LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Thee Osees]

Osees
Electric Ballroom, Londra, 13 giugno 2025
Ad un anno di distanza tornano i californiani Osees all’Electric Ballroom, nel cuore di Camden Town. A guardar bene non è cambiato assolutamente nulla. Immutato è l’assetto bellico con i batteristi Paul Quattrone e Dan Rincon vicinissimi l'un l'altro e piazzati al centro di fronte al pubblico, il leader John Dwyer (voce, chitarra e tastiere) a sinistra, Tim Hellman (basso) a destra e defilato dietro Tomas Dolas (tastiere). L’immancabile canotta e i pantaloncini borgogna sfoggiati da John sembrerebbero esser gli stessi indossati lo scorso agosto sul medesimo palco e in effetti mi sorprenderebbe il contrario, dato che da oltre due decenni gli Osees sono tra i migliori interpreti di certe sonorità malsane e sudicie, lerce e insalubri. luride e settiche, che con l'igiene hanno poco a che vedere…
Nella trentina di dischi pubblicati con sigle dalle varianti ortografiche (OCS, The Ohsees, The Oh Sees, Thee Oh Sees, Oh Sees, Osees) “giusto per sbeffeggiare chi si lamenta della nostra iperproduttività”, mi confesserà John a fine concerto, hanno (mal)trattato diversi generi musicali riuscendo sempre a conferirgli una ben riconoscibile propria identità. Il giro di basso e i venti cosmici della tastiera introducono Withered Hand, che apre la serata con taglienti e secchi inserti di chitarra (che per qualche attimo omaggia il Bernard Sumner joydivisiano), a ruota sulla stessa scia Ticklish Warrior e poi il classico garage di Toe Cutter/Thumb Buster. John, da neolitico guerriero, brandisce lo strumento come fosse un’arma da combattimento e parte Animated Violence, con magistrale tour de force dei batteristi che continueranno la loro missione di incessante martellamento nelle successive meraviglie freak kraut The Dream/The Daily Heavy, quest’ultima con tanto di irresistibili demenziali sillabari. Come di consuetudine, la percussiva Chem Farmer preannuncia l’arrivo di Nite Expo, dove l’elettronica kraut si sposa felicemente con l’hardcore, il garage, il noise e quant’altro: letteralmente fantastica. Seguono due fulminanti pillole hardcore (Funeral Solution, alla Black Flag, e A Foul Form, alla Dead Kennedys), due classici garage rock (Tidal Wave e I Come From The Mountain), la new wave alla Devo di Intercepted Message e l’inaudita ferocia di Scramble Suit II, con le sue accelerazioni schizoidi e psicopatiche. A If I Had My Way seguono la cavalcata psych kraut Encrypted Bounce, cavallo di battaglia dei live, e la turbolenta Rogue Planet. Dopo un’oretta al fulmicotone, i suoni dilatati e lisergici di Sticky Hulk concedono benvenuti attimi di tregua con elucubrazione al synth di John in versione corriere cosmico che, recuperata la necessaria energia, si spolmona con i successivi synth punk urlanti di Blimp e Drug City, con il microfono che a un certo punto va giù per la trachea che neanche Linda Lovelace in “Gola Profonda”. Seguono il psych kraut di Web, gli sguaiati garage rock di Tunnel Time e Gelatinous Cube e la meravigliosa C, che rallenta il ritmo e omaggia i Fall grazie ad un passaggio preso in prestito da Eat Yourself Fitter. Si conclude con un inedito che, vista la produttività ai limiti dell’incontinenza, sicuramente sarà dietro l’angolo.
Conclusione: serata violentemente esplosiva con volume tellurico ai limiti del masochismo. Ne usciamo fuori letteralmente asfaltati dall’intenso rullo compressore feroce, implacabile e spietato guidato dall’inarrestabile propulsione della sezione ritmica che va con precisione metronomica e da sola varrebbe il biglietto di entrata. Aggiungete l’energetica presenza scenica di John (encomiabile quantità di sputi e sudori inclusa) e il suo particolare modo di violentare la chitarra tra maniacale precisione chirurgica e vigorosi efferati freakout ed avete una delle migliori live band in circolazione, dove il constante e arrembante attacco sonoro all’arma bianca, apparentemente caotico, è accuratamente e dettagliatamente programmato, ordinato ed eseguito alla perfezione. OK John, se non ci estinguiamo prima a causa dell’idiozia umana, ci si vede fra dodici mesi per l’annuale animalesca aggressione alla mia soglia uditiva. Sì, consideratemi pure oseessionato. Ferruccio Guglia


Massive Attack
Medimex, Taranto, 21 giugno 2025
Manca qualche minuto a mezzanotte. È appena finito il live dei Massive Attack, andato sold out in pochi giorni. Il pubblico sta lasciando la piazza. In ordine. In silenzio. Abbiamo assistito a qualcosa di unico. Di emotivamente forte.
Siamo al Medimex di Taranto, che anche quest’anno si conferma un evento musicale internazionale ben organizzato e ospitale. Parteciparvi è sempre un piacere. Attorno ai live c’è un ricco programma di eventi collaterali: dj set, incontri, mostre. Quest’anno il MArTA - Museo Archeologico nazionale di Taranto, ospita la splendida mostra fotografica di Charles Moriarty su Amy Winehouse. Le foto di Moriarty risalgono al periodo dell'album Frank, e mostrano una Winehouse giovane e sempre sorridente. Uno stridente contrasto con le teste di medusa ospitate al piano superiore del museo. Un presagio?
Ma torniamo al concerto. La serata dei Massive è aperta dal live di Dada e dall'esibizione dei Kyoto, progetto di Roberta Russo che a Taranto si presenta per la prima volta come gruppo portando un set energico, ben dosato e coinvolgente. Da tenere d'occhio.
Ma siamo tutti in attesa dei Massive. Con loro si entra in una dimensione ibrida della performance artistica, che difficilmente possiamo inquadrare nella categoria “concerto”. È qualcosa che va oltre. È molto più vicina al teatro contemporaneo o alle grandi operazioni d'arte. I Massive Attack non si limitano a suonare (eccelsi sul piano musicale) ma mettono in scena un vero e proprio spettacolo con una ricerca, una narrazione ed una regia di cui la musica è solo un elemento. Parte fondamentale è affidata ai video, flusso di filmati, cut-up che fanno da pilastro e tolgono il fiato. Raccontano il nostro presente distopico e anestetizzante. Sui maxi-schermi scorrono immagini, dati e informazioni importanti, intermezzati da gossip e non notizie. Proprio quello che troviamo quando scrolliamo la home di un social.
Ad esempio, su “Take it There” siamo sovrastati da una montagna su cui si muovono dei bambini. Alcuni stanno scavando. Altri portano sacchi carichi di terra fino in cima alla collina. Se provano a riposarsi vengono redarguiti dai guardiani. Non sono consentite pause in questo lavoro. Siamo in Africa ed esattamente nella Repubblica Democratica del Congo, in una miniera dove questi bambini (ripeto: bambini) scavano per estrarre minerali, in prevalenza cobalto e litio, per i nostri apparecchi elettrici, ossia smarphone, computer e batterie varie. È tutto lì. Davanti ai nostri occhi. Non è un film. E mentre Robert “3D” Del Naja canta la parte che su disco è affidata a Tricky, le scritte ci comunicano che questi minerali sono ciò di cui è fatto il mondo virtuale. E che per questi minerali sono in corso continue guerre, minimizzate alle nostre latitudini, che ad oggi contano quattro milioni di morti. Quando al canto si affianca “Daddy G” Marshall, dalle miniere si è già passati ad immagini di guerriglia in Africa. È tutta così la perfomance. Un continuo flusso d'immagini. Appare tutta l'idiozia di Trump, l'epopea criminale di Netanyahu, la guerra in Ucraina, gli esperimenti di Elon Musk, i complotti. Tutto questo alternato a immagini prese da trasmissioni televisive, filmini (forse) di vacanze, intrattenimento vario. È tutto perfetto. Perché niente di quello che vedi basta da solo a shockarti, ma è l’insieme di immagini e accostamenti che si insinua nella tua testa, canzone dopo canzone. È quando lo rielabori a fine concerto che viene fuori l’inquietudine. Quella vera.
Su Girl I Love You compaiono sugli schermi tanti volti in fototessera. Il pubblico di Taranto si riconosce e sorride, come se fosse un gioco. Poi però ci pensi e ti rendi conto che con un programma d'identificazione facciale in un istante si possono identificare centinaia di persone nella folla, senza sbavature e con precisione. Inquietante.
Ad accompagnare 3D e Daddy G ci sono anche Horace Andy (da brividi nell'incessante “love you love you love you” di Angel) Deborah Miller (su Unfinished Sympathy la piazza è esplosa in un boato!) e la magistrale Elizabeth Frazer che, oltre a cantare il classico Teardrop che tutti aspettavamo e altre perle tra cui la bellissima Black Milk, ci ha regalato una chicca che mi ha lasciato senza parole: Song to the Siren in versione This Mortal Coil.
All'uscita del concerto ci siamo tutti chiesti: ma è questo il mondo che stiamo vivendo? Davvero siamo così narcotizzati?
La risposta è arrivata tornando in albergo, quando mi sono riconesso ai media per scoprire che Trump, indossando un imbarazzante cappellino da baseball rosso, aveva appena bombardato l'Iran su suggerimento di Netanyahu. Ecco perché quello dei Massive Attack non è un concerto, ma è un'opera che parla del nostro (assurdo) presente in epoca social. Massimo Lovisco


“La Prima Estate”
Parco Bussola Domani, Lido di Camaiore (LU), 20/21 giugno 2025
A qualcuno piace, a due passi dal mare della Versilia, sdraiarsi all’ombra della vegetazione oppure stare in piedi, con lo sguardo mellifluo rivolto al palco sotto il sole del tramonto. Piace l’atmosfera “zero stress” che da sempre pervade “La Prima Estate”, forse l’unico festival al mondo in cui dall’afflusso al deflusso tutto è alla portata di tutti e senza affanni – che poi quel “qualcuno” in realtà sono svariate migliaia di persone e qualche grattacapo da gestire sarebbe nell’ordine delle cose, salvo rare eccezioni. Piace soprattutto, e come sempre, la proposta musicale incentrata sulla qualità e varietà degli artisti e non sull’abbondanza, perché non manchino quei momenti cosiddetti morti (i cambi palco) in cui godersi la compagnia delle persone, cioè gli sguardi che si incontrano e il suono delle parole che girano intorno. In tutto questo – che visto da fuori pare fin troppo idilliaco e in effetti lo è – i primi a salire su quel palco alle 18.30 di venerdì sono i Tare, un quartetto di coraggiosi vicentini venuti (forse) a beneficiare di visibilità sapendo di suonare in una situazione non propriamente ideale, perché il loro urban jazz futuristico è intrinsecamente destinato ad “ambienti” più circoscritti o comunque contesti meno dispersivi di quello in cui, per forza di cose, si trovano a suonare. In ogni caso è grazie a loro (e agli emergenti del sabato, Le Nora e Prima Stanza a Destra) che si è potuta apprezzare una bella sventagliata di gioventù promettente e più o meno in controtendenza rispetto all’andazzo tutt’altro che esaltante. A proposito di controtendenza, anche il dinamismo degli Yard Act e in particolare del carismatico cantante James Smith lo è stato, sul palco di questi giorni iniziali de “La Prima Estate”, giacché di gioviale ed energica prestanza muscolare abbelliscono il loro “saperci stare dentro” scuotendo il pubblico all’ora dello spritz. Dopo la pubblicazione di “Where's My Utopia?” si confermano in crescita anche dal vivo dimostrando, vivaddio, che può ancora esistere un senso estetico apprezzabile anche a quel genere lì, quello “sfigato” che inizia con la parola “post” e si può coniugare con punk, funk e tanto divertimento.
Dopo di loro arrivano gli Spiritualized ed è una storia completamente diversa. Jason Pierce (“J. Spaceman” per i più attempati) appare in forma invidiabile alla soglia degli ormai sessant’anni ma lo sguardo, con tutte le inquietudini esistenziali di bordo, è nascosto dietro le lenti scure dei Ray-Ban. Dunque l’emozione di guardare negli occhi uno di quelli la cui musica è stata fondamentale compagna di vita rimane strozzata nel limbo, ma l’attesa di vedere gli Spiritualized dal vivo, o per molti dei presenti di rivedere, è stata ampiamente ripagata da un concerto massiccio e liftato allo stesso tempo, con poco spazio per la nostalgia dei primi due dischi (Shine a Light però è da brividi lungo la schiena), e tuttavia liquidare trent’anni e passa di musica quasi sempre di ottimo livello in un’ora di concerto (o poco più) non è cosa semplice per nessuno. Infatti i Mogwai, in chiusura del venerdì, hanno pensato bene di esaltarsi ed esaltare tutti riproducendo in larghissima parte il saliscendi umorale di “The Bad Fire”, che pure rasenta il capolavoro intervallando qua e là con schegge di passato anche remoto tipo la pachidermica (e a suo modo estenuante) Mogwai Fear Satan. Stuart Braithwaite e sodali sono ormai come una vecchia banda di amici che si ritrovano ciclicamente per fare il casino che sanno fare, e la cosa sorprendente è che rimangono sempre enormi, imponenti e godibilissimi.
Il sabato ad aprire il lotto degli headliner sono i Calibro 35 e con un pizzico di rammarico occorre dire che il mega palco e la loro eccessiva compostezza scenica non hanno stimolato un reale coinvolgimento del pubblico. Li si conosce e li si apprezza più spavaldi (e coinvolti pure loro) in altri contesti e, nonostante il flusso di suono sempre molto sincero ed evocativo, questo non era esattamente il loro habitat. Al contrario lo è stato invece ampiamente di St. Vincent, ovvero Annie Clark (e la sua band), che si è letteralmente impossessata del festival infiammandolo d’entusiasmo con uno show molto fisico ed energico, anche se poi la spettacolarizzazione visiva, con ampio assortimento di rituali talvolta anche abbastanza tamarri, ha finito per prevalere sull’interesse per la sua musica. Altra storia ancora sono stati gli Air, a loro volta garanzia di successo per chiudere la serata in grande stile. Senza eccepire sul fatto che con spavalderia e furbizia portano in giro lo stesso identico show da molti anni – che pure è intriso di romanticismo ed elucubrazioni vintage ormai assimilate in tutte le sue sfumature, dagli effetti scenici al fatto che la prima parte è tutta incentrata su “Moon Safari” mentre il resto lo fanno sui soliti altri pezzi selezionati e arrangiati accuratamente per non uscire dalle righe – conta che tutto funzioni ancora a meraviglia e il lasciarsi rapire e trasportare lontano dal magnetismo onirico della Kelly Watch The Stars di turno, per dirne una che le rappresenta tutte, rimane ancora una bella suggestione. Andrea Amadasi


Gruff Rhys
The Boileroom, Guildford, 11 giugno 2025
Vi ricordate dei gallesi Super Furry Animals? Inseriti erroneamente dalla pigra ed ottusa stampa dell’epoca nel calderone Britpop (termine che personalmente detesto ma che utilizzo in questa sede giusto per intenderci), erano lontani mille miglia dall’arroganza alcaloide e dai puerili battibecchi da cortile dei ben più celebrati coetanei, Il loro personalissimo miscuglio di psichedelia, folk, sunshine-pop (ed escursioni techno!) ha prodotto dei veri e propri intramontabili classici caleidoscopici. Ho sempre ammirato il loro leader, Gruff Rhys, formidabile paroliere e abile narratore, per l’eccentricità geneticamente gallese e la sorprendente eclettica creatività. Qualità tutte presenti in modo esponenziale nei lavori da solista che, affiancate alle straordinarie capacità compositive, di diritto lo innalzano a forza nell’olimpo dei grandissimi e inarrivabili songwriter di sempre, a un passo dai padri putativi Brian Wilson, Ray Davies and Lee Hazlewood. Esagero? Be’, ascoltatevi attentamente gli otto album finora pubblicati a suo nome e poi ne riparliamo. Uno di questi è “American Interior” uscito nel 2014, un concept album che narra l’odissea dell’esploratore e cartografo gallese John Evans, presunto antenato di Gruff, che nel 1792 partì per l’America in cerca di una fittizia tribù di lingua gallese discendente dal principe Madoc. Accompagnato dal pupazzo dell’avo, Gruff ripercorse i luoghi esplorati secoli addietro da John, avventurandosi in un “investigative concert tour” esibendosi dal vivo in luoghi a dir poco insoliti, riserve indiane e bordelli inclusi, narrando l'avventura americana del ricercatore John, aiutato da una presentazione in power point! Dell'ambizioso progetto venne fuori il concept album, un documentario, un libro e pure un’app! Per celebrare la recente ristampa del disco, Gruff ha pensato di narrare nuovamente le peripezie del mitologico John nell’inesplorato entroterra americano, per cui, dopo averlo lasciato al Barbican Hall nel 2018 ai tempi di “Babelsberg” accompagnato dalla London Contemporary Orchestra, lo ritrovo solo soletto nell’intimità del Boileroom con chitarra elettroacustica “a cheap Spanish guitar… made in Sweden”, 2 microfoni, un metronomo, un foot drum, il pupazzo di John, un laptop e soprattutto umorismo a iosa.
Le note di Powerpoint Presentation (uno degli inediti presenti nella ristampa uscita di recente per la Rough Trade) introducono l’arrivo sul palco di Gruff che, nonostante la temperatura elevata che giustifica in pieno il nome del locale, sfoggia pantaloni e giacca di velluto stile massarotto campagnolo con l’immancabile cappellino a visiera da cui fuoriescono le folte chiome brizzolate. Dopo aver introdotto il tema della serata ci abbandona per una decina di minuti in cui assistiamo alla proiezione del servizio televisivo “Prince Madoc and the Welsh Indian”, trasmesso da chissà quale emittente negli anni Settanta, per poi ritornare e intrattenerci per un’oretta e mezza durante la quale, da consumato affabulatore, ci racconta cronologicamente le storiella, alternando la narrazione verbale, corroborata dalla proiezione di diapositive, con canzoni a tema tratte del suo vasto repertorio. Tra l’iniziale American Interior, Iolo, Walk into the Darkness, Liberty, Last Conquistador, Lost Tribe e la conclusiva 100 Unread Messages, tutte tratte dal concept citato poc’anzi, trovano posto Bad Friend, Shark Ridden Waters, Frontier Man, Pang e If We Were Words (We Would Rhyme). La serata è piacevolissima grazie all’arguzia umoristica e grottesca di Gruff, che riesce a tenere ininterrottamente alta l’attenzione del pubblico, invitando pure uno spettatore sul palco a reinterpretare un momento tragicomico della vicenda e, a metà serata, tirando fuori il pupazzo di John Evans tra l’ovazione del pubblico. Dal punto di vista strettamente musicale, visto l’assetto, non c'è ovviamente spazio per il curatissimo e lussureggiante pop orchestrale che caratterizza la sua produzione solista, ma la tipica malinconica euforia, marchio di fabbrica di Gruff, ci sta tutta. Le traversie dell’ingenuo esploratore terminano tragicamente: dopo essersi reso conto che la fittizia diaspora non esiste, muore prematuramente all'età di 29 anni nelle paludi di New Orleans rendendosi conto che forse tutta la sua vita non è stata altro che un’illusione, e Gruff chiosa comunicandoci che “seguendo l’insolita storia di John Evans mi sono reso conto come le fake news possono avere conseguenze profonde ed imprevedibili nella vita reale”, una constatazione che nella sciagurata epoca in cui viviamo risuona come una pillola di saggezza oltre che un’inconfutabile verità. Ferruccio Guglia


Alan Sparhawk
Largo Venue, Roma, 03 giugno 2025
Elaborare il lutto, esorcizzare la perdita. Per chi ha vissuto un’intera esistenza al fianco della propria compagna e ‘partner in crime’ musicale un esercizio improbo. Gettare il cuore oltre l’ostacolo: dopo la scomparsa di Mimi Parker Alan Sparhawk esce addirittura fuori dal seminato, pubblicando un disco solista – “White Roses, My God”, esemplare già nel titolo – che ammicca ad un’indietronica sui generis con tanto di vocoder. Estratti di quel disco aprono proprio la performance, ma non è questo il ruolo che meglio si addice al nostro, intento a saltellare su basi triggherate. Ricompostosi e imbracciata l’elettrica con due nuovi accompagnatori a basso e batteria, mette mano a brani dal nuovo disco in collaborazione con gli alternative-folksters Trampled By Turtles, riabbracciando qui suoni con cui ha costruito un impero, almeno musicale. All’intersezione tra americana e slo-core (genere che i Low hanno contribuito a definire), riportando in auge anche un paio di brani del vecchio progetto collaterale Retribution Gospel Choir, Sparhawk ci introduce a un rituale pagano, in un afflato comune che rema anche contro le onde avverse del destino. La sua penna rimane finissima, ma le sue canzoni sono laceranti, impossibile non immaginare nell’ombra la sagoma della vocalist/percussionista che con lui ha scritto pagine indimenticabili della nuova America. Luca Collepiccolo


Split System
Maschinerie, Dortmund, 10 giugno 2025
Ha ancora senso vedere un concerto punk nel 2025? Sì, se si tratta di uno dei migliori gruppi australiani dell’ultimo lustro. O, per meglio dire, di un “supergruppo”: negli Split System troviamo, infatti, alcuni dei giovani musicisti che stanno mettendo sottosopra l’underground dei nostri antipodi come il cantante Jackson Reid Briggs (andate a recuperare i dischi firmati a suo nome con gli Heaters), l’iperattivo chitarrista Arron Mawson (coinvolto pure nei micidiali Stiff Richards e Doe St., nonché titolare dell’etichetta Legless), il bassista Deon Slaviero (già The Black Heart Death Cult), il barbuto chitarrista Ryan Webb (anche negli Speed Week) e il batterista Mitch McGregor (ex Low Fly Incline).
Spazio autogestito da un collettivo, il Maschinerie si trova in una zona industriale verso la fine del porto fluviale di Dortmund e si rivela il posto perfetto per ospitare una tappa del tour europeo del quintetto di Melbourne. L’aria è umida per la recente pioggia e la vicinanza al canale, ma gli Split System ci mettono un attimo a riscaldarla attaccando subito con “The Wheel”, uno dei brani migliori del loro eccellente “Vol. II”.
Da lì per i successivi tre quarti d’ora non daranno tregua al centinaio di presenti, entusiasti punk-rocker di tutte le età, passando in rassegna i pezzi sparsi tra i loro due album e gli innumerevoli singoli fin qui pubblicati. La sezione ritmica pompa a pieno regime, le chitarre ruggiscono e dialogano tra di loro svelando brillanti geometrie, mentre Briggs non sta fermo un attimo e colpisce con la sua voce al vetriolo. Presenza scenica e un cantante all’altezza: è quello che fa la differenza in un gruppo punk. In più gli Split System hanno le canzoni: l’aggressiva “Chemicals” (dall’ultimo singolo split condiviso con i francesi Les Lullies), le ipercinetiche “Run On” e “Hold It”, per non dire di quella “Alone Again” che con il suo perfetto equilibrio di melodia e abrasività è già diventata un piccolo classico dell’Aussie rock contemporaneo. Dopo tre quarti d’ora è tutto già finito: come ogni punk band che si rispetti gli Split System bruciano in fretta, vanno dritti al sodo e non si perdono in chiacchiere. Il loro concerto è un’esplosione di energia. Che i presenti non scorderanno facilmente. Roberto Calabrò


“Jazz Is Dead 2025”
Bunker, Torino, 30 maggio > 2 giugno 2025
Coerentemente a quell’idea meravigliosa di musica trasversale che sottintende esplorazione senza confini per chi la crea e scoperta continua di nuovi paesaggi per chi l’ascolta, si è chiuso in maniera speciale un ciclo per Jazz Is Dead “così come lo conosciamo”, parafrasando le parole pronunciate dal deus ex machina Alessandro Gambo dopo i rituali ringraziamenti e prima dell’ultimo concerto in programma, quello dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. Un ciclo in crescita esponenziale fino all’edizione numero “8”, che richiama e duetta col concetto di “infinito” facendo ben sperare per il tempo a venire, perché di situazioni così, forse è superfluo ripeterlo ma se serve come incitamento non ci si tira indietro, deve rifarsi il mondo. Col rammarico di non aver potuto assistere (su tutto) al minimalismo ieratico e concentrico dei Necks, il primo giorno, e il set di Bug tre giorni avanti, raccontato altrove come qualcosa di devastante, dalle due giornate centrali il verbo di Alabaster De Plume si erge su tutto e su tutti. Il suo modo di rappresentare l’anima del festival, come un’entità sciamanica calata sul far della sera (di domenica) nel cuore del JID, sventolando con orgoglio una bandiera palestinese e quasi implorando, sull’importanza del senso di comunità e del coinvolgimento corale, è stato totale e quindi molto emozionante. Per un’oretta quasi è sembrato di stare altrove, in un tempo aperto punteggiato dai poeti della beat generation e colorato di musiche ed anime sensibili per tanta spiritualità espressa non solo a parole ma anche in musica, con quel sax scorbutico che ti mette con le spalle al muro a contemplarne le bizze vigorose e pur tuttavia vellutate. La Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp invece è un caso a sé non solo e non tanto per il JID quanto per tutto il panorama musicale contemporaneo: l’idea di andare per concerti in quattordici elementi è diabolica già alla fonte – l’allestimento del palco è durato probabilmente più del concerto stesso – pertanto dal combo di Ginevra non ci si poteva attendere altro che schizofrenia pura e irrefrenabile. Dentro il loro patchwork sonoro si trova veramente di tutto ma suona sempre giocoso anche se ad altissima tensione, poi la profusione di luci colorate che li ha accompagnati per tutto il tempo ha reso la festa ancora più esplosiva. Coinvolgente è stato anche il set di Andi Toma dei Mouse on Mars con la cantante nonché attivista iraniana/kurda Hani Mojtahedi, per una collaborazione a nome Hjirok e un disco all’attivo pubblicato nel 2024. IDM e melodie orientaleggianti che si fondono e confondono i confini mentali pregressi allo stesso modo di un altro duo, quello composto da Matthew Herbert insieme alla batterista e cantante Momoko Gill, che nel preserale del sabato avevano catturato la giusta attenzione scongiurando l’acquazzone che il cielo stava meditando da qualche momento (che poi ha scaricato puntuale il giorno seguente alla stessa ora). E poi ancora il soul e r'n'b suonato con maestria dai torinesi Funk Shui Project con alla voce il siciliano-capoverdiano Johnny Marsiglia e la comparsata casalinga di Willie Peyote in un paio di canzoni, i loop minimalisti, atavici e ipnotici di Oren Ambarchi con il progetto Ghosted insieme a Johan Berthling e Andreas Werliin (ovvero basso e batteria dei Fire!) e il tanto che ancora rimaneva ma era impossibile da seguire tutto. Perché sì, con tantissima (e qualitativamente esuberante) carne al fuoco era doveroso e fisiologico mollare la presa di tanto in tanto, come un rito personale e purificatorio dentro al rito collettivo pulsante di vita che è stato e confidiamo continuerà ad essere il Jazz Is Dead. Andrea Amadasi


Angelica Festival 35
Bologna,Teatro San Leonardo, Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Momento maggio 2025
Tra poco questo giornale compirà trent’anni e Angelica ha appena festeggiato il suo 35esimo compleanno! Credo di essermi perso soltanto la prima edizione, anche se la mia memoria comincia a vacillare. E dunque credo sia davvero tempo di ringraziare chi questo festival internazionale di musica, meglio momento maggio, (anche se ormai con le sue appendici autunnali, il quartier generale del Teatro San Leonardo pulsa di suoni, visioni e vita per gran parte dell’anno) l’ha fortemente ideato, voluto, con ostinazione pur tra mille difficoltà. A partire dal suo compianto fondatore Mario Zanzani, passando per lo storico direttore artistico Massimo Simonini e tutti i suoi appassionati non meno storici collaboratori, che per una volta vorrei provare a citare almeno in parte: da Walter Rovere per le scelte sempre attente e coraggiose, al tecnico del suono Gianluca Turrini, dal fotografo ufficiale Massimo Golfieri, all’ufficio stampa curato quest’anno da Leonardo Cianfanelli e Andrea Sbaragli e poi Elisabetta Beddini, Silvia Tarozzi con il piccolo coro Angelico, Fabrizio Gilardino e Luca Vitali e quanti altri dimentico. Ogni sera qui ad Angelica c’è un mondo diverso chiosa ad un certo punto un sempre “angelico” Massimo Simonini, e come dargli torto? Basti dare un occhio al cartellone, aperto con gran fervore da due vecchie conoscenze come Charlemagne Palestine e Rhys Chatham. Inutile dire che i due si conoscono fin dalla fine dei ’60, ma pur abitando entrambi a New York all’epoca, hanno iniziato a suonare insieme soltanto in anni più recenti, nello studio di Charlemagne a Bruxelles. La prima assoluta che han portato ad Angelica con il solito estroso titolo TWO forrrr AngelicA , muove col passo lento e fluente di un minimalismo più estatico del solito (a tratti un po’ sonnambulo). Sul palco pianoforte, organo elettrico e i pupazzi di pelouche (va da sé) per Charlemagne, flauti e chitarra elettrica e qualche lieve squarcio di elettronica per Chatham. Qualche sera dopo al Teatro Comunale Pavarotti- Freni di Modena, Rhys Chatham darà invece sfogo al suo proverbiale massimalismo minimalista (l’ossimoro non è propriamente mio) con A Secret Rose composizione per 33 chitarre elettriche, basso elettrico e un Jonathan Kane che abbiamo già conosciuto con la fragorosa Forever Blues Band di La Monte Young, alla batteria. Quattro file di chitarristi e Chatham di spalle a dirigerne l’orchestrazione, per quattro movimenti: Prelude, Intro, Adagio, G33. Trattandosi di una prima in questo caso, pur essendo una composizione scritta nel lontano 1989, non mancano momenti di calo di tensione, ma l’emotività si accende nella seconda parte, con l’assalto avant rock del Guitar For Trio, un drone sonoro che satura lo spazio, dove è possibile leggere nello sguardo estasiato di tanti giovani chitarristi, il trasporto verso un maestro di quel genere, che ha fatto scuola fin dai giorni del Kitchen e di una “No New York” infuocata.
Attesissima anche la prima assoluta del rumeno Iancu Dumitrescu e del suo Hyperion International Ensemble, l’oggi ottantenne artefice dell’”iperspettralismo” ancora una volta non concede sconti, tra vuoti e pieni, di una musica radicale che rompe ogni convenzione, avanguardia compresa. La sua è una furia che irrompe, attanaglia e disturba per oltre due ore, ed è potente e radiante per quanto complessa, come la filosofia Husserliana a cui si ispira. Ai lati gli assi portanti della batteria e percussioni di Chris Cutler e Simone Beneventi, nel mezzo una pletora di strumentisti (tra gli altri Tim Hodgkinson al clarinetto basso) che paiono diretti da un’instancabile ed ineffabile Dumitrescu, girato di spalle e autentico maestro dell’apocalisse. Il tredici maggio è di nuovo Charlemagne Palestine a effondere i suoi armonici dentro la Basilica di Santa Maria dei Servi, per una apposita interpretazione su quell’organo a canne ormai mitologico, di “Schlingen Blängen” una delle sue storiche composizioni per organo, non prima però di averci illuminato per qualche minuto, con il canto del suo tipico falsetto, memore dei trascorsi giovanili in sinagoga, a metà via tra salmodie ebraiche e mantra indiani. Uno degli highlight di Angelica 35, pur nella sua brevità. Momenti felici anche con il trio free di William Parker, Ava Mendoza e Hamid Drake. Circular Pyramid è l’intersezione tra le corde elettriche sporcate di blues e noise di Ava Mendoza, quelle più acustiche di Parker al contrabbasso e ad un meraviglioso strumento etnico che ricorda una kora, oltre a suonare il shakuhachi, mentre alle percussioni un sempre formidabile Hamid Drake, set che cresce sempre più in intensità, verso un finale spiritual jazz con Drake che intona il mantra di Padmasambhava, che pare un omaggio all’amico di una vita, Don Cherry, quello di “Brown Rice” soprattutto. Fulminei e furenti anche i brevi set di Pat Thomas, figura sempre più di culto ormai, che affianca al piano l’ipercinetico turntablism di Mariam Rezaei, dove si bruciano generi e confini, oltre l’elettroacustica, l’hip hop e il free jazz, puro eccitamento sensoriale piuttosto. Come un perturbante Peter Ablinger tra flauti glissati e ultrasonici, sparati a frequenze altissime e al limite dell’assordante, con la sua voce cantata o soffiata dentro le bottiglie, mentre poco dopo un rinnovato e splendente Rafael Toral distende i toni con la sua elettrica e un theremin, a volare alto tra corde e pedali nel suo “Spectral Evolution”, tra i live dell’anno senza dubbio. Qualche riserva invece per il polacco Waclaw Zimpel, al clarinetto ed elettronica, con il suo peraltro simpatico gruppo in odor di raga, con un efflorescente Giridhar Udupa al ghatam, ma il gruppo appare un po’ sconnesso e il canto raga di Zimpel non è propriamente efficace. Tante cose insomma ad Angelica e ciò di cui non racconto è perché semplicemente me lo sono perso, come ogni anno accade del resto, con grande rammarico per il “Nine Bells” di Tom Johnson, opera ardita e complessa per nove campane e un percussionista, portata sul palco da Simone Beneventi. Gino Dal Soler


Blowers + S.U.G.A.R.
Bumann & Sohn, Colonia, 29 maggio 2025
Uno split 10 pollici condiviso con i berlinesi S.U.G.A.R. su etichetta Alien Snatch! spinge gli australiani Blowers ad affrontare un tour europeo in compagnia del gruppo tedesco. Apre la formazione di Melbourne e ci mette un po’ a carburare, solo dalla terza canzone in scaletta sembra che il quartetto abbia finalmente oliato gli ingranaggi. Rispetto ai dischi, in cui il garage estremo dei Blowers viene passato attraverso il filtro distorto di band come Retards o Spits, appare evidente una caratteristica che le prove su vinile hanno fin qui camuffato e che solo l’ultimo lavoro, “Blowmania”, ha iniziato a mettere in luce, ovvero una vena melodica pop punk. Un pezzo come “Wasted On My Own”, sparato a metà set, è lì a dimostrarlo. Il gruppo pesca a piene mani dai tre album e, in assenza di una tastiera che ne sottolinei la matrice synth-punk, è appunto quella più bubblegum a emergere. Tra una corda di chitarra saltata all’improvviso, qualche battuta scambiata con il pubblico in prima fila, il concerto scorre via veloce senza però dare mai l’impressione di decollare.
Poi è la volta degli S.U.G.A.R. che per me sono una totale novità, non avendo mai avuto modo di ascoltarli né di vederli dal vivo prima d’ora. Il terzetto di Berlino attacca con veemenza e nei primi pezzi dà l’impressione di surclassare i compagni di etichetta. Il loro punk rock è duro ed efficace, a tratti con influenze alla Mötorhead, e gli astanti, ora più numerosi, sembrano apprezzare. Alla lunga, però, la formula risulta piuttosto monotona, anche se in certi frangenti il guitar-sound mostra addirittura venature metal. Last but not least, un’osservazione sul pubblico composto, per una volta, prevalentemente da trentenni. Come già sperimentato con i Chats, è la conferma che queste nuove band hanno un seguito proprio che finalmente prescinde dalla vecchia guardia. E questa, a conti fatti, è la nota più positiva dell’intera serata. Roberto Calabrò


Vibravoid
Blue Shell, Colonia, 24 maggio 2025
Poche band possono definirsi realmente psichedeliche. I tedeschi Vibravoid fanno parte di questa ristretta cerchia. Dal vivo al Blue Shell di Colonia per una serata-happening intitolata “Creamcheese”, come il club underground di Düsselforf in attività tra il 1967 e il 1978, la formazione guidata da Chris Koch ci ricorda cosa voglia dire esattamente psichedelia ovvero “allargare lo spazio della coscienza”. Droghe lisergiche a parte, quando il terzetto attacca con “Tomorrow Never Knows” dei Beatles inizia un viaggio che durerà quasi due ore con il light show parte integrante dell’evento. Suoni e luci che si fondono per creare un’atmosfera che cambia in continuazione: dalla forma canzone a sonorità più sostenute e ballabili, che non a caso infiammano il pubblico, passando per ripetizioni kraut fino a episodi totalmente sperimentali dove appare in scena anche un piccolo theremin.
A più riprese si materializza il fantasma dei Pink Floyd barrettiani, ma non sarà l’unica influenza marcatamente Sixties a emergere dal set. Verso metà ecco arrivare la cover di “In A Gadda Da Vida” degli Iron Butterfly, con tanto di assolo di batteria, e anche l’acidissima “No Silver Bird” dei Creation. Alcuni brani sono nuovi di zecca, una sorta di test dal vivo per “The Power Of Dreams”, il nuovo album in uscita tra qualche mese, altri fanno parte da tempo del repertorio Vibravoid come l’ipercinetica “World Of Pain”, l’avvolgente “Get To You” (che apre l’ultimo LP “We Cannot Awake”) e lo space rock della classica "Ballspeaker”. Tra il pubblico si notano reduci della stagione psichedelica di fine anni Sessanta, probabilmente frequentatori abituali del Creamcheese all’epoca: acconciature, abbigliamento ed entusiasmo sono immutati. Quando sembra che il concerto stia per terminare, si alza forte la richiesta di bis, così i Vibravoid omaggiano l’idolo Barrett con una bella versione di “Astronomy Domine” per chiudere poi con il trip stellare di un altro classico del gruppo, quella “Your Mind Is At Ease” che da sola vale il prezzo del biglietto. Roberto Calabrò


Salone Internazionale del Libro di Torino
Lingotto, Torino, 15-19 maggio 2024
Dato che il Salone del Libro sta diventando ogni anno che passa un evento sempre più mainstream, a cui si va perché si deve andare e perché a Torino il Salone del Mobile e la Settimana della Moda non li abbiamo, sembra essere diventato quasi un obbligo morale passare almeno uno dei due giorni del weekend pigiati nella folla per sentirsi così parte del Grande Evento. Che poi al Salone del Libro ci siano anche i libri – e un sacco di persone che scrivono libri o parlano di libri – per molti dei visitatori sembra essere un fatto secondario.
La sensazione è che forma e contenuto del Salone stiano divergendo, e laddove l’aspetto organizzativo è in netto miglioramento rispetto alla scorsa edizione e il numero dei visitatori è sempre in crescita, tutto ciò che riguarda gli ospiti e gli eventi sembra essere un po’ sottotono, o quantomeno non all’altezza. Ma procediamo con ordine.
Mai come quest’anno gli ingressi sono stati scorrevoli: le code chilometriche a cui si era abituati sembrano un lontano ricordo, anche perché il 94% dei biglietti sono stati venduti online, rendendo la procedura di accesso più rapida. Che nel capoluogo piemontese siano tutti diventati più smart è però soltanto un’illusione, perché la differenza sostanziale tra l’acquisto di un biglietto online (15 euro) o nella biglietteria fisica del Salone (22 euro), ha incentivato anche i più reticenti a capire come fare il biglietto tramite smartphone (viene da pensare che la sola strada per la Digitalizzazione Totale sia la coercizione).
Rispetto a dieci anni fa i prezzi sono raddoppiati, anche se, come riporta «La Stampa», secondo alcuni visitatori si tratterebbe di un prezzo equo per “una giornata di cultura”. Tralasciando il fatto che, se per fare cultura bastasse allestire banchetti con sopra dei libri per 137mila metri quadri allora la crisi dell’editoria sarebbe ormai risolta da un pezzo, pare ci si dimentichi che al Salone del Libro si vada anche per acquistare dei libri, cosa non facile per una famiglia, magari con due figli, magari venuta da fuori Torino, magari senza i biglietti acquistati online e senza pranzo al sacco (i prezzi delle aree ristoro interne sono anch’essi salatissimi), che si ritroverebbe a spendere 150 euro senza aver comprato nulla.
Il Salone è diventato sempre di più l’evento per l’evento: una grande festa per cui tutti sembrano tremendamente eccitati, ma per chi si aspetta di partecipare a una manifestazione culturale è come ricevere un pacco regalo grande e colorato, che una volta scartato si rivela una delusione. Chessò, un portachiavi. Un portachiavi molto piccolo e pure un po’ bruttarello.
Gli scrittori italiani invitati sono sempre gli stessi: Bignardi, Carrisi, Di Pietrantonio, Scurati, Veronesi. A stupire non è tanto il fatto che più passano gli anni e tra Soliti Stronzi e Venerabili Maestri di Brillanti Promesse ce ne siano (se ce ne sono) sempre di meno, ma che, al Salone del Libro, gli ospiti che chiamano maggior pubblico con i libri non abbiano niente a che fare.
Perciò, ancora una volta, mentre i romanzi restano ignorati sui banchetti degli espositori, i fan aspettano pazientemente in coda (anche tutto il giorno) per un disegnetto di Zerocalcare, una foto con Salmo, Ligabue, Ornella Vanoni o Antonello Venditti, oppure pascolano annoiati – sperando, con un po’ di fortuna, di incrociare Toni Servillo – finché non è arrivata l’ora di trasferirsi nell’Auditorium per una puntata live dei podcast (o delle conferenze-podcast) di Alessandro Barbero, Stefano Nazzi, Cecilia Sala o Francesco Costa. E i libri?
Certo, i giornali titolano: “La Gen Z è la più appassionata: i ragazzi trainano le vendite”, dimenticandosi di aver scritto tre mesi fa “Allarme editoria, crollo delle vendite: un milione di copie vendute in meno”, senza considerare poi che a trainare le vendite sono quasi soltanto le ragazze fan del romance (di fatto libri Harmony dalle tinte hard per adolescenti in piena tempesta ormonale), gli unici libri che in Italia davvero vendono ma che non ci sentiamo di definire oggetti culturali: acquistare I detective selvaggi di Roberto Bolano o Il fabbricante di lacrime di Erin Doom non è proprio la stessa cosa, ma non è questa la sede per discuterne.
Purtroppo, anche l’offerta internazionale è un po’ insipida: Joel Dicker è ormai un habitué, e si gode il bagno di folla nonostante le molte critiche ricevute dal suo ultimo romanzo (La catastrofica visita allo zoo), Emmanuel Carrère ritorna per presentare Portnoy di Philip Roth i cui diritti sono stati acquistati da Adelphi, e con lui tornano anche Mircea Cartarescu e Michael Bible.
Gli ospiti più interessanti che abbiamo ascoltato sono stati Kohei Saito, filosofo giapponese che nel Capitale nell’Antropocene propone una lettura marxista della crisi ecologica, Colwill Brown, scrittrice inglese al folgorante esordio con Noi bei pezzi di carne per i tipi di Sellerio (un Trainspotting al femminile ambientato a Doncaster) e Paul Murray, autore irlandese fresco vincitore del Premio Strega Europeo per il romanzo Il giorno dell’ape.
Proprio quest’ultimo – forse inferiore soltanto al duo Carrère-Roth – era l’incontro letterario più atteso del Salone, ma come purtroppo accade spesso in tali occasioni (autore internazionale presentato da scrittore/intellettuale italiano), Sandro Veronesi, nel ruolo di moderatore (che evidentemente gli stava stretto), si è reso protagonista dell’evento, citando Larkin, Madame Bovary, il complesso rapporto che Noi Moderni abbiamo con il reale, il bovarismo digitale (eh?), parlando il doppio del povero Murray, il quale, molto educatamente, ha partecipato come poteva ai ragionamenti di Veronesi, che non sembrava rendersi conto del rumoreggiare della platea.
Del romanzo dell’ospite quasi non si è parlato. Finito l’incontro, piuttosto delusi, ci ributtiamo tra la folla, e chissà che magari non incrociamo Toni Servillo.
Insomma, con il passare degli anni non si capisce più se quello di Torino sia il Salone Internazionale del Libro, oppure un Salone Internazionale Con Dei Libri. Ian Poggio


Monde UFO
Borgo Santa Brigida, Parma, 14 maggio 2025
Più che di un concerto con tutti i crismi si è trattato di una serata tra amici in compagnia del tutto eccezionale di Brian Bartus (o Ray Monde) e Kris Chau da Los Angeles, che sono un e una individualità dalla stravaganza quasi insensata – e infatti si fanno chiamare Monde UFO, che rende bene l’idea di come te li ritrovi davanti. Tra le diciotto date in venti giorni – che li hanno portati in Inghilterra, poi in Italia e successivamente in Croazia, Austria, Svizzera e Germania – questa si risolve velocemente con una scaletta “quasi” del tutto improvvisata dal momento, con l’aggiunta assolutamente occasionale di un batterista (Simone Donadini dei Rainbow Island e Trans Upper Egypt) e quel fugace problemino tecnico che non manca mai: quindi tutto più o meno come un ultimo passaggio in sala prove prima di iniziare a fare sul serio, o almeno provarci… Nonostante queste variabili non è dispiaciuta la versione più strampalata dei Monde UFO, andata in scena mentre altrove il Milan perdeva la coppa Italia col Bologna (Brian Bartus è tifosissimo dei rossoneri, ma questa è un’altra storia). Kris Chau, artista visuale prima di incontrare la musica, è avvolta nel suo kimono da geisha e fraseggia di canto e spifferi affusolati prodotti con la sua “insalatiera” effettata elettricamente, mentre Bartus giochicchia coi preset (andando a pescare a caso dai tre dischi fin qui pubblicati) alternando singulti di impro-jazz schizofrenici con sax, canto e armonie saturatissime del suo basico tastierino. Il pur bravo Donadini è invece nascosto nell’oscurità ma lo si sente, e talvolta risulta superfluo o addirittura eccessivo al contesto per la sovrapposizione con le ritmiche pre impostate, che evidentemente andavano tolte prima ma, come si diceva, è tutto un po’ così… alieno all’idea classica di concerto, e difatti dopo tre quarti d’ora si chiude baracca e si torna a far di chiacchiera in una serata infrasettimanale tra amici vicini e lontani. Andrea Amadasi


Snapped Ankles
The Boileroom, Guildford, 10 maggio 2025
A guardarsi intorno sembrerebbe che il processo di “de-evoluzione” teorizzato mezzo secolo fa ad Akron in Ohio dalla geniale doppia coppia Mothersbaugh-Casale, sembrerebbe esser arrivato a pieno compimento. Sebbene frutto di uno scherzo giovanile durante gli anni universitari, la teoria della regressione dell’umanità causata dalla disfunzione e dalla mentalità da gregge della società è un’oggettiva constatazione dei tempi in cui viviamo. Ma non avviliamoci, come sempre la musica ci viene in aiuto. Dal punto di vista strettamente musicale la de-evoluzione ha partorito una delle mutazioni più interessanti sulle rive del Tamigi tra i capannoni industriali abbandonati dell’East End londinese post-Brexit che prendono vita grazie all’agguerrita flotta di ravers finesettimanali e le foreste che resistono all’urbanizzazione più selvaggia da dove, narra la mitologia, provengono i nostri, ragion per cui eccoli presentarsi addobbati nella loro tipica tuta mimetica ghillie ricoperta da fogliame pesante con tanto di maschera e lucette sulla fronte in stile Orbital. La serata fa parte del tour promozionale dell’ultimo lavoro recentemente pubblicato “Hard Time Furious Dancing” (gran bel titolo, ispirato dalla raccolta di poemi della poetessa, scrittrice ed attivista Alice Walker, l’autrice del romanzo “Il colore viola” che Spielberg portò sugli schermi negli anni ottanta). Partenza con intro mini sinfonico kraftwerkiano ad alto minutaggio che si tramuta nella classica Jonny Guitar Calling Costa Berlin dal loro primo lavoro “Come Play the Trees” del 2017. Ogni pezzo proposto è un esercizio architettonico: l’iniziale riff di sequencer/sintetizzatore costituisce la base su cui i quattro erigono le loro composizioni semplicemente aggiungendo multipli strati ritmici fino ad edificare la loro poliritmica cattedrale sonora ed invitarci, come da titolo programmatico ad un rituale liberatorio e catartico per affrontare questi tempi ardui: danzare furiosamente. Sette delle dieci tracce in scaletta sono tratte dall’ultimo lavoro e l’impressione avuta ascoltando il disco è confermata dal vivo: il suono geneticamente MARKettaro, nel senso della triade Mark Mothersbaugh (Devo) Mark E Smith (The Fall, nelle inflessioni vocali) e Mark Stewart (Pop Group, per la critica/polemica sociale) si è (de)evoluto e suona come una versione post-punk dei Chemical Brothers. E ben venga, dato che suona molto meglio di tanto attuale ma già datato post punk musone pseudo esistenzialista per ragazzini che hanno appena scoperto “La nausea” di Sartre. L'innodica Pay The Rent, le spietate e incessanti percussioni metalliche di Bail Lan, l’inarrestabile groove di Raoul con tanto di ululato da lupo notturno e la travolgente Dancing in Transit suonano alla grande, ma Personal Responsibilities e Where’s the Caganer in effetti un po' meno e fanno rimpiangere le non eseguite Delivery Man (con l’inizio wave alla Gaznevada di “Sick Soundtrack”) o l’electro inno alla gioia Drink and Glide giusto per citarne un paio. Ma per fortuna c’è la danza robotica da automa mentecatto di Rhythm is our Business (mai titolo fu più azzeccato), con Austin che da buon sciamano scende tra il pubblico armato di sintetizzatore legato a un tronco (!) e inizia a percuoterlo come un indemoniato aggiungendo un ulteriore tocco di surreale teatralità al tutto. Gran finale con I Want My Minutes Back che suonerà pure come un vecchio brano dei Palais Schaumburg (vi ricordate la Neue Deutsche Welle primi anni Ottanta?) ma è un gran bel sentire, e poi le arpeggiate linee di synth che si riciclano nell’irresistibile ed esilarante assalto adrenalinico di Smart World che conclude la serata rassicurandoci che la de-evoluzione è ancora ben viva e vegeta(le). Ferruccio Guglia


Mai Mai Mai
Antica Falegnameria Martino, Oppido Lucano PZ, 26 aprile 2025
A Bad Day
Officine Macondo, Potenza, 30 aprile 2025
Succedono a volte cose inaspettate e molto piacevoli, come scoprire che due concerti che avevo puntato da tempo si svolgono non solo a pochi giorni di distanza ma anche a due passi da casa in un territorio dove fra l'altro il cartellone musicale non è poi così ricco come altrove.
Quando uscì Rimorso di Mai Mai Mai rimasi molto colpito. L'album entrò subito nell'elenco delle mie uscite favorite dell'anno. Riusciva a trasformare sonorità tipiche della mia infanzia, di quelle ascoltate nelle sagre con i nonni in atmosfere dark electro a tratti industrial senza perdere quella sorta di misticismo tipico di certi canti. Un po’ come dei Coil in residenza al Sud. È stata una vera sorpresa trovarlo in programmazione ad Oppido Lucano un piccolo paese dell'entroterra Lucano a pochi (difficili) chilometri dal capoluogo. E ancora più sorprendente quello che l'organizzazione è riuscita a creare: inserito nella programmazione culturale del progetto Disfusioni, il concerto si tiene in una vecchia falegnameria stile anni 60, ancora attrezzata, con legnami, cornici e macchinari intorno. La location è fenomenale ed è affascinante che tutto sia reale e così fuori dal tempo. Prima del concerto c'è la presentazione di Plume, una rivista quadrimestrale che esce su carta, autoprodotta e ben elaborata dalla grafica agli interventi. Il numero che presentano ha come tema i linguaggi di Comunità. È entusiasmante vedere che dei ragazzi decidano di fondare una rivista di spessore e pubblicarla su carta con estrema cura, autoproducendola. Un attivismo d'altri tempi che fa ben sperare.
Mai Mai Mai inizia a suonare intorno alle 23 in un silenzio devozionale. Perché quello che si sta profilando sembra quasi un rito pagano. Toni Cutrone sale in postazione con la sua classica tunica che lo copre e lo nasconde. Intorno a lui legni, segatura e manufatti di falegname. Dietro, video elaborati di maschere e paesaggi...siamo in una dimensione atemporale. Il set è ben dosato. Parte con un intro di suoni leggeri, lenti ma caratterizzati da una periodicità flemmatica e costante, come un respiro. Si sta preparando il campo. È come inoltrarsi in un bosco per invocare un’entità. Infatti quando tra i vari suoni inizia a percepirsi da lontano il fischiare alterato del Secondo Coro delle Lavandaie e partono le percussioni non siamo più ad Oppido (uh marò che bellu suonno). Mai Mai Mai ci porta in giro tra ricordi del passato che affiorano all'improvviso, sonorità contemporanee, luoghi e sensazioni non facendo abbassare mai l'attenzione e la tensione. Tra synth che si rincorrono con percussioni metalliche è introdotta la voce (campionata) di Vera di Lecce che ci porta in altro ambiente (Fimmene Fimmene). Ed è così con tutto il concerto giocato su suggestioni che in questo territorio sono ancestrali per tutti trasportate in dimensioni altre. Complimenti davvero, dai presenti, che a fine concerto intrecciando gli sguardi comunicano un senso di meraviglia.
Passano pochi giori e questa volta a Potenza siamo di nuovo sotto un palco per qualcosa di fantastico. Egle Sommacal e Sara Ardizzoni con il loro progetto A Bad Day. Li avevo già intercettati ed ammirati nei loro rispettivi progetti solisti e incontrati con i Massimo Volume ma mi incuriosiva capire come avrebbero reso dal vivo “Flawed”, un album in cui le due chitarre si fanno altro (la prima impressione ascoltando l'album è stata di ambient fatta con chitarre). Sara ed Egle sono due persone delicate e gentili, profonde e sorridenti. E la loro musica rispecchia alla perfezione la loro personalità, sentirli suonare è un intimo dialogo con loro attraverso altri mezzi espressivi. Alle Officine Macondo si presentano circondati da pedalini e chitarre con cui ci parlano, raccontano ed emozionano. Fantastici gli intrecci di arpeggi come in Non in the light, not in the darkness, o le parti in cui Sara trasforma la sua chitarra in un synth come nel finale di in Death of a drum (che dal vivo mi ha trasportato in ambienti Caterina Barbieri). Timanafaya, se su disco incuriosisce, dal vivo sorprende: una chitarra che si fa clarinetto synth. “Flawed” nelle intenzioni degli autori sta per "imperfezione", con l'idea di fare un album che integri tutto anche le imperfezioni che in musica possono essere vita. Ma nella serata alle Officine Macondo abbiamo assistito invece ad una perfezione rara, come detto da molti a fine serata, il miglior concerto che si sia visto da tempo da queste parti. Massimo Lovisco


Kamasi Washington
Estragon, Bologna, 24 aprile 2025
Il recupero della data inizialmente prevista dal “Fearless Movement Tour” per lo scorso autunno è avvenuto, sempre nell’ambito del Bologna Jazz Festival, all’interno di un Estragon particolarmente eterogeneo. Il pubblico dello storico club bolognese era infatti composto da una tale varietà di generazioni differenti, ognuna con gusti e aspettative altrettanto diverse, che forse sarebbe stato impossibile accontentare davvero tutti. Kamasi, a dispetto dell’infortunio alla schiena che lo ha costretto a posticipare la tranche europea, ci ha provato. Eppure, lo anticipiamo subito, l’impressione è che non avesse alcuna pretesa di riuscirci davvero. Questo per dire che forse non bisognerebbe approcciare un live di Kamasi Washington con l’intenzione di chi sta andando a un concerto jazz, nel bene o nel male. La proposta del sassofonista californiano, infatti, mira dichiaratamente a mescolare le carte sul tavolo di una black music totale, in cui Funkadelic, Marvin Gaye e John Coltrane si muovono insieme agli scratch sui giradischi di DJ Battlecat, strizzando l’occhio a una fascinosa amalgama di spiritual r&b guidato dalla voce di Patrice Quinn. Il rischio di rendere tutto piacevolmente innocuo è sempre dietro l’angolo, se non fosse che il leader ci crede così tanto da accendere il palco per più di due ore senza fare sconti a nessuno. Qualche momento poco ispirato c’è, soprattutto nei tentativi di mettere in risalto la bravura della band su riff e melodie un po’ banali, in cui si passa dal tributo all’improvvisazione senza riuscire a risultare granché incisivi. Ma sono parentesi tutto sommato brevi, anche perché la presenza del padre (impegnato al sax soprano e al flauto) – nonché di un intero collettivo che spalleggia il leader meticolosamente – e, non ultimo, dei racconti di amore e amicizia che il nostro eroe condivide con il pubblico, rende l’esperienza quasi un affare di famiglia. E cosa c’è di più bello che essere invitato nel salotto di casa Washington? Carlo Babando


Jim Jones All Stars
Oslo, London, 19 aprile 2025
Per gli amanti di certe sonorità, da queste parti la festività pasquale è sinomimo di Le Beat Bespoke, annuale kermesse di tre giorni dedicata a garage, soul, psych, freakbeat, ecc. che in passato ha regalato momenti davvero memorabili (per il sottoscritto su tutti King Khan & The Shrines e The Mummies).
La seconda serata inizia con il piacevole garage beat dei Baron Four capitanati dal veterano Matthew Lambert (già con i Mystreated e gli Embrooks) e Mike Whittaker (The Jack Cades e The Capellas con la compagna Elsa), che ci trasportano indietro nel tempo col loro accattivante R&B annata doc 1965 che invita a muovere i fianchi. D’accordo, revival puro, ma suona alla grande e per gli appassionati del genere “Outlying”, uscito per l’anno scorso per la danese Beluga Records, è imperdibile. E poi tocca a lui, Jim Jones ovvero l’impersonificazione in carne ed ossa del neilyoungiano “rock’n roll can never die”. In giro da ben 4 decenni, tra gli incendiari trascorsi giovanili, inevitabilmente terminati in autocombustione, con Thee Hypnotics ovvero la massima espressione del Detroit sound in terra britannica di sempre (inarrivabile e irraggiungibile), le frenetiche rivisitazioni rock ‘n’ roll anni cinquanta amfetaminizzate del Jim Jones Revue, l’omaggio al triumvirato putativo Iggy/Cave/Waits con i Righteous Mind e adesso in pista con la Jim Jones All Stars, supergruppo nato durante la pandemia con i sodali Gavin Jay al basso, Elliot Mortimer al piano (entrambi ex Revue), Carlton Mounsher (The Swamp) alla chitarra, Chris Ellul (The Heavy) alla batteria e i due sax di Stuart Dace e Tom Hodges (rispettivamente tenore e baritono). Jim, autentico purosangue, da grande showman qual è conquista il pubblico immediatamente anche perché la serata inizia con Cement Mixer, cavallo di battaglia del JJ Revue col suo incedere stomp, chitarra sporca, voce rauca e intermezzo corale sing-along squarciagola “here we go, nice and slow”. Segue l’interpretazione di When You See Me Hurt, classico numero soul di Carl Lester che suona come un selvaggio James Brown con i fiati che all’unisono spadroneggiano sul ritmo incalzante. In una parola, irresistibile. Sulla stessa scia l'inarrestabile originale Gimme the Grease, che con ritmica da paura mantiene i sassofoni in ben spolvero. La serata si alterna tra rivisitazioni/omaggi e classici originali composti da Jim nelle sue diverse incarnazioni. Tra le prime figurano Parchman Farm di Mose Allison con gran lavorio di piano, incandescente riff di sax e finale quasi jam, il northern soul addolorato di Lover’s Prayer dei Wallace Brothers, il funk grezzo e primitivo di Troglodyte di Jimmy Castor Bunch e lo swamp blues It’s Your Voodoo Working di Charles Sheffield. Tra le seconde, le pietre miliari del suono rock psichedelico fine ottanta targate Thee Hypnotics Soul Trader e Shakedown (che è ancora minacciosamente seducente dopo quasi quattro decenni), il super classico gospel blues Satan’s Got His Heart Set On You dei Righteous Minds, la frenetica Rock’n’Roll Psychosis dei JJ Revue, la recente I Want You (Anyway I Can) e alcuni nuovi pezzi dell’album in uscita fra qualche mese con la produzione di Chris Robinson dei Black Crowes, tra i quali il grintoso singolo appena pubblicato Goin’ Higher, spavalda miscela di soul, garage e rock’n’roll. Tre bis per il finale: la rampante cover di Big Bird di Eddie Floyd, l’energetica e raggiante Everybody’s Got Something to Hide Except Me and My Monkey dei Beatles e lo scatenato e viscerale rock’n’roll del classico 512 targato JJ Revue, dove le poche energie rimaste sia sul palco che in sala vengono consumate in un collettivo tripudio di festoso sudore. Neil ci aveva azzeccato: Rock’n roll is here to stay almeno fino a quando Jim è in giro. Ferruccio Guglia


“Rewire”
Den Haag, varie location, 3-6 Aprile 2025
L’Olanda detiene oggi - senza alcun possibile contradditorio – la leadership del circuito festivaliero continentale, offrendo le esperienze più complete nell’ambito della ricerca, delle musiche estreme e di quelle adiacenti al più virtuoso indie. Giunta alla sua
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