LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Hard-Ons, foto di Andrea Amadasi]

Hard-Ons
Blah Blah – via Po, Torino, 12 0tt0bre 2024
L’alto tasso di amarcord che la serata si portava in dote, unito al fatto che “I Like You A Lot Getting Older”, il nuovo disco che gli Hard-Ons hanno pubblicato giusto una decina di giorni fa e che suona come un centrifugato di Radio Birdman e Kiss per la domenica pomeriggio al centro commerciale, non lasciava presagire nulla più che un dai e vai senza pretese, un’occasione per timbrare il cartellino tra due chiacchiere con gli amici e una birra a portata di mano. E invece quella patina ingiallita che il tempo inesorabile ha depositato sul punk australiano degli anni ’80 si è presa una bella sverniciata, nel frullatore di via Po, tornando luccicante nonostante le non facili premesse. Prima però, all’ora di cena, sono saliti sul palco i tarantini SFC, sobillatori di un hardcore troppo contemporaneo e quindi zavorrato dall’essere oltremodo preciso e misurato, per quanto solido e potente. Il loro è un concerto ineccepibile sotto l’aspetto formale ma da rivedere sotto tutti i restanti punti di vista. Poi il cambio palco come ai bei tempi – cioè ad uso, fatica e nastro telato degli stessi musicisti (per cui lungo e laborioso) – e quindi finalmente gli Hard-Ons da Sidney, di ritorno dalle nostre parti dopo un tempo immemorabile. Dei membri originali sono rimasti il chitarrista Peter Black e il bassista Ray Ahn, mentre da qualche anno e un paio di lp il posto di Keish De Silva è stato suddiviso tra Tim Rogers, per quanto riguarda la voce, e Murray Ruse, per quanto concerne la batteria. In amorevole simpatia, con lo scapigliatissimo Rogers – un marcantonio à la Perry Farrell solo leggermente più presente a se stesso – che grattugia tutta la voce possibile sulle corde vocali, probabilmente in sofferenza dalle date del tour europeo di cui questa torinese è la decima e ultima, il quartetto si dimentica di stare intorno a quota sessanta e riesce a capovolgere persino le sorti estetiche del summenzionato nuovo album, sebbene gli estratti – Buzz Buzz Buzz, Happy Accidents, Finder's Fee, Operation Lightning e Ride To The Station, su un totale di diciassette pezzi e un’ora di concerto – siano stati selezionati col bilancino di precisione. Ironia, velocità d’esecuzione, assolo sgargianti ma anche sganassoni a pugno chiuso, sono ancora le migliori peculiarità di questi inguaribili cialtroni di seconda fascia del kangaroo rock, tra i pochissimi ancora in attività e quindi ancor più meritevoli d’affetto per la perseveranza che dell’Australia li ha riportati fino a qui, immaginiamo, a tirare su quei due soldi con i quali forse ci si sono pagati solo il viaggio. Andrea Amadasi


Bassolino
“Robot Festival - Anteprima”, Bologna, Palazzo Re Enzo, 27 settembre 2024
Lo avevamo previsto ai tempi dell’uscita, la scorsa primavera, che i solchi di “Città futura” non potevano assolutamente passare inosservati. E così è stato, basta vedere quanto critica e pubblico abbiano premiato il progetto con cui il pianista Dario Bassolino ha dato vita a una personalissima sintesi di funk, jazz, progressive e umori cinematici proiettandola tra le strade di una Napoli onirica, sospesa a cavallo tra gli anni Settanta e il decennio seguente. Nato come un concept, l’album viene riproposto anche dal vivo quasi fosse la colonna sonora di un lungometraggio immaginario, sorretto dagli incastri di una formazione cangiante che passa agevolmente dal trio ad una line up molto più corposa. Nella splendida cornice di Palazzo Re Enzo a Bologna, in occasione di una serata che ha anticipato la quindicesima edizione del Robot Festival, abbiamo assistito a un set che – a dispetto di un forte riverbero naturale dovuto agli ambienti “d’epoca” – ha incantato il pubblico dalla prima all’ultima nota. La voce di Linda Feki (titolare di una ammaliante scia di produzioni a nome LNDFK) ha guidato ‘E Parole, forse il brano più amato di “Città futura”, ma persino le parentesi strumentali più ardite hanno ricevuto applausi scroscianti da un pubblico non necessariamente avvezzo al jazz. Insomma, complimenti a Paolo Petrella, Marcello Giannini e Andrea De Fazio per aver saputo ricreare dal vivo un incastro di suoni e atmosfere che non era facile rendere così tanto coinvolgente, soprattutto per chi si aspetta un festival orientato verso altre geometrie. E quindi complimenti anche al Robot, che si conferma ancora una volta meravigliosamente imprevedibile. Carlo Babando


Paolo Polcari (Almamegretta) e Stuart Braithwaite (Mogwai)
“Napoli Spacca – Soundscapes City Performance”, Napoli, Maschio Angioino, 2 settembre 2024
“Napoli spacca” è un gioco di parole, spezzando e invertendo i pezzi di “spaccanapoli” la scia di vicoli che taglia in due il centro storico di Napoli, una lama residuale che lega la storia di Napoli, dalla sua pianta romana (uno dei decumani) all’overtourism attuale. “Napoli spacca” non è solo il titolo di un evento-concerto ma un progetto promosso dal comune di Napoli che speriamo possa svilupparsi e crescere ulteriormente dando voce (o in questo caso suono) a una dimensione della città che deborda dai soliti cliché. Il concerto serale è stato preceduto da un interessante incontro mattutino in cui musicisti ed esperti hanno delineato alcune delle suggestioni in campo, spaziando tra storia della musica, etnomusicologia, antropologia, sound art, industria musicale e altro ancora (è spuntato fuori pure un Osimehn nascosto nella cassa dei pedali per la chitarra di Braithwaite: la fantasia dei tassisti napoletani non ha limiti). Ma veniamo al concerto. Paghi neanche uno (l’evento era gratuito) e prendi due, anzi tre. Di fatto è stato come assistere a due concerti in uno: Almamegretta più Mogwai. Fosse stato solo per questo, già sarebbe molto. Polcari e Braithwaite erano in gran forma, con da una parte i ritmi elettronici postdub del napoletano e dall’altra la chitarra postrock con i suoi riff dilatati dello scozzese. Ma la cosa interessante non è stata però questa musica già sentita e conosciuta. Il progetto musicale, infatti, è nato da una serie di registrazioni sul campo che hanno fatto da base e sfondo al successivo lavoro dei musicisti che hanno “colorato” (questa la loro espressione) le cartoline sonore registrate con la loro musica e la loro sensibilità. E qui, a mio avviso, sta la parte originale del lavoro. Da una parte i suoni e le voci della città colti in modo randomico (dal porto a piazza Mercato, dalla metro ai vicoli del centro), dall’altra come punto di vista (o meglio di ascolto) due musiche “bastarde” che hanno già in sé il senso della storia e della tradizione e il suo mischiarsi con altro, andando oltre. Gli Almamegretta rappresentano, da questo punto di vista, l’incontro tra la tradizione napoletana e il mondo (già bastardo di suo) del dub giamaicano e inglese, una rilettura del passato e del presente (di allora, ovviamente) con l’elettronica più avant. Stessa cosa si può dire in tutt’altro ambito per i Mogwai, con la loro deflagrazione del rock chitarristico. Elettronica postdub e chitarra postrock sono state le lenti che hanno permesso di guardare a Napoli in un’ottica originale e, io direi, anche convincente. Il risultato sono stati dei pezzi caratterizzati da un andamento circolare, dei loop che più che imporsi ai frammenti “field recording” hanno creato uno “stile”, un modo di attraversare e passare la città, quello, appunto, del loop, del girovagare, del perdere tempo, del dilungarsi per lasciarsi entrare dentro qualcosa. Questo andamento lento – mi pare – è, forse, oggi l’antidoto più efficace contro un turismo mordi e fuggi, in cui il programma di visite è già fissato secondo standard mediatici, quelli imposti dalle fiction televisive di successo. In questi loop avvolgenti è possibile intravedere la città ora troppo placida, ora troppo violenta. Ad ogni modo, uno dei percorsi possibili. Speriamo continui e che se ne aprano pure altri. Girolamo Dal Maso


“Viva!” Festival
Locorotondo 1-2-3-4 agosto 2024
Da un po' di tempo si sta diffondendo anche nel nostro paese la piacevole abitudine di organizzare festival in location particolari che danno vita a quel fenomeno che potremmo definire “turismo musicale”. Poter abbinare alla propria passione per la musica un viaggio fuori porta è il top, così come poter rispondere alla domanda “Dove vai in vacanza?” con il nome di un festival. Gli esempi sono tanti. Dall’“Open Sound” nel Parco Nazionale del Pollino e a Matera alla “Prima Estate” al Lido di Camaiore, dal “BeColor” nel parco naturale della Sila fino al “Viva!”, nella splendida Valle d'Itria, che anche quest'anno si è confermato uno dei festival più interessanti del panorama nazionale e non solo. Il programma ampio e ben curato prevedeva quattro giornate tra incontri, dj set e live ma le attese erano tutte per gli headliner del weekend: gli Air con il live celebrativo dei 25 anni di “Moon Safari” e gli inossidabili Underworld che mancavano dall'Italia da molto tempo.
I francesi sono il set principale del venerdì. Arrivano sul main stage dopo un energico live electro tribal di Dardust e un dj set techno di Giulia Tess. A incuriosire, già prima del loro ingresso sul palco, è la scenografia. Un grande parallelepipedo bianco, asettico. Nell'epoca dell'eterno presente condiviso, già sappiamo che suoneranno proprio lì dentro, già conosciamo la disposizione dei musicisti, ma vederlo dal vivo fa comunque un certo effetto. Tutto si svolge all'interno di questo spazio, una sorta di monolocale arrivato da un ucronico futuro ballardiano. Quando il live inizia, con Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel sempre sorridenti e perfettamente complici, questa scelta appare molto efficace nella sua semplicità, creando uno spazio quasi intimo e fuori dal contesto in cui vedere, quasi voyeristicamente, le cose che accadono dentro. Mi ha ricordato L’effet de Serge, uno spettacolo teatrale di Philippe Quesne in cui in un appartamento ogni domenica si svolgono mini-performance surreali e poetiche. Che sia proprio il francese Quesne la fonte d'ispirazione per la scenografia?... Il live ripercorre tutto “Moon Safari” e qualche hit da altri lavori, come una splendida versione di Cherry Blossom Girl dilatata e sognante. Ascoltarlo dopo 25 anni fa un certo effetto. Un senso di nostalgia per un futuro in grado di umanizzare le macchine che in fin dei conti non si è avverato. C’è poi tutta la sensualità esotica di pezzi come La femme d'argent o Talisman, degni di fare da colonna sonora a una foresta dipinta da Henri Rousseau. La malinconia di You Make it Easy e l'estro di Sexy Boy rimangono intatti e ci riportano indietro nel tempo, quando stavamo scavallando il millennio e “Moon Safari” era colonna sonora di scoperte (anche) musicali che facevano gridare, con Laurent Garnier, Daft Punk e Cassius, “Vive la France!”. In versione live i pezzi sono più accattivanti e coinvolgenti che in studio, cosa che mi ha sorpreso non poco, avendo sempre pensato che un concerto degli Air fosse il classico esempio di performance da vedere seduti in teatro.
La giornata seguente è quella del grande evento-Underworld, un gruppo che ha contribuito a creare il suono dell'elettronica degli anni '90, ormai assente dalle nostre latitudini da tempo (per vederli recentemente li ho dovuti intercettare a Berlino e Bruxelles). Il loro live è un viaggio in cui lasciarsi trasportare senza tentennamenti, riescono a dosare perfettamente i momenti più ritmati con le zone ambient intimiste. Di solito la musica dance nei grandi eventi fa ballare migliaia di persone in un rito collettivo quasi ancestrale, puntando a creare una sorta di tribù contemporanea. Gli Underworld invece ti accompagnano in un viaggio personale, una danza tra gli altri più che con gli altri, un viaggio nel tuo mondo da condividere. Ma dei loro live la cosa che mi ha sempre colpito di più è il frontman Karl Hyde, classe '57. Ha un modo di muoversi quasi ipnotico, sciamanico. Balla, trasportato, fino a farsi trasposizione visiva della loro musica. Nel 2005 due video artisti, Douglas Gordon e Philippe Parreno, fecero un video d'arte filmando per l'arco di un’intera partita Zinedine Zidane. Della partita c'è solo lui decontestualizzato. Ho sempre immaginato di rifare l'operazione proprio filmando Hyde in un suo live. Magari senza musica. Sono convinto che reggerebbe senza annoiare. Nella serata hanno eseguito tutte le hit, da Two Months Off a Dark & Long (Dark Train) passando per King of Snake, Rez/Cowgirl, la più recente Denver Luna e l'immancabile Born Slippy, che infiamma l'arena.
L'ultimo atto del “Viva!” è un live sulla spiaggia per aspettare l'alba. Alle 5.30 del mattino sale on stage vista mare Giorgia Angiuli, che, nonostante l'orario, propone il live più techno dell'intero festival affiancando a computer e moog anche giocattoli e diamoniche da scuola media. Molto brava e coinvolgente: anche quest’estate scegliere un Festival come meta è stata la soluzione migliore per le mie vacanze… Massimo Lovisco


Be Color Festival
Marlene Kuntz / Motorpsycho / Kula Shaker
Camigliatello Silano (CS), 3 agosto 2024
La bellezza del posto è stordente. Il lago Cecita a Camigliatello, sui monti della Sila, ospita la seconda edizione della piccola Woodstock calabrese: il colpo d’occhio è meraviglioso. Se ne accorge anche Crispian Mills dei Kula Shaker che parlerà di “such a beautiful place in this part of the world”. Una felice intuizione degli organizzatori. L’orario di inizio, 14:30, ci fa perdere quasi per intero la timida esibizione di Her Skin, solo per voce e chitarra. Il DJ set “molto parlato” di Fabio Nirta allieta i cambi palco sotto un sole cocente. E sotto un solo cocente, vestiti di tutto punto, si presentano i Marlene Kuntz. È una tappa del tour per il trentennale di “Catartica”. Tra gli svantaggi dell’invecchiare c’è anche il fatto che certi dischi non ti colpiscono più alla stessa maniera di quando eri un ventenne. Al momento dell’uscita avevo molto amato il debutto della formazione cuneese. Mi aspettavo, perciò, una scossa dettata anche dalla nostalgia. I Marlene Kuntz ci provano, con una una buona dose di energia e molto mestiere, ma l’attesa botta non arriva anche se i die-hard fan presenti nelle prime file sembrano apprezzare. Emozionante il momento in ricordo dello scomparso Luca Bergia.
Non appena sul palco salgono i Motorpsycho il livello si impenna. Sarà che l’ambiente circostante ricorda un fiordo, sarà per il calore del pubblico, sta di fatto che il trio norvegese appare sin da subito a suo agio. Per un’ora e mezza il power trio di Trondheim sciorina un set fatto di brani tratti prevalentemente dai singoli in cui indie-rock, psichedelia, stoner e leggerezze pop vengono mischiate e dosate con maestria. C’è solo qualche sporadico calo di tensione, ma il concerto rimane sontuoso con due momenti-clou: la lunga e travolgente jam lisergica Mountain e il remake potente e riuscitissimo di Rock Bottom degli UFO. Quando è il momento dei Kula Shaker si volge verso il tramonto ma il sole è ancora alto nel cielo, a tratti abbagliante. In formazione originale, con il redivivo Jay Darlington all’organo, il quartetto inglese ha intenzione di non fare prigionieri e l’attacco con Hey Dude ne dà ampia dimostrazione. Da lì in avanti Mills e compagni si muovono tra episodi tiratissimi, brani dal sapore oriental-misticheggiante, ballate alternate a pezzi ballabili, aromi late-60’s/early 70’s in cui l’hammond di Jay alimentato dal Leslie gioca un ruolo rilevante. Il mix di canzoni vecchie e nuove è coinvolgente, i classici di “K” e le potenziali hit di “Natural Magick” (dall’arrembante Gaslighting ad Idontwannapaymytaxes passando per la title-track) si fondono magicamente. E quando il sole declina dietro i monti della Sila, Govinda - con il suo mix di spiritualità indiana e singalong del pubblico – risulta essere la chiusura ideale di un concerto strepitoso e di una giornata perfettamente riuscita. Roberto Calabrò


The Black Heart Procession
Moulien Club, San Nicola la Strada (CE), 1 agosto 2024
Ce la siamo sudata. E continueremo a farlo. Fuori Napoli, in quelli che una volta erano paesotti di campagna (ma che ormai sono città a tutti gli effetti) che avevano pure una loro certa nobiltà (nulla a che fare con i nobili della capitale, ma comunque ci tenevano a fare la loro bella figura), accanto a dignitosi e pigramente solenni palazzi si trovano i resti di masserie che si riconoscono per i loro grandi portali e i massicci muri in pietra di tufo. Una volta davano affaccio su grandi corti che, a loro volta, si affacciavano sulle campagne. Di tutto questo rimane, sparpagliato qua e là, qualche facciata che sa si desueto, incastrata (più che incastonata) tra palazzi che hanno letteralmente mangiato ed eroso lo spazio contadino o, in qualche caso, di qualche operosa fabbrica, spazi invasi e sopraffatti da una urbanità inesausta eppure da sempre esaurita. Il passaggio dalla pietra al cemento e dall’orizzontalità alla verticalità degli apatici e compressi condomini si è svolto abbastanza rapidamente, ma il territorio (che – è bene ricordarlo – è fatto dagli uomini) conserva orgoglioso e silente le sue cicatrici.
È in un posto del genere, mi pare, che – non si sa come – sono andati a cacciarsi i The Black Heart Procession il primo agosto per un concerto a suo modo memorabile. Memorabile secondo un tipo di memoria, di percezione del tempo, delle storie, dei luoghi e – soprattutto – degli uomini che ha un qualcosa di desueto, profondamente radicato in una visione del mondo e della musica che potremmo definire “romantica”, che attinge la sua forza dalla polvere impastata al sudore, fatta di cuori feriti che tornano sempre sugli stessi desolati posti, che va avanti a forza di fallimenti. Sudore tanto, tantissimo. A un certo punto il cantante ha sbuffato con un ghigno tra l’ironico e il rassegnato “sto cazzo di caldo”. Eh sì. Un “fucking hot” che ci assale da giorni e se uno fosse andato al concerto per distrarsi un po’ sarebbe (come di fatto è accaduto) caduto dalla padella alla brace. Anche i condizionatori, beffardi, facevano mostra di una spia che non è mai scesa sotto i 30. Ma che si ne frega. Questa è la nostra vita adesso e altra non ne abbiamo. La location è letteralmente (con tanto di scritta) una sala da ballo, in cui si susseguono – a quanto pare – eventi i più disparati. Appesi ai muri stavano locandine di serate per la parrocchia e saggi di pianoforte. La grande, ma non grandissima sala, sembra un mix tra una vecchia discoteca e un salone del castello delle cerimonie nella sua versione basic, con tanto di lampadari dorati a metà strada tra alberi di Natale e fontane cascanti. Il pubblico, fortunatamente abbastanza numeroso, avrà preso il posto occupato in altre serate da settantenni intenti a ballare il liscio o, in qualche pomeriggio, di bambine svogliate alle prese con le lezioni di danza. Ci siamo persi tra “Paris, Texas” e “Non è un paese per vecchi”, in un mondo imperfetto, ma è il nostro mondo. Altri non ne abbiamo. L’imperfezione è quello che abbiamo, quello che siamo e ci conviene giocarcela bene. Non saranno impeccabili e perfetti come Taylor Swift e non faranno salire il PIL del loro paese, ma i The Black Heart Procession hanno qualcosa che li rende speciali e rende speciale il rock che fanno. Dentro c’è la vita, una vita in cui la maggior parte di noi suda, caccia fuori sali e tossine. Pure, in alcuni momenti, un poco gradevole tanfo. Tant’è. Musica e sudore e tanto, tanto cuore, senza fronzoli, come le canzoni e il suono, tutta sostanza. Ballate degne del vecchio Nick Cave per un rock bastardo eppure dalla forte identità, attraversando il deserto emozionale e sonoro che passa tra Caleixo e Thin White Rope. Le condizioni non erano certo ottimali ma i quattro musicisti si sono buttati a capofitto nel loro ruolo con mestiere facendo da cassa di risonanza, con la loro musica, a emozioni e pensieri: c’era chi cantava i pezzi a memoria, chi ballava i lenti incuranti della pelle madida, chi ballava da solo, chi non ha perso una nota del concerto, chi girovagava per la sala col ventaglio, chi chiacchierava e beveva birra (il tastierista ha pensato bene di sostituirla con una bottiglia di whisky), chi non vedeva l’ora che finisse per uscire al fresco (il che è tutto dire)… Ognuno con la sua storia, per un paio d’ora tutte assieme. Quante storie, tutte diverse, di cui le canzoni sono state una cassa di risonanza, toccando corde che spesso preferiamo nascondere o evitare ma con cui dobbiamo fare i conti. Siamo animali che sudano, ma cavolo, ne vale proprio la pena. Girolamo Dal Maso


Umbria Jazz 2024
Perugia, vari luoghi, 12-21 luglio 2024
Dopo il periodo di crisi dovuto alla pandemia Covid-19, che ha visto anche un’edizione annullata, Umbria Jazz anno per anno ha ripreso sempre più a crescere, arrivando a ribadire gli antichi fasti. I numeri dell’edizione 2024 sono impressionanti, per presenze e incassi, anche grazie a una nutrita schiera di artisti pop, rock e affini (quasi sempre di qualità) che hanno attirato migliaia di fan. Al concerto di Lenny Kravitz all’Arena Santa Giuliana erano presenti oltre dodicimila paganti: una festa, come lo sono state le performance di altri musicisti popolari tipo Vinicio Capossela, Raye, Cha Wa, Lizz Wright, Toto, Laufey, Nile Rodgers & Chic, Veronica Swift e Djavan. Fra questi, spendiamo due righe solo per la cantante del Mali Fatoumata Diawara che col suo canto agile, gagliardo e cantilenante, che si rifà ampiamente alle tradizioni wassoulou della sua terra d’origine introducendo al contempo elementi occidentali, testimonia ex post il legame fra il canto africano e quello afro-americano jazzistico.
A parte le attrazioni popolari, Umbria Jazz è naturalmente strapiena di jazz, che viene presentato, oltre che nella stessa Arena Santa Giuliana, al Teatro Morlacchi e alla Sala Podiani presso la Galleria Nazionale dell’Umbria e, per i concerti gratuiti, in un misto di jazz, pop, rock, soul e blues, ai Giardini Carducci e in piazza IV Novembre.
Se per stilare un’eventuale classifica dovessimo seguire i nostri personali gusti, faremmo salire sul podio i gruppi guidati da due “vecchietti”: Charles Lloyd ed Enrico Rava, rispettivamente ottantaseienne e ottantaquattrenne, che continuano a mantenere freschezza di idee e commovente espressività nel loro incedere solistico. Sono rimasti al passo coi tempi anche perché si attorniano di musicisti giovani e d’impostazione modernista, complementari al loro modo di pensare la musica e in sintonia con le istanze del jazz contemporaneo, anche se hanno instaurato con i più giovani compagni rapporti diversi: il pianista Jason Moran, il contrabbassista Larry Grenadier e il batterista Eric Harland sostengono magistralmente Lloyd, gli fanno da bordone, gli consentono di esplicare il proprio solismo rimasto fresco e agile, ricco di sfumature, modernamente articolato e dinoccolatamente swingante. Rava, invece, nello sviluppare le composizioni e le architetture concordate, concede la massima autonomia ai suoi e vi interagisce alla pari, addirittura inserendosi nel loro procedere che è avanzatissimo, con uso anche di elettronica. “The Fearless Five” è il nome di questo nuovo quintetto, comprendente gli abituali sodali Francesco Diodati, fra i chitarristi più interessanti, innovativi e personali della scena, e Francesco Ponticelli, solido, sicuro e immaginoso contrabbassista; poi i nuovi arrivati Matteo Paggi al trombone, tecnicamente ferratissimo e dalla voce potente e al contempo suadente, con un occhio che guarda avanti e l’altro all’indietro per non perdere l’essenza delle cose del passato, e la batterista, per certi versi sorprendente per tecnica e inventiva, Evita Polidoro. Rava, da canto suo non ha perso la mordace liricità e la forbitezza del suono, addirittura riprendendo in mano in qualche brano la tromba, da anni abbandonata in favore del meno faticante flicorno.
Sempre seguendo le personali impressioni, faremmo seguire nella classifica tre formazioni, rappresentative dei principali filoni in cui tutte le numerose altre si potrebbero raggruppare. Per il filone mainstream, il quartetto all-star di Chris Potter (sax tenore e soprano), Brad Mehldau (piano), John Patitucci (contrabbasso) e Johnathan Blake (batteria), che non ha messo a punto arrangiamenti impegnativi, solo mera esecuzione dei temi perlopiù composti da Potter, ma ha suonato con finezze straordinarie (stop, riprese, dinamiche, interplay) e sciorinato assolo di altrettanto pregio, con Potter che ha fatto la parte del leone con lunghi avventurosi interventi di gran compattezza e logicità e Mehldau che, da cavalier servente, li ha alternati con meditata eleganza.
Per il filone dei gruppi più alternativi, il duo del trombonista Gianluca Petrella e del vibrafonista Pasquale Mirra che, con uso ben congegnato e vario delle elettroniche e delle percussioni tramite computer, ha costruito un mondo di base tribale con fluorescenze continue di tutti i tipi, attraverso il trombone dalla sonorità grossa e rude e attacco potente e il vibrafono – a volte “preparato”, per esempio coprendo le lamine con carta d'alluminio – agilissimo e fantasmagorico, con le sonorità dei due strumenti contrastanti ma che si completano fondendosi in una sintesi alta.
Per il filone delle esibizioni in piano-solo (ce ne sono state in gran numero, quasi tutte alla Sala Podiani, la cui tranquilla intimità ha favorito attenti ascolti), un altro “decano”, Franco D’Andrea, che ha sciorinato una lunga sequela di brani eseguiti seriosamente e con estrema concentrazione, eleganti interpretazioni che si rivelano un misto di improvvisazione legata formalmente, oltre che come “spirito”, al jazz del passato più lontano, come lo stride, che si può leggere sempre in filigrana, ma soprattutto di quello più vicino, di Thelonious Monk, Lennie Tristano e Cecil Taylor, complicando l’improvvisazione attraverso una personale concezione intervallare e una pratica di multiple sovrapposizioni armoniche, ispirandosi anche alla musica seriale.
Attorno a questi tre “nuclei” si sono dipanati decine e decine di concerti, di cui non si può fare altro che, in questa sede, trattare per accenni. Molti i piano-solo, s’è detto, con una coincidenza inconsueta: ben tre di essi, Danilo Rea, Giovanni Guidi e Marco Mezquida si sono cimentati in recital composti da un unico blocco di libera improvvisazione di un’ora e più, senza interruzioni di sorta. Mezquida con impostazione (eccessivamente) classicheggiante, Guidi e Rea seguendo come in un flusso di coscienza le idee del momento, interpolando spezzoni di brani conosciuti (più conosciuti e numerosi quelli di Rea, maggiormente dissimulati quelli di Guidi) che servissero agli ascoltatori per non perdersi nelle miriadi di vie e sentieri labirintici seguiti dai musicisti. In solitudine anche le magistrali prove di Rita Marcotulli ed Enrico Pieranunzi, mentre per ampliare e rendere praticamente esaustivo il panorama del pianoforte, nella fattispecie mainstream, sono intervenute anche formazioni in trio, artisti d’eccellenza sia della vecchia guardia come Kenny Barron e Dado Moroni, o di più giovani generazioni come Micah Thomas, Alessandro Lanzoni (con Francesco Cafiso al sax) e Christian Sands, tutti regalando prove di grande intensità, tecnica e fantasia.
Pure i chitarristi hanno avuto il loro spazio: per cominciare da due veterani, il nostro Bebo Ferra che ha esibito il suo eloquio arcignamente inebriante nel gruppo Devil Quartet guidato da Paolo Fresu, che alla tromba ha confermato il valore e la duttilità, in una performance di grande tiro e ampio respiro (corroborata da una coreografia psichedelica con fumi e giochi di luci e controluci); e Kurt Rosenwinkel col suo quartetto comprendente il tenor sassofonista Mark Turner (che a fare un confronto a distanza con Chris Potter è risultato più convenzionale e risaputo); inoltre da segnalare due bravissimi giovani italiani, Eleonora Strino, esibitasi col proprio trio seguendo con spavalda personalità le orme di Barney Kessell e Jim Hall, ed Edoardo Ferri, ben supportato da Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria, che invece s’ispira a Bill Frisell, ma sa inserirsi nella modernità con una tutta sua lirica audacia.
A proposito di “italianità” e di “modernità”, da segnalare anche la bontà delle musiche del Weave4 e del Mirco Rubegni 5et: il primo gruppo vede ancora come protagonista Francesco Diodati che alla chitarra intreccia fitte tessiture con il sax e il clarinetto di Francesco Bigoni dalle linee melodiche ingegnosamente contorte e dalle raffinate sonorità a mezze tinte, il piano di Benoit Delbecq e la batteria di Steve Arguelles, tutti anche alle elettroniche, producendo un jazz da camera avveniristico e cool. Il trombettista Mirco Rubegni invece si rifà a Louis Armstrong con la proposta di “My Louis”, che infatti interpreta a suo modo, in piena sinergia e intesa con i compagni, mantenendone lo spirito ma stravolgendone gli assunti formali, che muta attraverso un groove funkeggiante, l’uso di elettroniche con campionamento di voci e il recupero di frammenti di melodie care a Satchmo, dando sfoggio di una tecnica superiore che sa rimanere sempre al servizio dell’idea-forza del progetto.
E non è finita: riguardo al mainstream due splendide dimostrazioni sono anche state date dal trombettista Fabrizio Bosso, presentatosi col suo solito consolidato quartetto a cui si sono aggiunti sei fiati arrangiati eccellentemente da Paolo Silvestri su temi classici di Ellington e Gillespie (Bosso è sempre spettacolare per tecnica superlativa, inesausta forza e ricca fantasia); e dal gruppo Something Else, una all-star di bopper guidati dall’alto sassofonista Vincent Herring (il soul jazz proposto è risultato comunque un po’ troppo di maniera).
Un angolino è anche stato dedicato ai duetti, sulla falsariga di Petrella/Mirra: eleganti, raffinati e vigorosi, il pianista Paolo Birro e il tenor sassofonista Francesco Bearzatti hanno interpretato Billy Strayhorn mantenendone l’arguzia melodica e la finezza armonica, messe originariamente al servizio dell'orchestra di Ellington; melodie vintage, ritmi vigorosi, seriosa giocosità sono stati resi manifesti con aplomb dal fisarmonicista Vincent Peirani e dall sassofonista Emile Parisien in un sentito omaggio al tango; infine l’alto sassofonista Miguel Zenon e il pianista Luis Perdomo che, rimanendo a bazzicare la cultura del Sud America con “El arte del bolero”, hanno palesato tecnica nitida e pulita, alta precisione degli incastri musicali, rigide e calibratissime proporzioni degli assunti musicali.
E ci sarebbe ancora altro di cui parlare, da Richard Galliano che ci ha portato a Parigi, a Chucho Valdes e Roberto Fonseca che ci hanno portato a Cuba, da Hiromi che ci ha portato in Giappone con una fusion sui generis che rimembra i fumetti manga, all’orchestra Gil Evans Remembered che ci ha riportato indietro nel tempo, quando appunto Gil Evans, a Umbria Jazz, contribuiva da primattore a fare la storia del jazz. Aldo Gianolio


Paolo Benvegnù
“Men/Go Festival XX edizione”, Arezzo, Fortezza Medicea, 14 luglio 2024
Nella splendida cornice della Fortezza Medicea di Arezzo, alle prime ore di una calda mattina di luglio una band accoglie il nuovo giorno. Non è una band qualunque: si tratta del Paolo Benvegnù col suo collettivo composto da amici e complici come Luca “Roccia” Baldini (basso), Daniele e Gabriele Berioli (batteria e chitarra), Saverio Zacchei (elettronica e fiati) e Tazio Aprile (tastiere). Ogni cosa, a quest’ora, è differente, i suoni, i colori, i volti delle persone, le nostre trombe di Eustachio che faticano a sintonizzarsi. Ma la bellezza è proprio qui: nell’imperfezione delle sensazioni, nella crudeltà delle parole dette al mattino e soprattutto nella forza delle idee (musicali e poetiche) che Paolo e la sua band sono in grado di trasmettere. Raccontare questo piccolo miracoloso concerto all’alba che chiude l’edizione del ventennale del Men/Go Festival di Arezzo è più difficile del solito per vari motivi, in primis per l’amicizia che mi lega a Paolo e parte della band – su tutti Luca “Roccia” Baldini straordinario polistrumentista e genio della produzione. Negli anni questo progetto è germogliato e cresciuto, ha resistito alle intemperie e oggi emana una luce limpida e calda, proprio come quella che accolto la band questa mattina. Diciassette canzoni che in qualche maniera celebrano la prima uscita pubblica di Paolo dopo la vittoria come miglior album al Premio Tenco 2024 con “È inutile parlar d’amore”, un evento a dir poco epocale per la carriera di qualunque artista. Nel suo caso poi questo risultato certifica finalmente quello che si sa da tempo, cioè che Paolo e la sua band sono tra le poche realtà musicali (cantautorali?) italiane a saper dare emozioni vivide con tanto rara potenza emotiva e qualità compositiva.
L’alba riesce dove la notte ha fallito. Canzoni come Il mare verticale, L’origine del mondo, Our Love Song, L’oceano, Io e il mio amore, Alla disobbedienza o 27-12, solo per citarne alcune, assumono una luce – letteralmente – nuova, fresca, consapevole, positiva. Credo che Paolo abbia una delle voci più belle della musica italiana e che le sue canzoni siano veramente un raggio di sole in una mattina d’estate. Come quelle albe vissute da ragazzo ai campeggi scout, quando ti capitava di svegliarti prima degli altri e un raggio attraversava le foglie e i rami degli alberi e tu pensavi e riflettevi, magari toccando anche temi seri e profondi, consapevole però che davanti a te avevi una giornata piena di sole. La speranza passa anche attraverso la complessità di una canzone e di un raggio capace di indicare la strada. Andrea Laurenzi


Ride
Bar Italia
Soliera (MO), “Arti Vive Festival”, 4 e 7 luglio 2024
Il festival che li ospita nel piccolo paese della “bassa” modenese è ancora uno di quelli che usano prendersi cura del proprio pubblico, per cui niente palchi costipati di musicisti a qualsiasi ora del giorno, prezzi sostenibilissimi quando non proprio azzerati e non ultimo un corollario di iniziative collaterali che arricchiscono il programma per una fruizione libera da compromessi, cioè che dipendono solo dalla voglia di esserci. Per la data di apertura i Ride, che rappresentano uno di quegli eventi che si ripetono a ogni edizione da quasi vent’anni e arrivano quasi di soppiatto, lontanissimi dai clamori mediatici e del “chi più ne ha più ne metta”: il pubblico c’è, risponde “presente” e si lascia trasportare volentieri nella bolla chitarristica di Mark Gardener e soci attraverso i decenni, le mode, i revival. Al centro del mondo i Ride non sono mai stati, peraltro, nemmeno nel momento di massimo splendore che la musica inglese ha attraversato tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima del decennio successivo; però hanno scritto canzoni importanti e la più importante di tutte, Leave Them All Behind, se la sono giocata come seconda subito dopo Monaco, il pezzo più neworderiano di “Interplay”, il disco nuovo pubblicato solo pochi mesi fa. Una canzone del calibro di Leave Them All Behind avrebbero potuto tenerla in caldo per un’ora lasciando maturare lentamente il momento opportuno per poi sferrare il colpo del KO per un godimento finale che avrebbe determinato l’esito e il giudizio di un intero concerto. Librata così, all’inizio, senza troppi pensieri né pressioni, ha acquisito invece un valore emblematico ancor più luccicante, senza però consegnare nessuno alle strette maglie della nostalgia. Anche perché poi con Last Frontier e I Came To See The Wreck in sequenza – con Mark Gardener al basso come Steve Queralt e il solo Andy Bell alla chitarra – ci hanno riportato subito al presente, seppur con quello spiffero di casa Factory che nell’ultimo disco è più marcato che mai e suona quasi come una scelta di campo redentiva, mentre tutto e tutti vanno altrove alla velocità della luce. Poi il concerto si è assestato su livelli assai più che dignitosi in un andirivieni tra pezzi recenti e più o meno datati, con qualche evergreen dell’epoca d’oro shoegaze riportato alla luce (Chrome Waves, Dreams Burn Down, OX4) e con quelle cavalcate chitarristiche che hanno l’effetto di far risaltare anche il materiale più moderno (Future Love, Lannoy Point, Peace Sign…). Materiale che di classici oggettivi oggi non ne conta e, per come veloci vanno le cose, nemmeno in futuro; ma tant’è, questa unica data italiana dei Ride prima della partenza per l’estremo oriente (Cina, Giappone, Thailandia…) ci restituisce più di altre volte l’epifania cristallizzata di un periodo lontano nel tempo, nondimeno soddisfacente e molto emozionante.
Viceversa, solo tre giorni dopo da quello stesso palco i Bar Italia (nome tremendo, va detto e rimarcato) ci sbattono in faccia la versione contemporanea, decisamente esuberante e a tratti irriverente, di quello stesso periodo e altri ancor più lontani, anticipati da un redivivo Jonathan Clancy che riempie l’attesa dell’evento principale riproponendo la miscela di folk e avanguardia di cui sono pregne le canzoni del suo album “Sprecato”. Molto interessante e avventuroso il suo ritorno, in combutta con Laura Agnusdei al sax, J.H. Guraj alla chitarra e Andrea de Franco al synth & loops, in linea con l’elevato livello qualitativo delle ultime produzioni di casa Maple Death Records. Nina Cristante, Samuel Fenton e Jezmi Fehmi, i tre Bar Italia, salgono poco dopo le 22.30 insieme alla bassista Emilie Palmelund e al batterista Liam Toon e con tanta seducente bellezza (delle Cristante e Palmelund), ma eludendo qualsiasi preambolo, danno fuoco alle polveri con Calm Down With Me, la prima di una raffica di canzoni sparate a ritmo decisamente serrato. Al netto dei mille riferimenti riconoscibilissimi “ad occhio nudo” (si fa prima a dire chi non c’è…), la resa dal vivo dei tre (più la sezione ritmica a supporto) è indiscutibilmente più selvatica e avvincente che su disco, dove prevale piuttosto una compassata regolarità esecutiva che privilegia la melodia ma stimola fino a un certo punto: l’interazione col pubblico rimane al palo mentre la scaletta procede a zig zag tra gli ultimi due album, “Tracy Denim” e “The Twits”, con un’urgenza fin troppo calcolata. Poco sorprendente insomma, perché scardinare qualche cliché (come non tornare sul palco per il bis dopo appena un’ora di concerto) crea dibattito e quindi interesse nonché popolarità. Che di questi tempi vale più di una manciata di buone canzoni, che pure non mancherebbero nel repertorio dei Bar Italia. Andrea Amadasi


Air
Ferrara, “Ferrara Summer Vibez”, 22 giugno 2024
Al netto delle migliaia di persone adoranti anche dopo aver affrontato l’ora abbondante del set di Mace in apertura (il producer milanese si è profuso in un mischione di techno tendenzialmente encefalopiattista, con campionamenti presi da chiunque, dai Prodigy all’italo indie pop degli ultimi anni), la sensazione che gli Air siano un’entità indefinita e imprigionata in un cliché è ancora forte e stupefacente allo stesso tempo. C’è chi sostiene che il poter essere i Kraftwerk del nuovo millennio li abbia in qualche modo tarpati, ma solo l’esecuzione di Electronic Performers, nel finale, ha (lontanamente) evocato le rigide atmosfere digitali dei teutonici, mentre l’eterea vocazione da chansonniers retromaniaci aveva sedotto pienamente solo col primo disco e, in assenza di update realmente significativi, iniziato a segnare stancamente il passo già dai tempi di “10.000 Hz Legend”. Per cui oggi siamo ancora qui, a lasciarci abbagliare dall’unico anniversario la cui celebrazione è iniziata con il venticinquennale e finirà forse solo con il trentennale, perché procrastinata in avanti come una sorta di “Truman Show” le cui repliche devono avere un indice di redditività probabilmente più lusinghiero di qualsiasi altra volontà terrena. Quindi “Moon Safari” è stato eseguito nella prima parte del concerto, con uso e abuso di vocoder e giusto una versione quasi dub di All I Need che non sarebbe dispiaciuta ad Andrew Weatherall, ma la variabile più sgargiante che Jean-Benoît Dunckel e Nicolas Godin hanno ideato per questo lunghissimo tour attraverso i continenti è il “monolocale” a forma di parallelepipedo dentro al quale hanno suonato. La cui architettura space age veniva spesso “alterata” attraverso un uso tecnicamente impeccabile dei pattern luminosi oppure, quando invece venivano proiettati visual sullo sfondo, il più delle volte risultava come una sorta di portale per una dimensione più tipicamente space invaders. Una volta esaurita quella pratica sancita da un’uscita di scena tutto sommato futile, l’excursus successivo nel repertorio del duo ha continuato a non riservare sorprese particolari, dacché le Cherry Blossom Girl, le Venus o le Don’t Be Light sono inamovibili dalle loro scalette e le restanti cambiano molto sporadicamente. Insomma, alla fine quella strana sensazione di aver assistito ad un concerto formalmente ineccepibile ma al tempo stesso asettico, algido e alienante riporta a galla l’annosa questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che una volta di più quando si parla degli AIR rimane senza soluzione. Andrea Amadasi


“Medimex”
Taranto, 22 e 23 giugno 20024
Fra i tanti festival in programma nel panorama nazionale, il Medimex - International Festival & Music Conference, promosso da Puglia Sounds, merita sicuramente una menzione d'onore. Considerarlo semplicemente un festival sarebbe riduttivo, visto che è una una kermesse sulla cultura musicale che per una settimana trasforma Taranto (e in passato anche altre città pugliesi) in una capitale della musica. Il programma è talmente vasto che è arduo seguirlo tutto tra concerti, show case, dj set, proiezioni esclusive, dibattiti, workshop, mostre – tra queste molto riuscita quella che racconta gli anni newyorkesi di John Lennon e Yoko Ono attraverso l’obiettivo di Bob Gruen, presente di persona in uno dei tanti incontri. Al Medimex la musica non è considerata semplice intrattenimento ma è cultura e lavoro. Ed è forse questo il cuore dell’evento. Sono tante, infatti, le iniziative rivolte ai giovani che hanno intenzione di intraprendere la carriera musicale. È bello vedere una città invasa culturalmente da amanti della musica, come accade a Venezia per l'arte contemporanea o a Reggio Emilia per la fotografia. E, cosa non da poco, è importante che in questo momento storico questo accada proprio al Sud.
Come al solito il piatto forte del Medimex sono i concerti del main stage della rotonda Lungomare. Quest'anno nelle due serate principali la proposta aveva un IGT ben precisa: il Regno Unito e quel british sound che a cavallo dei 2000 ha segnato le sonorità del rock internazionale. Sul palco gli Smile, i Jesus and Mary Chain e i Pulp.
La prima serata è dedicata agli Smile di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner accompagnati dal sassofonista Robert Stillman che, oltre al sax, crea atmosfere con i synth. La band sale sul palco in una delle giornate più calde dell'anno. Siamo oltre i 40 gradi, cosa che fa subito esclamare “Fucking Caldo diventiamo pazza!” ad uno Yorke in gran forma. Si parte con la delicata Wall of Eyes, che trasporta subito Taranto in un territorio sognante con un palco immerso in un rosso totale. La scenografia, per quanto semplice (comuni tubi che cambiano colore in base alla canzone), è efficace. Si ha l’impressione di entrare in una navicella spaziale. Non so perché ma Yorke, per assonanza sinestetica, mi fa pensare ad un alieno impegnato in un viaggio interstellare. Ricordo quando lo vidi nel 2000 a Firenze coi Radiohead in occasione del tour di “Kid A”. Suonarono Amnesiac, che ascoltavamo per la prima volta: chiusi gli occhi e mi sentii fluttuare in un’orbita esterna al nostro pianeta. Quando li riaprii Yorke mi sembrava un extraterrestre sovrastato dalla sua stessa astronave, intimorito da ciò che lo circondava. Anche a Taranto, ascoltando Pana-vision, ho avuto la sensazione di fluttuare. Ad occhi chiusi mi sono ritrovato ancora in orbite amnesiache ma questa volta, quando li ho riaperti, era Yorke a sovrastare l'astronave e dominare ciò che lo circondava. Forse è questo il passaggio che contraddistingue gli Smile dai Radiohead: un rapporto con il contesto più leggero, una dimensione in cui il suono semplicemente accade e tutto diventa più fluido. Sul palco ognuno ha una sua precisa impostazione. Yorke guida con decisione l'intero processo verso territori emozionali che in alcuni punti accarezzano il jazz per poi virare verso punte psichedeliche, Greenwood si prende cura degli strumenti (spesso abbraccia il basso o sembra accarezzare le tastiere), Skinner è fermo e deciso, mentre Stillman aggiunge un tocco di raffinatezza ricalcando delle linee con il suo sax o creando mondi con i synth. Il momento più interessante è stato su Don't get me started, crescendo di synth bass analogici corteggiati da una voce dilatata da lunghi delay per arrivare a un incedere di percussioni quasi dance. Il concerto degli Smile si chiude lasciando la gente sorridente, e non è un gioco di parole: il set ha diffuso serenità in una notte perfetta.
Il giorno seguente tocca ai Pulp di Jarvis Cocker, anticipati dal set altamente adrenalinico ed energico dei Jesus and Mary Chain e da una grande sorpresa: su Just Like Honey, tra le luci porpora che bagnano il palco, all'improvviso appare Cocker per un duetto che ha entusiasmato chi stava trepidando per l'unica data italiana dei Pulp (c'è da dire però che Cocker era presente anche il giorno prima per assistere attentamente a tutto il concerto degli Smile).
Se il concerto degli Smile è stato un viaggio meditativo, quello dei Pulp trasforma la piazza in una grande festa e lo si capisce subito con Disco 2000, uno dei primi pezzi. Nonostante il caldo Cocker non rinuncia all'eleganza indossando un completo, giacca compresa, e non si limita a cantare ma si muove in continuazione dimenandosi (uno dei commenti più gettonati a fine serata era proprio “ma come ha fatto a cantare senza togliersi mai la giacca?”). Su This Is Hardcore salta a ogni strofa infiammando il pubblico (“here comes the hardcore life”). È un grande performer, carismatico e molto più vivace di quanto immaginassi: si finisce nel delirio di Common People e nella chicca Bar Italia, con la certezza che il Medimex riesce a stupire sempre di più a ogni edizione. Massimo Lovisco

La Prima Estate Festival
Jane’s Addiction – Dinosaur Jr – Sleaford Mods – Motta
Lido di Camaiore (LU), 14 giugno 2024
Figurava come un pesce fuor d’acqua, il Motta nostrano, sul gigantesco palco dei Jane’s Addiction e Dinosaur Jr nella prima giornata de La Prima Estate festival. I ventenni degli anni ’90, cresciuti a pane e rock alternativo (perlopiù americano), che si sono ritrovati al parco BussolaDomani del Lido di Camaiore per regalarsi un surplus di vibrazioni, se lo sono ritrovato invece per nulla spaesato con quella maglietta con la scritta T-REX in evidenza e la new entry in formazione, Roberta Sammarelli dei Verdena, per dire che… “comunque vada, sono dei vostri…”. Alla fine non ha demeritato nemmeno un po’ e s’è giocato l’occasione onestamente, lasciando appena trapelare l’emozione di esibirsi praticamente in casa (è di Pisa), davanti al pubblico ancora in via di formazione delle 18.30 ma che già aveva nelle corde qualcosa più de La nostra ultima canzone. La somiglianza con Vasco Brondi è invece un aspetto che emerge maggiormente lasciando qualche perplessità, con le attenuanti che A) troppo poco il tempo a sua disposizione per esprimersi nella maniera più congeniale, e B) l’ingresso della Sammarelli al basso può significare che la fase è interlocutoria e quindi lascia il tempo che trova, ma la sostanza indietalica del personaggio risplende genuina e fragorosa verso un orizzonte avviato al tramonto che annuncia una serata quantomeno incandescente.
Sotto quello stesso tramonto gli Sleaford Mods si ritrovano a tu per tu con Perry Farrell e Dave Navarro, dopo la collaborazione per So Trendy nell’ultimo “UK Grim” di un anno e mezzo fa. Anche per loro lo spazio/tempo è ridotto ai canonici tre quarti d’ora, e possibilmente senza fronzoli. La sensazione, così come l’anno scorso al TOdays, è che le “ristrettezze” imposte dalla macchina festivaliera renda loro più semplice lo svolgimento del compitino, perché questo fanno ormai da tempo. Il fatto di aver messo lì un po’ a sorpresa una West End Girls (Pet Shop Boys) tutto sommato simpatica, come unica novità di rilievo in mezzo alle solite smorfie di Jason Williamson e al solito dimenarsi intermittente e senza troppa convinzione da parte di Andrew Fearn, tra una Jolly Fucker, una Jobseeker e una Tweet Tweet Tweet riproposte “punto e a capo” come sempre, non li solleva dalla responsabilità di doversi inventare qualcosa di diverso e più stimolante per il futuro, perché altrimenti il giochino può anche finire qui.
I Dinosaur Jr. invece fanno a fettine il concetto ludico vacanziero del festival con le svisate di feedback di cui è capace J Mascis, come sempre impassibile davanti a tutto e tutti e soprattutto davanti al suo reparto di Marshall testata e cassa schierati a paravento alle sue spalle, che ribalterebbero un cavallo mentre la sua chitarra stride e ulula friggendo l’udito dei più temerari vicino al palco. Loro sì che non si sono posti il problema di dilatare il set oltre i tempi consentiti ma, prima di essere tirati giù con ancora qualche canzone da suonare, hanno fatto in tempo a chiudere con Freak Scene e Just Like Heaven, alimentando quella vaga sensazione di Lollapalooza anni ’90 che più di qualcuno portava con sé come auspicio.
Alle 22.30 arriva finalmente il momento dei Jane’s Addiction e tutto il pregresso delle ore precedenti è azzerato: il 65enne Perry Farrell arriva per ultimo sfoggiando una maschera indefinibile e pur tuttavia molto elegante – borderline lo è sempre stato ma elegante solo dopo la maturità – mentre Navarro, il più atteso di tutti, si presenta truccato in volto come Brandon Lee in “The Crow”. La sua presenza in questo tour è stata in dubbio fino all’ultimo per mai chiariti problemi di salute, per cui il suo ingresso è stato accolto con sollievo dal pubblico che se l’è adorato e coccolato come del resto ha fatto anche Perry Farrell, nei suoi lunghi intermezzi di chiacchiera “a vanvera” durante il concerto, lodando inoltre la luna, le stelle, l’estate e le good vibrations… La cosa davvero sorprendente però è che i Jane’s Addiction sono in splendida forma come band, al netto della loro età che impone una minore fisicità rispetto a quando ribaltavano lo stage a furia di capriole. Vero che per sostenere i vocalizzi più spinti e penetranti Farrell si affida all’aiutino tecnologico ma va bene anche così, l’importante è che Eric Avery e Stephen Perkins sostengono senza artifici un baraccone ritmico impressionante, anzi letteralmente mostruoso, col Navarro che da par suo ricama fedelmente le sue volontà compiacendo e compiacendosi dell’essere un gran chitarrista. Lampi di potenza esplosiva hanno abbagliato il festival nei momenti più pirotecnici (Ain't No Right, Pigs And Zen, i super classici Stop e Been Caught Stealing), pathos e brividi lungo la schiena invece l’hanno imbrigliato nei momenti in cui l’emozione è salita alle stelle (Jane Says, Three Days, Mountain Song…). E il ricordo dei loro concerti lontanissimi nel tempo evapora definitivamente di fronte a questo spettacolo di perfezione che ha tenuto il pubblico in costante sospensione, nel dubbio che possano essere questi i Jane’s Addiction migliori di sempre o che per un’ora e mezza si è avuto l’inestimabile privilegio di rivivere pienamente i nostri vent’anni. Andrea Amadasi


Eric Clapton
Lucca Summer Festival 2024, Antiche mura di Lucca, 2 giugno 2024
Come raccontare il concerto di Eric Clapton a Lucca non risultando scontato? Lui, oggettivamente, è una leggenda, ha raggiunto i 79 anni e suona ancora come un giovane dio greco, il suo repertorio è sconfinato e può eseguire qualunque brano senza risultare banale o superficiale… Quindi? Quindi la cosa migliore credo sia quella di raccontarvi l’emozione di vivere questo concerto in simbiosi con mio figlio. Un giovane uomo di 24 anni, fan sfegatato di Eric, che ha scelto di regalarsi (mi) una Festa della Repubblica con il babbo, immerso in un’atmosfera totalmente boomer.
Tra i 20 mila del parco delle Mura di Lucca, infatti, tra teste bagnate, piccoli ombrelli e altri stratagemmi per ripararsi dalla pioggia insistente (che si è placata solo poco prima dell’inizio del concerto), ben più del 60% aveva i capelli bianchi, pancette rilassate e t-shirt di chiara provenienza seventies. Eric Clapton ha fatto il suo ingresso sul palco alle 20:58, due minuti prima dell’inizio ufficiale. In quel momento io e mio figlio ci siamo guardati in una piccola estasi chimico/musicale. Ho capito subito che quello sarebbe diventato uno dei miei momenti speciali, quelli che segnano la tua vita. Troppe coincidenze, troppi intoppi e troppa bellezza perché questi segni si perdano nella memoria. Un viaggio di due ore in auto a parlare di musica con tuo figlio, un’attesa lunga e bagnata nella quale io ho praticamente sbagliato ogni previsione (non ho preso il giubbotto giusto, non ho portato con me l’ombrello anche se lo avevo dichiarato prima, ho sbagliato anche le scarpe nella convinzione che non poteva piovere) e poi lui, il Dio della chitarra, che apre il concerto con un brano prezioso e raro come Blue Dust, omaggio quanto mai sentito all’amico Jeff Beck. Clapton l’ha eseguito per la prima volta un anno fa e da allora, con un titolo differente, è entrato a far parte della sua scaletta. Un blues strumentale “alla Clapton”, struggente e graffiante, reso ancor più memorabile dall’eterea bellezza dei suoni diffusi nell’etere dai maestri del sound inglesi (non li batte nessuno). Parlando del repertorio possiamo dire che sono stati venti brani per un’ora e mezza esatta. Sono mancati alcuni standard attesi come Layla e I Shoot the Sheriff ma a onor del vero non ne abbiamo sentito la mancanza. Eric ha attinto a piene mani dal repertorio blues classico con brani di Willie Dixon, Bo Diddley e Robert Johnson, ha deliziato il pubblico con una buona mezz’ora di live acustico con l’immancabile Tears in Heaven e ha trascinato tutti con super classici come Crossroad e Cocaine. Una nota a parte la merita il look del nostro uomo di Ripley: viste le basse temperature del giugno lucchese, si è presentato con uno splendido (e molto british) impermeabile blu cobalto, cappellino, foulard, guanti e la super chitarra Fender i cui colori (nero, bianco, verde e rosso) richiamavano inequivocabilmente quelli della bandiera palestinese. Lui stesso nel suo tour book programme 2024 scrive “In questo tour suoniamo dal profondo del nostro cuore per quelli che ci hanno lasciato o sono in procinto di farlo, e specialmente per chi non ha la minima possibilità di difendersi dall’inevitabile”.
In conclusione credo di aver detto nulla di più di quello che ognuno di noi può sapere di Eric Clapton, ma spero sia arrivato l’amore e la meraviglia per la performance di un uomo che ha attraversato il mare tumultuoso della vita, tra successi e leggende, gioie e tragedie, dannazioni e meditazioni. Ma che quando imbraccia la chitarra dimostra ancora che nonostante l’età avanzata, e non nascosta, lo scettro di King of the Blues è ancora il suo. Andrea Laurenzi


Angelica, Festival Internazionale di Musica, 34esimo anno
Teatro San Leonardo, Chiesa di Santa Maria della Pietà, 2-30 maggio 2024
“Parliamo di musica & vita, musica vista dalla vita e vita vista dalla musica”, tuona ancora una volta Massimo Simonini, direttore artistico di Angelica Festival, anche se tutto pare sempre più difficile e complicato col passare del tempo. Eppure ogni anno, e questo trentaquattresimo non fa eccezione, Angelica-momento-maggio ha i suoi highlight, magari diversi per ogni spettatore, ma dove basta esserci. E così, di serata in serata, “Angelicamagika” offre al Teatro San Leonardo (ma con qualche sconfinamento, come vedremo), momenti di stralunata, talvolta imperfetta bellezza: Mariangela Gualtieri che legge passaggi da “Non abbastanza per me” del sempre compianto Stefano Scodanibbio, mentre Livia Rado ne canta per sola voce “At Last”, una delle sue ultime composizioni, e il sempre eccellente Quatuor Bozzini ne esegue alcuni pezzi per quartetto d’archi. E che dire dell’indiavolato ensemble tutto al femminile messo insieme dalla danese (ma di base a Oslo) Signe Emmeluth, che nella prima italiana di “Banshee” sciorina non solo le possibilità del un nuovo avant jazz norvegese, ma la potenza rituale della voce, anzi delle voci, con chiaro riferimento in Banshee alla creatura mitica le cui grida e lamenti stridenti annunciano distruzione, dolore e morte, ribaltandoli però in pura e dirompente forza creativa, certamente la prima bella sorpresa di Angelica 34.
La seconda, annunciata dal suo “Deus Ex Machina” Francesco Paolo Paladino non senza qualche trepidazione, è l’aver portato sul palco del San Leonardo (grazie infinite a Walter Rovere) la mitica Dorothy Moskowitz, ottantaquattrenne in splendida forma che fu parte dei leggendari United States Of America accanto a Joseph Byrd e qui in prima assoluta a prestare la sua ancor voce bellissima e piena di “soul” con gli United States Of Alchemy, fortemente voluti da Francesco Paolo Paladino e dal poeta e scrittore Luca Chino Ferrari, autore dei testi, o per meglio dire delle liriche (assente, ahimé, per problemi di salute), entrambi autori insieme a Dorothy del fortunatissimo “Under An Endless Sky”, finito in molte playlist del 2023 e disco dell’anno per il sottoscritto. Portare dal vivo un tale progetto, realizzato a distanza, ha richiesto una laboriosa residenza di quattro giorni prima del concerto finale, con i musicisti che per il loro impegno val la pena citare uno per uno: Melissa Falarski alla voce, Gino Ape a oboe e xilofono, Pierangelo Pandiscia a liuto, metallofoni e salterio ad arco, Giampaolo Verga al violino, Tiziano Popoli a pianoforte e sintetizzatore, Alessandro Fogar ai synth analogici e digitali, Angelo Contini a trombone, conchiglia e didgeridoo e naturalmente Paladino al computer e alla direzione. Il resto è la voce intensa, accorata e umanissima di Dorothy Moskowitz. Operazione perfettamente riuscita, il che non era scontato, data la complessità dell’insieme: scorrono con fluidità alcuni pezzi nuovi che sembrano anticipare il prossimo album (Embryo Of Life, As I Recall, My Solitude) e altri già noti come The Disappearence Of Fireflies, My Doomsday Serenade e via crescendo in intensità fino a My Last Tear, Under An Endless Sky, per non dire della commozione non più contenibile con Unknown To Ourselves in chiusura, e quel Siamo passeggeri nella notte di un viaggio di sola andata a noi ignoto che echeggia in testa anche dopo, a luci accese, non prima però di un bis da lucciconi, la Cloud Song dei gloriosi United States Of America che ci dondola dolcemente, lasciandoci infine assai felici al canto dei grilli nella notte.
Poche sere dopo la magia si ripete negli spazi sontuosi della Chiesa di Santa Maria della Pietà, dove in “Looping” il Dedalus Ensemble esegue in prima italiana tre storiche composizioni di Brian Eno, in sequenza “Thursday Afternoon”, “Music For Airports” e “Discreet Music”. Anche qui è la bellezza di assumersi il rischio di risuonare musiche costruite su processi generativi e partiture aperte, senza copiarne le versioni pubblicate. In originale erano suoni e strumenti che potevano essere rallen
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