazione. Per cui, nonostante lo sciopero dei trasporti pubblici, mi avventuro per raggiungere il 100 Club in piena Oxford Street. La festa inizia col rock’n roll con tanto di coretti di New Song, a cui segue a sorpresa The Girl from Baltimore, uscito come singolo nel lontano 1980. Dal recente ultimo lavoro (It’s Getting Late) vengono proposti il rock licantropo di Say You Don’t Mind It, la rollingstoniana Empty Sky e la già classica Way of the World, con Kerry al microfono. Da quello precedente (“Face of the Screaming Werewolf”), Alex Trebek e la scatenata Manpower Debut e poi via a saccheggiare dal vasto catalogo, tra le altre citiamo I Surrender! New Song, Hard Lovin Man, l’auto celebrativa Remember the Ramones, New Scene (da “Hexbreaker!”) e la cover dei Coastliners Alright!
Keith passa tutta la serata a suonare la chitarra nel suo caratteristico e inconfondibile stile, ovvero esibendosi in continue sforbiciate e salti come a voler prendere a pedate in culo il fattore anagrafe. Non da meno il sodale Kenny (basso) che sembrerebbe voler dimostrare a Keith che in un’ipotetica gara ginnica gli darebbe filo da torcere. Il sornione Peter (voce) si limita a sculettare, shakerare, twistare, watusare e hullygullare con la sua canuta frangia floscia che ritmicamente si sposta da destra a sinistra. Il buon Bill sta dietro la batteria e vista l'età (77 compiuti) meglio così, perché gli vogliamo bene e non vorremmo che fuoriuscisse qualche ernia. Dato che sul palco ci stava pure un organetto, aspettavo trepidante I’ve Gotta Change My Life (proposta senza Farfisa durante la presentazione del nuovo album alla Rough Trade Records Shop lo scorso dicembre, in concomitanza col tour da supporto ai Damned in suolo britannico) ma purtroppo non arriva: ci pensa invece il party anthem strumentale Theme from the Vindicators a rincuorarmi concludendo la serata nel migliore dei modi con gli sbraitanti hey hey e gli sha la la la. A fine concerto chiedo al sempre affabile Peter il segreto della loro longevità e lui risponde: “siamo quattro amici a cui ancora piace suonare rock’n’ roll, non abbiamo mai fatto un soldo per cui non abbiamo nessun motivo per litigare. Basta che ci offriate vitto ed alloggio e siamo pronti a divertirci e farvi divertire”. Leggendari e mitici, come dicevamo. Ferruccio Guglia


Six Organs Of Admittance
Industrie Fluviali, Roma, 12 settembre 2025
Mai calligrafico nella sua esposizione, Ben Chasny ci fa sapere in questo suo mini-tour italiano quanto le musiche degli ‘altri’ continuino a esercitare un’enorme influenza nella sua sfera, anche mediatica. Il problematico adolescente riversa tutto il suo spleen in Fascination Street dei Cure e ci ricorda come l’esoterismo folk sia da sempre una passione (l’amicizia con David Tibet dei C93) in una trasfigurata rilettura di Fire Of Mind dei Coil, ovviamente meno cosmica e più asciutta. Come suona la chitarra di Six Organs Of Admittance oggi? È un’elettrica senza un filo di distorsione, ovviamente c’è l’eredità Takoma da stemperare, ma anche qualcosa di Richard Thompson e del culto kraut Gunter Schickert. La scaletta – apprendiamo – è diversa per ogni serata, non foss’altro per la pazza variante cover (anche un’apparentemente inoffensiva White Wedding di Billy Idol assume contorni epici). L’eclettismo dell’uomo è narrato dalla sua estesa discografia ma anche dal suo essere camaleontico on stage – temo di essere arrivato in doppia cifra senza aver mai ho visto il medesimo spettacolo. Ci sono gli inarrivabili evergreen come Shelter From The Ash e Hold But Let Go al fianco di brani assortiti da un corpus sempre più esteso, c’è tutta la grazia di un autore che in maniera verticale ha attraversato le vie della neo-psichedelia e del new weird folk senza mai dare l’impressione di adeguarsi a forme convenzionali. La capacità di sorprendere (pensiamo al disco collaborativo con Shackleton o agli affondi elettrici del power trio Rangda) rimane una prerogativa, una missione. Un ringraziamento sentito anche ad “Unplugged In Monti”, che in una cornice invidiabile ci ha riconsegnata intatta la fragranza e fragilità di Ben. Luca Collepiccolo


The Bug Club
@The MOTH Club, Londra, 10.09.2025
Lo storico conduttore radiofonico Marc Riley (alla corte del tirannico Mark E. Smith nella prima incarnazione dei Fall a cavallo tra ’70 e ’80, che ovviamente lo licenziò) qualche anno fa trasmise My Baby Loves Rock & Roll Music, un pezzo che mi svegliò dal torpore pomeridiano col suo suono alla Velvet/Modern Lovers. Annotai il nome del gruppo per future investigazioni a cui mi dedicai subito dopo l’ascolto della deliziosa It’s Art, che suonava come un inedito dei primi Pavement. Da quel momento in poi seguo con affetto il prolifico trio gallese Bug Club, che mi trasportano indietro nel tempo in un mondo familiare dove tutto era più semplice, in cui l’immaginazione era fervida e lontana anni luce dal rincoglionimento da cerebroleso causato dallo scrollamento di polpastrelli su piccoli odiosi dispositivi. Quello delle liste compilate certosinamente per scambi postali con altri appassionati al limite della morbosità maniacale, della banconota da cinquemila lire inserita nella busta affrancata per acquistare fanzine dall’impaginazione sospetta o demo direttamente dai gruppi, dell’attesa spasmodica per l’arrivo del pacco con i dischi (per lo più forati) acquistati grazie alla mensile colletta tra amici, ecc…  Sì, le accattivanti e semplicissime melodie dei Bug Club miracolosamente fanno rivivere quell’industrioso universo DIY degli anni ’80, ingenuo ma ingegnoso, che l’evoluzione tecnologica ha brutalmente spazzato via, sensazione rafforzata dalla grafica scelta dal trio per le varie uscite discografiche e merchandise (fumetto incluso). Il fatto che non si prendono sul serio (nonostante da qualche anno incidono per la Sub Pop) e che si divertono da matti aggiunge un ulteriore strato di gradevolezza al tutto che li rende ancor più simpatici. Sam Willmett (voce e chitarra) e Tilly Harris (voce e basso) suonano insieme sin da ragazzini, per cui l’interazione è perfetta e l’alchimia ben rappresentata dai continui sguardi d’intesa e sorridenti accenni che si scambiano sul palco per tutta la serata.
Nonostante l’immediatezza del suono, che su disco cerca di catturare l’energia delle loro esibizioni live con produzione volutamente lo fi, la scrittura è meticolosa con testi arguti, spiritosi, taglienti ed ironici. Tra l’iniziale Twirling in the Middle con i suoi cambi di tempo (ad un certo punto si fa rocksteady) e la conclusiva Quality Pints, due veloci minuti di energetico pop-punk di puro divertimento, la serata sciorina una raffica di potenziali alt-hit accomunati da energia grezza, ritmi serrati e incalzanti assolo mostrando un’inaspettata capacità tecnica e quella rinfrescante inventiva sbarazzina che li rende eccitanti. La riconoscibilità della proposta riporta in mente la perfetta descrizione affibbiata da John Peel al gruppo di Mark E. Smith, “Always different, always the same”. Marriage, Jealous Boy, Lonsdale Slipons e How to be Confidante vengono accolte con entusiasmo dai presenti ma per me l’highlight della serata è We Don’t Need Room for Loving, irresistibile nella sua accattivante elementarità, con Sam e Tilly che all’unisono elencano le lettere dell’alfabeto cercando di evitare che i reciproci smaglianti sorrisi si tramutino in incontrollabili risate, momento che ben esemplifica la perfetta sintonia tra i due e la sincera spontaneità e brillante e arguta semplicità del trio. Menzione d’obbligo infine per gli apripista Fruit Tones, terzetto di Manchester già apprezzato dal vivo lo scorso anno come spalla di Jon Spencer e The Nude Party, col loro rock stradaiolo tra Stones e Dolls con all’attivo due bei album e un terzo in arrivo. Ferruccio Guglia


Richard Thompson
Roma, Auditorium, 4 Settembre 2025
Gli artisti del folk inglese raramente oltrepassano le regioni del nord, dove questo genere ha da sempre maggior seguito. Il tempo, però, è galantuomo e oggi anche uno come Richard Thompson, che è davvero da considerare un capostipite, può godersi una sala quasi piena e partecipe come quella dell’Auditorium di Roma.
Thompson, per chi non lo conoscesse, ha alle spalle una fulgida e ultradecennale carriera: fondatore nella seconda metà degli anni ‘60 dei Fairport Convention, uno dei primi gruppi a tentare con successo una via “elettrica” al folk (con grande biasimo dei primi revivalisti), intraprese un’attività solista a metà del decennio successivo, lanciando una serie di album, a volte insieme alla moglie di allora, Linda Pettifer, sotto la sigla di Richard and Linda Thompson, tra i quali è doveroso ricordare almeno I Wanto to See the Bright Lights Tonight (1974). Da allora il folksinger inglese, anche dopo la separazione da Linda ha continuato a incidere regolarmente fino all’ultimo lavoro Ship to Shore (2024).
Musicista versatile, Thompson si è presentato a Roma armato solo di una chitarra acustica che ha suonato per un ora e mezza in modo magistrale, secondo i dettami della grande scuola dei chitarristi folk inglesi (Davy Graham, Bert Jansch, Martin Carthy, John Renbourn, per fare solo qualche nome), vale a dire uno stile che ha adottato le tecniche e le accordature del blues utilizzandone l’estraneità al sistema musicale eurocolto per evocare ritmi, armonie e timbri della tradizione popolare britannica (della quale, a rigore, la chitarra non fa parte). Di qui, per esempio, l’uso di abbassare la sesta corda della chitarra di un tono per ottenere la possibilità di suonare le ultime tre all’unisono, ottenendo un bordone che permette una ritmica costante mentre le altre dita si muovono su e giù per la tastiera. E, infatti, per la maggior parte del tempo del concerto l’artista ha utilizzato questa accordatura, ritmando quasi tutti i brani in questo modo e cambiando le tonalità con l’uso di un capotasto mobile: solo occasionalmente ha riaccordato la chitarra e, infatti, lì si è distratto e si è perso, sbagliando la tonalità: “dovreste applaudire quando faccio delle cose buone. Non quando sbaglio!”, ha detto ridendo al pubblico che l’incoraggiava… Al di là di questi dettagli tecnici, Thompson, ultrasettantenne, è sembrato davvero in gran forma sia come chitarrista che come cantante, producendosi in una performance notevolissima, di grande uniformità, senza cali di tensione e con l’aiuto, in alcuni brani, della voce di Zara Philips, compagna d’arte e di vita. Sono sfilati così alcuni grandi classici del suo repertorio, dai primi brani dei Fairport Convention fino, a I Want to See the Bright Lights Tonight con, ovviamente, un occhio di riguardo per l’ultimo album. Bellissima soprattutto l’esecuzione di If Love Whispers Your Name (da Dream Attic, del 2010, realizzato con Linda) e, soprattutto, di Johnny’s Far Away (da Sweet Warrior, del 2009), presentato quasi come uno “shanty”, vale a dire come uno di quei canti dei marinai delle isole britanniche che prevedono un refrain da cantare in coro (invito che la platea ha prontamente accolto). A conclusione, la commovente Wall of Death, tratto dal disco Shoot Out the Lights, ancora con Linda, del 1982. Giovanni Vacca


Tropical Fuck Storm
Electric Ballroom, Londra, 02 settembre 2025
Coincidenze e imprevisti vari mi hanno impedito di assistere in passato ai live dei TFK, per cui un liberatorio sospiro di sollievo accompagna il mio ingresso all’Electric Ballroom. Onde evitare sgradite sorprese arrivo puntuale e vengo ripagato dalla prima assoluta degli Unmarry Me!, trio di recente formazione con Chris Rowley and Jon Slade (alfieri del riot grrrl sound in terra d’Albione con gli Huggy Bear nei primi anni ‘90) e Lise Frances. Mezz’oretta di DIY electro alt pop, costruito sulle ritmiche dettate da ripetute linee groovy di basso e synth su cui si innestano le voci, la cui alternanza tra maschile e femminile, ricorda a tratti il primo Tricky. Di seguito gli O. duo londinese composto da Joe Henwood (sassofono) e Tash Keary (batteria) che propone con energia e passione la muscolosa e coraggiosa miscela di noise strumentale, jazz, punk, doom metal e ritmiche dance ben apprezzata nel debutto “WeirdOs”, uscito nel 2024 per la Speedy Wunderground. I monolitici riff di sax e la furiosa batteria suonano ancor meglio dal vivo grazie all’ineccepibile destrezza del duo.
E poi eccoli qui, gli australiani Tropical Fuck Storm, entrati di diritto nel mio circoscritto olimpo di gruppi “importanti”, un circolo esclusivo popolato da artisti che per la capacità di instaurare forti legami emotivi con l’ascoltatore trascendono la semplice dimensione sonora riuscendo a creare, se non proprio degli universi paralleli, almeno dei microcosmi abitati da fruitori accomunati da sensibilità interiore, gusti e valori. Il senso di appartenenza è tale da costituire una vera e propria comunità astratta e dai labili confini delineati dalla profonda risonanza interiore scaturita dall’ascolto. Nel mio caso, per ragioni anagrafiche e gusti personali, citerei gli Husker Du e i Fugazi, che proponevano la (grande) musica con quella giusta attitudine che ammiravo da giovincello. Ragione per cui adesso, in piena mezza età, scoprire e seguire un gruppo “importante” nel senso sopra menzionato riaccende focose passioni giovanili considerate ormai sopite.
Si parte con il contorto avant funk di Braindrops, con la maciullata narrazione nasale, irregolare e biascicata di Gareth (voce e chitarra) che mutila il lessico e sevizia sintassi su cui si innalzano i nervosi ma caldi e ariosi strilli armonici del coro greco delle divine Fiona (basso) ed Erika (chitarra e tastiere). Di seguito Irukandji Syndrome, perfetta rappresentazione dell’ormai consolidato suono TFS, miscela di experimental art noise dalle melodie storte, deformate e sinistre con implacabile giro di basso e la chitarra di Gareth spigolosa e dissonante (che per tutta la serata tira fuori strani armonici e suoni insoliti grazie all’utilizzo dei pedali).
Si continua con due pezzi avant pop mutante, l’allucinata versione in technicolour dei B52’s in pieno schizzato deliro acido della strepitosa Bloodsport, con Erika alla voce e la chitarra di Gareth figlia bastarda di Lee Renaldo e Snakefinger affetto da ADHD, e il surrealismo dada della delirante e febbrile Goon Show, dove ritroviamo la voce narrante, baritonale e rauca di Gareth ad accompagnarci fino all’inevitabile deflagrazione con folgoranti scariche di pura elettricità ustionante. L'omaggio agli Stooges Ann, con Fiona alla voce che parte in sordina per poi prendere corposità tra stridente feedback, abrasiva elettronica distorta, e diavolerie varie per autocombustire in un glorioso e solenne finale degno degli Swans con Lauren, indefesso motore propulsivo che irradia e distribuisce pura energia ai compagni di viaggio (musicisti sul palco e spettatori in platea) e che con totale abnegazione per tutto il concerto sembra impartire una lezione punitiva alla malcapitata batteria aggredendola con feroce veemenza e violenza sadica nel tentativo donchisciottesco di polverizzarla prima che la serata termini.
E poi arriva You Let My Tyre Down, emozionalmente devastante, con la voce di Gareth tormentata e straziante che necessariamente, per motivi di mera sopravvivenza, trova sfogo nel liberatorio urlo catartico a polmoni pieni. Un pezzo che ti va dentro e scava in profondità per raggiungere il cuore e spezzarlo e poi impietosamente abbandonarti stremato, affranto e logorato con gli occhi lucidi, in uno stato di euforico sconforto. Difficile riprendersi ma per fortuna siamo graziati dal lento inizio cantilenante della spettrale Moscovium, che all'improvviso ci scuote con le sue invettive strillate per poi prender forma corposa e terminare in pura cacofonia. Il robotico ed alieno tropical avant funk dal groove sfalsato ritorna con Who’s My Eugene, con Erica nuovamente al microfono per offrire la necessaria energetica linfa vitale e accompagnarci dritti dritti all’epico finale con l’efferata Two Afternoon, tesa, frenetica e maniacale e di seguito i nove minuti di Paradise, con i cori femminili che cercano di alleggerire l’insostenibile fardello trasportato dalla sofferta voce roca di Gareth tra le chitarre desintonizzate che poi esplodono in un wall of sound, un vero ciclone sonoro che ben giustifica il moniker scelto dal gruppo che spietatamente ci travolge con inaudite ondate di feedback.
Encore festoso con l’esuberante cover di Staying Alive (che alla luce della vittoria di Fiona sul cancro acquista maggior significato) che suona pressappoco come la versione dei Bee Gees se ascoltata sulla cassettina originale logorata dal tempo e quindi smagnetizzata che gira su piastra inutilizzata da decenni dalle testine luride, ovvero bella sghemba, sgommata dal riff stonato, satura di rumori statici, fruscii e sibili vari. In questa “golden age of assholes” i TFS rappresentano un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi saldamente, un fulgido bagliore di combattiva resistenza e rassicurante speranza, ben esemplificato dal “I am (still) your island when you’re washed away”. Candidato a concerto dell’anno. Lunga vita ai TFS, il gruppo “importante” di questo decennio. Ferruccio Guglia


“Jazz Em Agosto 2025”
Lisbona, Fondazione Gulbenkian, 3-8 Agosto 2025
Le circostanze hanno fatto sì che mi trovassi a Lisbona nel periodo di Jazz Em Agosto e che il mio alloggio fosse a poco più di cinque minuti dalla Fondazione Gulbenkian dove si sono tenuti i concerti, la maggior parte in uno splendido anfiteatro all’aperto, circondato da un parco lussureggiante, una specie di molto mini Central Park lisbonese. Il calendario della rassegna dal 1 al 10 agosto è stato più ampio della mia permanenza è questo ha fatto si che mi perdessi inevitabilmente i sets del primo agosto (William Parker – Cooper Moore – Hamid Drake) e del due (Rafal Toral e Kris Davis Trio), nonché del nove (Shane Parish solo acustico e Thumbscrew) e del dieci (Elias Stemeseder con Christian Lillinger e il nuovo progetto in settetto di Patricia Brennan).
Per imprevidenza (sold out) mi sono negato, il 3 pomeriggio, il trio di Mariam Rezaei, Julien Desprez Electric e Lukas König, i quali hanno messo a ferro e fuoco uno dei due auditorium del centro culturale. Pure dall’esterno, infatti, ho potuto in qualche modo percepire l’atletica rumoristica dei tre; distintamente sono arrivate le percussioni furenti e rocambolesche e gli scrocchi della chitarra, il resto si intuiva. L’ovazione guerriera del pubblico ha confermato le impressioni, un diavolerio da non mancare se vi capita.
Ho evitato per il rotto della cuffia di perdermi Darius Jones con Chris Lightcap al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. Nonostante l’annunciato sold out alla fine qualche posto residuo c’era. Da lì fino all’8 sera me la sono goduta.L’insieme (atmosfera, clima, “dove ascolto la mia musica è la mia casa” etc.) è stato forse superiore alle singole parti (faccio riferimento a quanto sentito, 6 concerti su 14 non considerando la Rezaei) ma le parti sono state assai appaganti o quanto meno molto interessanti. Il sassofonista americano ha portato all’attenzione l’ultimo suo “The Hypervigilant Eye”, declinato in una forma carnale e affabulando il pubblico con grande simpatia. All’esecuzione di We Inside Now, ad esempio, ha invitato i presenti a farsi più vicini e una ventina di spettatori sono scivolati dalla platea al palco, sedendosi attorno al trio. Potente, precisa, lirica, radicalmente blues la musica, con una sezione ritmica strepitosa - Lightcap che faceva risuonare il contrabbasso dentro lo stomaco. Anche perché, se il tono era affettuosamente da summertime, la materia era intrisa di dolore e sofferenza. Jones l’ha detto, ora vi suono No More My Lord, uno dei brani più cupi di sempre. Scritta da Henry Wallace, un detenuto della prigione di Pachman Farm nel Mississippi e raccolta da Alan Lomax, la canzone è il doppelgänger di Summertime, il velo strappato, lutto e misericordia. L’interpretazione da seduta spiritica del trio non ha spaventato la cavea, che si è stretta di più intorno al cuore d’intensità della serata. Nessun pannicello caldo di buoni sentimenti. Solo il segno che il dolore condiviso è più tollerabile e che la musica può rendere memoria e testimonianza, lasciando, chissà, un seme di cambiamento in ognuno. I presenti, tanti tanti, hanno risposto con gioia, ognuno con una propria specifica ragione.
Diversi sarebbero i rivoli da seguire per ricostruire le storie sonore e la musicologia della rassegna. La chitarra, ad esempio: da Toral a Desprez a Joachim Festas a Paris a Halvorson. Ma pure il contrabbasso.
La sera del quattro il trombettista di casa, Luís Vicente, si è accompagnato alle percussioni di Pedro Melo Alves (che frequenta anche ambienti molto sperimentali) e alle corde di Gonçalo Almeida (che, tra le tante cose, suona anche nei Tettarapadequ con il connazionale João Lobo e gli illustri nostri Daniele Martini e Giovanni di Domenico). Atmosfere latine e brasiliane e coloriture aspre; ed è stato Almeida a definire i confini dello scenario sonoro in cui la tromba cantava, mentre una batteria tellurica ha reso tutto piacevolmente instabile. Gran calore domestico negli applausi.
Avevo qualche perplessità a riguardo del quartetto di João Próspero (contrabbassista anche lui). Il suo album di debutto, “Sopros” mi piace, ho fisiologicamente bisogno anche di questi suoni più “morbidi” e il disco mi soddisfa pienamente. Ma in un ascolto privato, o in auto per allontanarmi da scorni e tristezze. Temevo che dal vivo svaporasse in sentimentalismi e venisse ferito dai continui passaggi degli aerei (uno ogni dieci minuti, forse meno). Sono stato felicemente smentito, e per ampiezza della forchetta tra (non) aspettative ed esito, mi è sembrato (un fatto di pura prospettiva) il concerto migliore. Lui insieme a Joaquim Festas (chitarra), Miguel Meirinhos (pianoforte) e Gonçalo Ribeiro (percussioni) hanno virato verso arrangiamenti più spigolosi, invenzioni semi-sperimentali (tutta la musica se “è” è sperimentale…), nelle geometrie ritmiche e pure negli sviluppi armonici. A un certo punto mi è venuto in mente Camufleur dei Gastr del Sol, non per affinità sonora ma per acerba attitudine a quell’obliquo che quasi non ti accorgi (e forse perché all’andata mi ero letto il libro di Federico Savini). Dunque un bel set, asciutto ma emotivo, classico ma nervoso come il miglior modern jazz non da scaffale. Alla faccia del look nerd (o forse proprio per quello).
Altro set molto atteso quello di MOPCUT (Audrey Chen, Julien Desprez e Lukas König) + Moor Mother + MC Dälek. Il blend di hip hop, sperimentazione free, poesia e screziature jazz ha funzionato è gradualmente cresciuto e condotto il pubblico a sintonizzarsi su groove urbano-politici dall’ensamble. Musicisti che entrano in scena singolarmente, suono che ramifica. Prima i vocalizzi e l’elettronica mutante della Chen, poi la poesia urbana di Moor Mother. Quindi le percussioni di König per batter questi tempi sconnessi. Quindi, insieme Dälek e Desprez. A questo punto la macchina sonora ha cominciato ad ingranare un passo, pure un poco kraut, di trascinante inesorabilità, dando l’abbrivio ad un interplay in cui la visione tragica del mondo fluiva attraverso le parole di Camae Ayewa– world wide web, intelligenza artificiale, entropia tecnologica. Con ritmo emotivo in levare, figurativamente almeno, di speranza.
Un concerto che lanciava la volata politica a quello che il sette di agosto è successo nell’ audiotorium della fondazione. Un palco che ha come quinta una vetrata che dà sul parco, colpo d’occhio incredibile. Gli X-Ray Hex Tet sono Billy Steiger (celesta e violino), Crystabel Riley (percussioni), Edward George (voce, registrazioni, effetti) Pat Thomas (pianoforte ed elettronica), Paul Abbott (percussioni ed elettronica), Seymour Wright (sax alto). George e Thomas agli estremi, sinistra e destra, della formazione. I due set di percussioni al centro (Riley a sinistra). Wright in piedi, dietro, tra Edward e Riley, alla sua sinistra, seduta alla celesta e dietro Abbott, la Riley. Una semi-oscurità per un teatro sonoro tanto perturbante nella sua progressione verso una specie di vuoto di coscienza dove si coglie la durezza del messaggio e ci si ritrova specchiati nella storia. È la voce di George - sembra insopportabilmente monotona e diventa persecutoria - a dare senso all’esecuzione “musicale”. Il nodo è storico, politico. Edward George attinge a documenti conservati presso l’Università di Edimburgo, dai quali emergono drammaticamente le dinamiche di coinvolgimento dello stesso ateneo nel traffico di schiavi, nelle logiche del colonialismo capitalistico, nelle teorie pseudoscientifiche (la frenologia) per legittimare la superiorità razziale dei bianchi. Durante il set, verso la metà, diverse persone sono uscite dalla sala. Sarebbe bello chiedere perché. Per via di una non-musica che radicalmente feriva di spiacevolezza l’ascoltatore? Per la requisitoria che ricordava, con toni più agghiacciati e documentati, il Pop Group dei primi due album? Le due cose mi hanno incollato alla poltroncina, spinto (con me tanti altri) ad aguzzare…l’ascolto. Ed è finito come doveva. Applausi intimiditi, un che di silente sgomento. Un buco nello stomaco. E il risuonare di quella negazione retorica, gettata là, tatuata in mente “Questo non ha niente a che fare con Gaza”.
Ho lasciato Jazz em Agosto e Lisbona con gli echi post-math, pizzicchino di “in opposition”, noise quanto basta degli Ahleuchatistas 3, continuazione di quel progetto di Shane Parish / Perlowin insieme ad un tarantolato Danny Piechocki (percussioni) e Trevor Dunn (basso). Musica che, out of the box, è il punto di contatto tra il punk e il barocco, tanto è fisica e furiosa nell’impatto sonora quanto cesellata e ricamata nelle geometrie non euclidee. Bisogna entrare nel flusso, nel toboga del power trio (altrimenti diventano noiosi gomitoli di filo spinato) e bravi i tre a tirarci dentro il pubblico. Al bis l’ineffabile chitarrista ha scherzato “abbiamo suonato musica tutta scritta e questo ci hanno detto è un festival jazz e allora facciamo un po’ di improvvisazione”. Una chiusura più in libertà, senza ansie di prese strette, magari una possibile evoluzione.
E così, accarezzato da un venticello fresco, mi sono lasciato alle spalle una delle ragioni migliori per spendere qualche giorno nella capitale portoghese. Dionisio Capuano


The Burning Hell
The MOTH Club, Londra, 26 agosto 2025
Qualche anno fa, in pieno lockdown causa Covid, misi insieme una playlist composta da brani orecchiabilissimi dai testi positivi e ottimisti, inni di speranza da cantare collettivamente in famiglia per esorcizzare le paure causate dall’incertezza di quei tempi. Posizionata tra Three Little Birds di Bob Marley e Always Look on the Bright Side of Life dei Monty Python, ci stava Everything Will Probably Be OK dei canadesi Burning Hell, progetto del geniale cantastorie Mathias Kom e della compagna Ariel Sharratt, talentuosa polistrumentista, che da quasi due decenni raccontano in maniera spensierata e divertente l’avvento dell’imminente apocalisse a cui, ahimé, la razza umana sembra ineluttabilmente avviarsi. Per cui, mentre sono ancora in tempo, mi dirigo al MOTH Club per assistere alla prima data del tour britannico (ben sedici in una ventina di giorni) per ringraziarli di aver contribuito a offrire una parvenza di necessaria tranquillità da somministrare quotidianamente ai miei figlioli (allora adolescenti) in quel tempo di assoluto bisogno.
Jon McKiel (chitarra acustica) e il fido collaboratore Jay Crocker (synth autocostruito) aprono la serata incantando con 40 minuti di ammaliante folktronica, a tratti rarefatta ed enigmatica e a tratti trasognante e ipnagogica. Li vediamo entrambi nuovamente sul palco (Jon alla batteria e Jay alla chitarra) accompagnare Mathias e Ariel per la performance dei Burning Hell, questa sera in versione quintetto grazie alla polistrumentista Maria Peddle. Da “Ghost Palace”, l’album di recente pubblicazione, vengono proposti gli indie rock Celebrities in Cemeteries e Summer Olympics, l’allegro calypso Brazil Nuts & Blue Curacao, la divertente Bottle of Chianti, Cheese and Charcuterie Board, il country klezmerato Duck vs Decorated Shed, il bubblegum pop punk Home Planet, il pop Luna FM e la title track, ballata acustica da brividi. Nella scaletta trovano posto l’indie folk da balera periferica Wallflowers, l'ironia cinica del divertente folk da protesta Never Work (amplificata dalla tuta da lavoro rossa indossata da Ariel!) le frenetiche e prolisse Birdwatching e Barbarians, l'eccezionale Bird Queen of Garbage Island che riporta alla memoria i Tom Tom Club e ovviamente il cavallo di battaglia Pass the Wine, Fuck the Government, I Love You col ritornello, a tempo di valzer, cantato a squarciagola da tutta la platea. I testi divertenti, stravaganti e originali impregnati d’umorismo nero pece e presentati con vivaci giochi di parole sono essenziali per apprezzare in pieno il genio dei nostri: puro deadpan humor, non a caso qualcuno si è scomodato a menzionare lo scrittore americano Tom Robbins, scomparso lo scorso febbraio.
Al termine della serata, tutte le nostre endorfine sono state rilasciate e usciamo dal locale radiosi, gai e giulivi a tal punto da pensare che se è vero che la migliore medicina è sorridere, allora il servizio sanitario nazionale dovrebbe obbligatoriamente prescrivere una dose giornaliera d'ascolto dei Burning Hell, con tanto di bugiardino con la traduzione dei testi per assimilare in pieno le loro magiche capacità terapeutiche apportatrici di buonumore. Ferruccio Guglia


The New Christs
FLOG on Plein Air, Firenze, 17 agosto 2025
L’asse via etere che da Detroit porta a Sidney resiste, persiste e si rilancia, anche un pochino inaspettatamente, in particolar modo grazie a due soggetti dall’età indefinita (sopra i settanta ok, ma quanto?) e che più invecchiano e più assumono i tratti di certi bislacchi personaggi usciti dalla penna di Matt Groening. Si parla di Rob Younger e Jim Dickson ovviamente, due che la pensione logora chi non la vive “on the road” ma saltando per continenti, mica la gita domenicale fuori porta, perché se niente niente hai scritto la storia dell’aussie rock, quel fuoco ce l’hai dentro finché stai al mondo. E infatti galeotta fu “The Burning of Rome: Selected Tracks”, la raccolta in due dischi curata da Younger e pubblicata giusto in tempo per imbarcarsi, loro due più Brent Williams, Dave Kettley e Paul Larsen (ex Celibate Rifles, tra gli altri), in un tour europeo tardo estivo dei New Christs, a undici anni dalla loro ultima volta e per una ventina scarsa di date suddivise tra Regno Unito, Italia, Francia e Spagna. Quella di Firenze è la seconda qui da noi, con l’eco della sera precedente in quel di Bergamo che rimbalzava di una band in splendida forma, in tutti i suoi effettivi, come gradevole eccedenza in un groviglio di buone vibrazioni. Che poi, a tu per tu con un pubblico come quello fiorentino, composto quasi interamente di over cinquanta intrappolati nelle magliette dell’impeto adolescenziale (quella dei Radio Birdman la più gettonata), sarebbe stato difficile steccare per chiunque, anche in quella che si è poi rivelata la sagra delle corde rotte. Praticamente all’inizio infatti, dalle parti di On Top Of Me, parte il “La” del Fender di Jim Dickson – rigorosamente in prestito, perché lui giustamente è partito da Sidney solo col bagaglio da turista – e in assenza di scorte si è arrangiato alla meglio per una buona mezzora, fino al cambio di strumento avvenuto per gentile disponibilità di un fan che è andato a casa a prendere il suo. E questo è molto punk. Risolto quell’inghippo, si rompe una corda anche alla “diavoletto” di Dave Kettley, più o meno intorno a The Golden Street, ma qui la soluzione è a portata di mano anche se più laboriosa del previsto… Malgrado gli intoppi il concerto però non ha avuto sussulti in negativo, anzi, tutto si è ammantato di un’aura di felliniano DIY per cui, accada quel che accada, anche con onorevoli escursioni stoogesiane in una scaletta selezionata a rappresentare la summa dei New Christs, si è continuato a sverniciare ricordi e sensazioni fino alla conclusiva Bonsoir A Vous, nella brezza notturna che ha frammentato la canicola nel patio estivo del Flog fiorentino. Lode e gloria all’inossidabile Rob Younger e compagni di viaggio, dunque, che il sacro fuoco del rock continui a bruciare con questa veemenza per l’eternità. Andrea Amadasi


CCCP – Fedeli alla Linea
Teatro Antico, Taormina ME, 30 luglio 2025
Che adesso sia davvero finita, che queste sette date del tour “Ultima chiamata” abbiano definitivamente chiuso l’imprevedibile “piano quinquennale”, in favore di una solo presunta stabilità, soltanto il tempo ce lo racconterà e di sicuro non passeranno altri quarant’anni. Di voci in direzioni sparse e contrarie ne abbiamo lette e sentite tante, da una parte ammantate di speranza proattiva e dall’altra a mo’ di esorcismo per scongiurare l’ennesimo incubo notturno dell’uomo nero e cattivo. Quisquilie che fanno arredamento e nulla più. Di fatto la data finale di Taormina, all’interno di un luogo così pregno di storia da aggiungere soggezione, ha confermato alla vista quello che i più introdotti nell’ambiente CCCP – Fedeli alla linea hanno sempre saputo, ossia che G. L. Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur hanno vissuto questi mesi e questi ultimi tre anni (che diventano quasi cinque, considerando i lavori per l’allestimento della mostra “Felicitazioni”) in totale empatia, fedeltà e onestà con sé stessi e la loro storia in primis, poi allo stesso modo con le decine di migliaia di persone complessive che da Reggio Emilia a Berlino e a seguire nelle varie città dei due tour ‘24/‘25, li hanno seguiti con affetto ed entusiasmo. Nulla in questo “piano quinquennale” è stato lasciato al caso, è ovvio, ma solo nel momento in cui ogni volta la casualità li ha messi di fronte alla scelta se assecondare sé stessi, la loro indole e la loro voglia di starci dentro (e “troppo presto o troppo tardi” ormai non importa più), oppure lasciar perdere e chi s’è visto s’è visto. Sul palco di Taormina noi abbiamo visto sì tanta stanchezza fisica e mentale da parte loro, ma anche tanta beatitudine che viene da dentro e non inganna. Occhi spesso socchiusi a custodire gelosamente le emozioni oppure sguardi a raggiera a contemplare istanti di meraviglia e sorrisi che nascono dal cuore. Lungo le varie date dell’“Ultima chiamata” avevamo visto però anche un Ferretti tirato a lucido reiterare con mistica soddisfazione l’intuizione della lode a Pier Paolo Pasolini, dopo quelle a Mishima e a Majakovskij, quasi lo intendesse come lascito definitivo all’istinto di quanti tra i più giovani che si assiepavano tra il pubblico. Abbiamo visto (e soprattutto sentito) Zamboni riuscire f
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