LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI

CCCP – Fedeli alla Linea
Teatro Antico, Taormina ME, 30 luglio 2025
Che adesso sia davvero finita, che queste sette date del tour “Ultima chiamata” abbiano definitivamente chiuso l’imprevedibile “piano quinquennale”, in favore di una solo presunta stabilità, soltanto il tempo ce lo racconterà e di sicuro non passeranno altri quarant’anni. Di voci in direzioni sparse e contrarie ne abbiamo lette e sentite tante, da una parte ammantate di speranza proattiva e dall’altra a mo’ di esorcismo per scongiurare l’ennesimo incubo notturno dell’uomo nero e cattivo. Quisquilie che fanno arredamento e nulla più. Di fatto la data finale di Taormina, all’interno di un luogo così pregno di storia da aggiungere soggezione, ha confermato alla vista quello che i più introdotti nell’ambiente CCCP – Fedeli alla linea hanno sempre saputo, ossia che G. L. Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur hanno vissuto questi mesi e questi ultimi tre anni (che diventano quasi cinque, considerando i lavori per l’allestimento della mostra “Felicitazioni”) in totale empatia, fedeltà e onestà con sé stessi e la loro storia in primis, poi allo stesso modo con le decine di migliaia di persone complessive che da Reggio Emilia a Berlino e a seguire nelle varie città dei due tour ‘24/‘25, li hanno seguiti con affetto ed entusiasmo. Nulla in questo “piano quinquennale” è stato lasciato al caso, è ovvio, ma solo nel momento in cui ogni volta la casualità li ha messi di fronte alla scelta se assecondare sé stessi, la loro indole e la loro voglia di starci dentro (e “troppo presto o troppo tardi” ormai non importa più), oppure lasciar perdere e chi s’è visto s’è visto. Sul palco di Taormina noi abbiamo visto sì tanta stanchezza fisica e mentale da parte loro, ma anche tanta beatitudine che viene da dentro e non inganna. Occhi spesso socchiusi a custodire gelosamente le emozioni oppure sguardi a raggiera a contemplare istanti di meraviglia e sorrisi che nascono dal cuore. Lungo le varie date dell’“Ultima chiamata” avevamo visto però anche un Ferretti tirato a lucido reiterare con mistica soddisfazione l’intuizione della lode a Pier Paolo Pasolini, dopo quelle a Mishima e a Majakovskij, quasi lo intendesse come lascito definitivo all’istinto di quanti tra i più giovani che si assiepavano tra il pubblico. Abbiamo visto (e soprattutto sentito) Zamboni riuscire facilmente a incasinare accordi anche semplici e poi Annarella, con la complicità di Fatur oppure in alternanza, che con la solita incomparabile dedizione ha (ri)messo in scena la rappresentazione estetica dei CCCP “moderni”, ovvero una rappresentazione inevitabilmente meno provocatoria ma ricca di momenti significativamente simbolici. Lo stesso Fatur infine, quel bronzo di Riace che più di tutti ha patito la metamorfosi del tempo e non gli riesce più di turbare il sonno di nessuno, che per simpatia e come antagonista di sé stesso non ha rivali al mondo. Rispetto ai concerti dell’anno scorso dalla scaletta sono uscite Depressione caspica, Conviene e Kebabträume e al loro posto sono entrate Sexi Soviet, A Ja Ijublju SSSR, Trafitto, Mi ami? e Noia e pur tuttavia sono mancati ancora capisaldi come Live in Pankow e Svegliami, che in tantissimi avrebbero cantato a squarciagola sovrastando l’incompatibilità col tempo corrente ma, tornando a Taormina… La magia intrinseca del luogo in cui hanno scelto di chiudere – allo stesso modo dell’Astra Kulturhaus di Berlino, dove avevano riaperto le danze lo scorso anno – aveva inevitabilmente innalzato il livello delle aspettative ma nulla, nemmeno le difficoltà logistiche della trasferta, che ci sono state un po’ per tutti tranne i residenti, avrebbe potuto scalfire le suggestioni prefigurate da chiunque, CCCP – Fedeli alla linea inclusi. Che sulle ali della soddisfazione per essere giunti all’ultimo atto di un traguardo insperato e la leggerezza di chi sa stare sopra qualsiasi giudizio, si sono lasciati trasportare nell’inerzia abbagliante di questo lungo addio che nemmeno loro, in perfetto stile CCCP, sapranno dire oggi quanto davvero sia definitivo. Andrea Amadasi
La Niña
Mosaico Festival, Piazza Armerina, 8 agosto 2025
Nello scenario del centro storico di Piazza Armerina, a due passi dalla splendida cattedrale seicentesca, il concerto che ha visto protagonista La Niña è parso, in certi momenti, una sorta di rito pagano. Non è solo la scrittura dei brani o il modo in cui vengono arrangiati sul palco, quanto piuttosto una vibrazione tellurica - i connotati stranianti del “realismo magico” - a incrinare l’aria di quella Sicilia interna che sembra poggiare ancora sui giacimenti di zolfo e sui mosaici della Villa Romana del Casale. E proprio “Mosaico” si chiama il festival che dal sei al dieci agosto anima il paese in provincia di Enna, contraddistinto da un programma molto interessante e un’organizzazione impeccabile. Privilegiando ovviamente i brani del recente (e acclamatissimo) “Furèsta”, il live di Carola Moccia, Alfredo Maddaluno e la formazione che li accompagna in questo ultimo progetto discografico parla il linguaggio di un folk primordiale e insieme futuristico, mediterraneo e profondamente radicato in un universo che sembra molto più antico del Mediterraneo stesso. Le voci si armonizzano con le altre percuotendo la pelle dei tamburi e il legno delle chitarre, tra recuperi inaspettati (una Salomè fatta di cordame acustico) e riletture commoventi (Era de maggio), fino alla techno ancestrale di Tremm’, alle schegge affilatissime di Guapparìa e all’esplosione della platea su Figlia d' 'a tempesta. Una presenza scenica incredibile, insieme alla bravura di tutte le musiciste e i musicisti coinvolti, rendono l’esperienza così intensa che non c’è bisogno di aggiungere altro. Anzi, un’ultima cosa ci sarebbe: date un occhio alle altre date del tour e correte a prendere i biglietti. Carlo Babando
Dead Ghosts
The MOTH Club, Londra, 05.08.2025
Il MOTH Club, nato come tradizionale circolo per ex militari nei primi anni ‘70 (il nome è l’acronimo di Memorable Order of Tin Hats) è un popolare locale situato ad Hackney, nordest di Londra, dal caratteristico soffitto dorato e dall’intelligente programmazione musicale (grazie ancora per aver organizzato la serata da headliner dei Brainiac un paio di anni fa, a seguito della richiesta dei Mogwai di riformarsi per accompagnarli in tour). La serata propone l’immarcescibile, imperituro, intramontabile garage rock con apertura per i Trip Westerns, interessante quintetto di Brighton le cui radici, ci informa Bandcamp, “affondano nel rock e R&B di metà ventesimo secolo, intrecciate con sferzate di surf e psichedelia e le note twangy tipiche delle colonne sonore degli spaghetti western”. In effetti, ascoltando quanto è attualmente disponibile, la definizione calza a pennello ed è rassicurante sapere che nell’attuale capitale del post-punk inglese (Idles, Ditz, Lambrini Girls, Squid, ecc...) ci sia spazio anche per altre sonorità. Tra gli inediti proposti da “Post-Hunk”, l’album d’esordio atteso per ottobre, spicca la robusta Chiken, che ricorda le memorabili call(s) of the west dei Wall of Voodoo con bell’assolo di armonica del cantante dalla notevole presenza scenica. Le già ben note Free Mind e soprattutto i due personali classici Showdown Shadow e Blame Charlie azzerano ogni concetto di spazio/luogo rimpiazzando le natie spiagge di Brighton con le desertiche dune del Far West, dimostrando come il gruppo abbia ben assimilato la lezione appresa dai fantastici Nude Party, gruppo con cui sono andati in giro per l’Europa nel 2023.
Dopodiché ecco i Dead Ghosts da Vancouver, da quindici anni in giro a predicare il verbo del più sanguigno, delinquenziale e spassoso garage rock (non a caso son considerati la risposta canadese ai Black Lips). Il classico quartetto dei fratelli Wilkinson (Michael alla batteria ed Andrew alla chitarra), Bryan Nicol (voce e chitarra) e Maurizio Chiumento (basso) per l’occasione diviene sestetto con l’aggiunta di tastiera e sax per riproporre al meglio il suono di “Hippie Flippin”, ultimo lavoro uscito l’anno scorso. Il disco, euforico e psichedelico come da titolo programmatico (che si riferisce all’utilizzo contemporaneo di MDMA e funghetti) sembrerebbe aprire nuovi orizzonti musicali alla band: le accattivanti melodie e i testi evocativi, da sempre marchi di fabbrica del gruppo, sono ancora ben presenti ma è evidente la significativa evoluzione del suono che adesso ha una trama ricca, densa e corposa. Le sensazioni positive in arrivo dai dischi vengono pienamente confermate dal vivo tra l’iniziale doorsiana Flower Pot, il medley The Man/Jimmy’s Haze (che dal vivo fa scintille), il soul psichedelico di Headed Home, la rilassata Chill Goover e le notturne Night Fishing e Nice One, entrambe non dissimili dalle atmosfere create dai citati Nude Party. Ovviamente non possono mancare i classici del loro quindicennale repertorio, per cui ecco spensierati rock’n’roll (Hanging in the Alley, Girls across the street, Merle), numeri garage beat sixties (Get back, Cold stare, Summer with Phil) goliardici lo-fi bubblegum pop (When it comes to you) e accenni di rock classico inghiottiti tra riverbero e distorsione (Turn it around e Swiping Hubcaps). La classica Roky Said omaggia il padre putativo Roky Erickson, Tea Swamp Rumble Link Wray e il connazionale Neil Young viene celebrato con la cover di “World on a string”. Il picco arriva grazie al micidiale uno-due al vetriolo, servito spietatamente e senza respiro: l’innodica On Your Own e l'accelerata pietra rotolante (gli Stones sono il gruppo preferito di Bryan) I Can’t Get No, illecitamente sfacciata sin dal titolo, con gli incontenibili eccitati sbuffi del sax che aggiungono ulteriore frenesia invitandoci, qualora ce ne fosse bisogno, ad abbandonarci a contorsioni cercando di convincerci, anche solo per qualche minuto, che i Dead Ghosts sono attualmente il migliore gruppo rock’n’roll del pianeta. Ferruccio Guglia
ESTATE ROMANA NELLE ARENE 2025
Liberato
Circo Massimo, 31 maggio 2025
Fontaines D.C. + Shame
Rock in Roma, 18 giugno 2025
Jamie xx
Auditorium Parco della Musica, 12 luglio 2025
Bill Callahan
Teatro di Ostia Antica, 14 luglio 2025
The Black Keys + Jet
Rock in Roma, 16 luglio 2025
The Smashing Pumpkins
Rock in Roma, 1 agosto 2025
Kendrick Lamar + SZA
Stadio Olimpico, 2 agosto 2025
Tra esplosioni di pompe di benzina, incendi vari e invasioni di scarafaggi volanti (tutto vero), la sonnacchiosa estate concertistica romana, mai così sotto tono come quest’anno forse (per qualità, non tanto per quantità) tra un Lazza e un Nino D’Angelo qualsiasi (e tra una polemica di caro biglietti e l’altra), ha saputo comunque regalare a noi alt-indie-wavers-incalliti qualche perla che non ci siamo lasciati sfuggire.
Anche se siamo sempre stati un po’ diffidenti e cauti sull’operazione commerciale costruita al dettaglio (più che sulla bontà musicale intrinseca), non ci siamo fatti mancare il mega-concertone di Liberato al Circo Massimo (sola e unica data dell’artista napoletano sull’italico suolo nel 2025, poi toccherà a Londra, Parigi e Barcellona) a una sola settimana di distanza dallo scudetto vinto dal Napoli. Se in platea era un giubilo di magliette cerulee griffate McTominay, sul palco Liberato, che dismette la storica felpa nera per mascherarsi in total oro, ha inaspettatamente nicchiato sulla storica vittoria pensando solamente a portare a casa, seriosamente, uno show visivamente coloratissimo e psichedelico (le videoproiezioni, tra AI trashotte e cose più ardite, erano opera del vj dei Chemical Brothers), internazionale diremmo nel suo apparato produttivo, che ovviamente premeva molto sul versante electro-dance, vedendo impegnati anche diversi ballerini sul palco vestiti da sabbipodi. Risultati kitsch-chic che premiano una bella botta sonora e un discreto colpo d’occhio (eravamo in 50.000 circa).
A Capannelle, al Rock in Roma, qualche settimana dopo, ci attendono gli Shame (di solito bravissimi dal vivo) che purtroppo paiono degli scappati di casa (sul palco si dimenano come gli ossessi non capendo la situazione in platea) per demerito di un fonico (non abbiamo capito se il proprio oppure uno trovato lì per lì) che fa di tutto per rendere il suono il peggiore che abbiamo mai sentito ad un concerto (forse insieme a quello dei Modest Mouse a Bologna nel 2010 prima degli Arcade Fire): si sente un po’ di batteria (poco anche quella) e sotto tutto il resto. Per fortuna i Fontaines D.C., gli headliner della serata, danno sfoggio a una grandeur sonora che ormai li sta certificando come i padrini del ‘Rock da Arena’ 3.0. Ovviamente tanta pulizia musicale (che non è un demerito a priori) spazza via del tutto quell’inatteso che dovrebbe essere il sale delle esibizioni dal vivo ma va anche detto che i ragazzi irlandesi palesano in sede live una bontà di scrittura (pop, va detto senza nessuna stimmate) che in pochi hanno nel rock alternativo di questo secondo decennio dei duemila (gli Idles?) e che quindi è un piacere rituale cantare dal vivo, tutti insieme pacificati, gli anthem nati dalla penna di Grian Chatten e soci.
Tre settimane dopo, nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, alle ore 21,30 (posto e orario sbagliatissimo per un party Uk garage, NDA), Jamie xx si fa trovare dietro la consolle e apre le danze (nel vero senso della parola) con i due brani posti anche in apertura del suo ultimo “In Waves”. Jamie spiatta e spippola dietro i piatti per un pubblico hipsterissimo e, coadiuvato da delle videoproiezioni che mostrano in diretta le immagini di noi astanti - filmati in campi medi e lunghi (salvo qualche rara figura intera) - montate sul beat, passa in rassegna quasi tutto il nuovo disco con qualche concessione al primo “In Colour” e nel frattempo (re-)mixa brani altrui (piacionissima Amore Disperato di Nada) non lesinando momenti altamente coatti (come l’imbastardimento techno della sua favolosa Gosh). Tra le perle da segnalare un bel missaggio che dal Micalizzi di Sambamba passa al Tullio de Piscopo di Stop Bajon. Suona bene ma poco (neanche un’ora e mezzo) e la gente (60/70 euro a biglietto) non è proprio contentissima.
Tutt’altro scenario, azzeccatissimo questa volta, per il mostro sacro Bill Callahan che si esibisce nella stupenda cornice del teatro di Ostia antica (la venue più bella di tutta la provincia di Roma), armato della sola telecaster leggermente distorta, di un charleston e di una grancassa a pedale. Una versione ‘monobanda’ di Bill che riesce a schivare il suono degli aerei in atterraggio (siamo a pochi metri dall’aeroporto di Fiumicino), scherzandoci anche su, con la potenza di una logorrea vocale unica, profonda e perentoria, che a tratti fa rizzare i peli creando una magia spaziale (il cielo stellato, gli aerei che passano, le rovine di Ostia,...) e senza tempo (nel senso che Bill è proprio scoordinato e non riesce a tenere il tempo con la sua mini batteria e neanche gli interessa) che è puro tempo mentale e memoriale, acuito dal frinire delle cicale che rendono totalizzante l’esperienza (qualcuno dice che sono loro a dettare il ritmo a Bill). Grande scaletta (da Cold Blooded Old Times a Natural Information) con pezzi spesso stravolti che riconosciamo solo alla fine (Coyote), stile Dylan, e gente adorante in religioso silenzio. Diretto, sporco, anarchico, a suo modo punk (più Smog che Callahan), in una sola parola: poesia.
Torniamo al Rock in Roma, all’ippodromo delle Capannelle, per assaporarci (“finalmente!” direbbero i detrattori del Festival) del sano rock and roll: aprono gli australiani Jet, una tra le one-hit-wonder degli anni 2000 per antonomasia, che dal vivo ci fanno capire che in realtà c’è vita oltre Are You Gonna Be My Girl. Solida, energica e molto garage, la band capitanata da Nic Cester (perfetto italiano viste le origini familiari e visto il fatto che ormai è diventato milanese) passa in rassegna “Get Born” che li consacrò nel 2003 rinverdendo a suon di riff belli tosti delle signore canzoni che si erano perse nella nostra memoria (Cold Hard Bitch o Rollover DJ). Si chiude col Battisti di Un’avventura. Pubblico caldo (c’è pure Lillo prodigo di selfie tra il pubblico, NDA) per accogliere al meglio i Black Keys che esibiscono le prime tre canzoni in duo - tre hit provenienti dai primi album esibite in modo grezzo, rozzo, quasi da rock primordiale - per poi farsi coadiuvare da altri quattro musicisti (basso-chitarra-percussioni-tastiere) per aprire e distendere il loro sound (verso il mainstream massimalista diremmo noi). Che dire? I ragazzi suonano potenti, non si risparmiano, la voce di Ben dal vivo risplende in tutta la sua carica del midwest e la sua chitarra s’infervora in assoli ‘sentiti’ ma non affettati: il blues del delta non è mai stato così infuocato. E poi è festa, una gran festa, quando in chiusura parte quella Lonely Boy che fa cantare anche le staccionate dell’Ippodromo.
Purtroppo, ahinoi, problemi tecnici (con la babysitter) non ci hanno permesso di assistere ai live, al Monk, di Arab Strap e King Hannah (che sono venuti in macchina con noi a vedere Bill Callahan, estasiati, #truestory da raccontare ai nipoti) e soprattutto quello all’Eur Social Park dei Melvins insieme ai Redd Kross,... mentre non ci siamo fatti sfuggire l’operazione alt-nostalgia dell’estate, ovvero il live degli Smashing Pumpkins che, ancora all’Ippodromo di Capannelle per il Rock in Roma, hanno dato vita ad una straordinaria performance all’insegna del volemose bene, ovviamente tra noi alternativi-generici degli anni ‘90. Insieme agli storici James Iha e Jimmy Chamberlin (coadiuvati da una chitarrista e da un bassista supplementari) Billy Corgan è apparso solare e sbarazzino (ovviamente con la consueta tunica nera) come neanche a vent'anni (dove invece si comportava da grunger-maudit) e tra battutine (“portate bene i vostri anni grazie al vino e alle cannette che vi siete fatti!”), zompettare varie, scudisciate varie (Zero, Bullet with Butterfly Wings e Cherub Rock su tutte), momenti da lacrime vere (1979, anche se iniziata stonicchiando) e mirabolanti cover di Take My Breath Away dei Berlin da “what the fuck!”, ha(nno) portato a casa, per la nostra gioia, una scaletta molto Mellon-Collie-centrica (a 30 anni esatti dalla pubblicazione!) che ci ha fatto cantare a squarciagola anche se gli acuti di Billy non erano esattamente più quelli di un tempo (ma quando fa il crooner di razza fa rizzare ancora i capelli col suo tono unico). Emozionante.
Se a vedere Billy e compagni è stato appannaggio quasi totalmente (purtroppo) della generazione x (con piccoli strascichi millennial), la sera dopo all’Olimpico i Millennials si sono allegramente abbracciati alla gen Z grazie all’artista che li ha messi tutti d’accordo: vale a dire quel Kendrick Lamar che Roma brama sin dal 2020, l’anno in cui il suo (primo) live nella capitale fu (ovviamente) cancellato. Kendrick è (più che) accompagnato per la serata da SZA, la regina del trap-pop-r’n’b più massimalista che ci sia, e i due si alternano al microfono ogni quattro/cinque pezzi cantati per uno, per poi unirsi spesso e volentieri in molti brani. Nello show ovviamente hanno regnato i fuochi d’artificio (veri e propri), balletti ammiccanti e pirotecnici allestiti da una ventina di ballerini, automobili che salivano e scendevano dal “palcoscenico” (che definire tale è riduttivo), scalinate enormi che si aprivano dietro a dei mega led wall, luci in cielo in stile batman, videoproiezioni che dire cinematografiche è dire poco e tanto altro ancora che neanche ci ricordiamo. Trashata epica? Americanata senza fine? Cringiata dalle dimensioni bibliche? Dite quello che vi pare, ma una cosa così in Italia è più unica che rara. La musica? Protagonista o meno che sia stata della serata poco importa (N.B.: ovviamente erano tutte ‘basi’ musicali che Kendrick è bravissimo a gestire al microfono - anche se la scaletta per noi poco amanti dell’ultimo disco e dei pezzi del dissing non ci è venuta incontro - mentre SZA, brava eh, ammorba se non amate il camp-pop più becero): quello che conta alla fine è che abbiamo assistito ad un “Halftime-Show” da Super Bowl di quasi 3 (!) ore che, molto probabilmente, non vedremo mai più nella nostra vita. Per intenderci - se ci siete stati - è un po’ come la sensazione che si prova visitando Las Vegas. Marco Giappichini
Jorja Smith
Sequoie Music Park, Bologna, 6 luglio 2025
Il concerto di Jorja Smith è stata una bella sorpresa nel cartellone estivo della rassegna Sequoie Music Park di Bologna, che anche questa estate ha messo insieme un mucchio di date interessanti spaziando tra generi e nomi molti diversi. La location, bucolica ma non troppo lontana dal centro cittadino, ha dalla sua una gestione degli spazi e un’accoglienza che la rendono ormai un punto di riferimento della programmazione musicale bolognese. Certo, per un sold out annunciato come nel caso dei Fontaines D.C. o di Lucio Corsi, ci sono inevitabilmente anche appuntamenti meno affollati, ma probabilmente è proprio questo “equilibrio” che ha permesso di portare in Italia un nome interessante (e non così famoso dalle nostre parti) come Jorja. Scenografia sul palco identica a quella usata per la recente performance a Glastonbury, l’intero live si è sviluppato mostrando quanto la sua cifra stilistica sia impossibile da incasellare in un genere che vada oltre la definizione – troppo vaga – di contemporary r&b. L’approccio autoriale con il quale soul e pop incrociano suggestioni clubbing e strizzate d’occhio alla storia dell’house e del cosiddetto “UK Garage”, negli ultimi anni sono diventate le coordinate principali di un percorso che ha visto l’artista inglese smarcarsi dalle derive troppo commerciali in cui rischiava di finire. Da tutto ciò ne risulta circa un’ora e mezzo di concerto durante il quale, senza troppi fuochi d’artificio ma con una sincerità e una voce incredibili, si susseguono classici come Blue Lights, Teenage Fantasy e Falling Or Flying, insieme a versioni altrettanto ammalianti di Burn, Addicted e GO GO GO. Chiusura, sotto una pioggia leggera, con un set più danzereccio introdotto da Be Honest, dopo cui non poteva mancare una Little Things che fa letteralmente esplodere tutta la platea. Carlo Babando
MeShell Ndegeocello
Casa Del Jazz, Roma, 10 luglio 2025
L’ascesa, lo stardom – le collaborazioni diffuse con Madonna, suo mentore originario – la caduta ed infine una nuova vi(t)a artistica. Una resurrezione griffata Don Was (oggi presidente della Blue Note), che ha voluto fortemente la bassista/compositrice tra i suoi ranghi, portando la stessa MeShell a conquistare due Grammy consecutivi con gli album “The Omnichord Real Book” e il più recente tributo ad uno dei più grandi poeti della tradizione afro-americana in “James Baldwin No More Water: The Gospel Of James Baldwin”. Proprio quest’ultimo lavoro rappresenta il corpo della sua performance romana, parzialmente aggiornata rispetto all’uscita dello scorso anno nella medesima location. La formazione è più stringata, solo 5 elementi in campo, con il sodale vocalist Justin Hicks e il fenomenale batterista e percussionista Abraham Rounds (che in duo con l’organista Jake Sherman avrebbe aperto il concerto con una corroborante salsa neo-soul) a tenere le redini del gioco. È un’esibizione quasi in punta di piedi, una sofisticata ricostruzione dei canoni jazz/r&b contemporanei con il pathos di chi ha sfiorato il baratro per poi risorgere, ancor più forte dei suoi stessi demoni. Tra originali pazzeschi – l’ammiccante Trouble, vero e proprio manifesto di un nuovo intellettualismo black, le numerose incarnazioni del Baldwin Manifesto e la dichiarazione d’intenti suffragata da Another Country – e una mirabolante cover (tradizione conclamata nei loro live) di Uhuru Sasa a firma Gary Bartz, il concerto scorre miracolosamente con l’intento di unificare corpo e mente, nei giorni bui dell’amministrazione Trump. Musica benefica, tonificante per l’anima. Luca Collepiccolo
Neil Young & the Chrome Hearts
SparkassenPark, Mönchengladbach, 4 luglio 2025
L’attesa durata anni e anni si consuma in un afoso pomeriggio tedesco. Lo SparkassenPark è un’arena multifunzionale a due passi dallo stadio del Borussia Mönchengladbach, pensata appositamente per i concerti e gli eventi sportivi. Qui alle otto di sera in punto, con il sole ancora alto nel cielo, si presenta Neil Young con la sua nuova formazione, i Chrome Hearts, con cui quest’anno ha pubblicato “Talkin To The Trees”, l’ennesimo album di una carriera infinita. Un disco dal quale non verrà riproposta neppure una canzone. Non so cosa aspettarmi dal vecchio Neil, ottanta primavere il prossimo novembre. Mi basta soltanto essere qui, di fronte al Mito. Un mito inossidabile. L’attacco è con “Ambulance Blues”, da “On The Beach”, e ogni dubbio viene dissipato all’istante. Segue un brano ancor più leggendario, “Cowgirl In The Sand”. La voce, quella voce, è ancora intatta, le chitarre bruciano e si intuisce subito il motivo per cui il rocker canadese abbia deciso di farsi accompagnare da una band di musicisti più giovani che ricordano in tutto e per tutto i Crazy Horse degli anni ruggenti. Precisi, potenti, senza fronzoli, seguono Young con versioni torrenziali di brani di per sé lunghissimi su disco. Un occhio all’orologio: venticinque minuti sono già volati via e la band ha eseguito solo due pezzi. Sarà così per tutto il concerto. Rock elettrico ed elettrizzante con le chitarre al limite della saturazione in primissimo piano. La magia di “Cinnamon Girl” è ancora lì, così come la potenza di “Fuckin’ Up”. Poi, quando i Chrome Hearts si defilano per un attimo, la scena è solo per Young e per la sua chitarra acustica. Quando attacca “The Needle And The Damage Done” riesci ancora a sentire il dolore per la perdita dell’amico e compagno Danny Ray Whitten, nonostante siano trascorsi cinquantatré anni. Mentre in “Harvest Moon” a emergere è il Neil Young più pacificato. Con i Chrome Hearts di nuovo sul palco l’elettricità torna a tagliare l’aria, prima con “Sun Green”, poi con una “Love To Burn” lunghissima e tellurica. È bello guardarsi attorno e notare come tra le ventimila persone accorse a salutare il canadese non ci siano solo i reduci della sua generazione, la Woodstock Nation, ma anche i loro figli e nipoti. Ragazzi che vibrano quando l’armonica segna le note di “Heart Of Gold”, ultimo pezzo in scaletta scritto e suonato quando molti di loro non erano nati e forse neppure i loro genitori. Dopo quasi due ore senza una pausa, una chiacchiera, un ammiccamento al pubblico, Young e la sua band salutano e se ne vanno. Rientreranno qualche istante dopo per un solo bis, che non può che essere “Hey Hey My My (Into The Black)”: versione infuocata e chiusura perfetta per un concerto indimenticabile. Il vecchio Neil è ancora in grandissima forma. Roberto Calabrò
“LARS Festival”, XII Edizione
Chiusi (SI), 4/5/6 luglio 2025
Esiste in Italia un festival di musica internazionale di ricerca indie-wave, gratuito, migliore di questo? Forse, su questo terreno, se la possono giocare ormai solo il Beaches Brew di Marina di Ravenna e il Lars Festival di Chiusi. Nato in una terra ai margini dell’impero - quella Valdichiana che paradossalmente ha dato i natali (oltre alla rivista che state leggendo!) a quello che fu a mani basse il festival gratuito più importante d’Europa, Arezzo Wave (ricordato con rimpianto sul palco anche da Geoff Farina) e a uno dei più apprezzati degli ultimi anni, vale a dire il Live Rock Festival di Acquaviva (ahinoi in piena deriva trappara…) - il Lars è ormai giunto alla dodicesima edizione, quella più compiuta e cosmopolita della sua storia, dopo una costruzione paziente operata dai suoi bravissimi organizzatori che l’ha visto crescere di anno in anno.
Aprono le danze, il 4 luglio, i Cucamaras da Nottingham, band giovanissima ancora in attesa di un LP ufficiale, che è il prototipo del post-punk sbarazzino e senza fronzoli (di qualità) che sta imperversando ormai da anni in terra d’Albione: il loro è uno show frizzantino e ancora acerbo (vedi un’ubriachissima cover di Wonderwall a mo’ di presa per il culo del contemporaneo debutto degli Oasis a Cardiff) ma che, forse proprio per questo, porta con sé una freschezza pura e un divertimento sano e contagioso. Le canzoni ci sono, aspettiamo con ansia il vero debutto discografico. Più scafati e anagraficamente più maturi gli Italia 90 da Londra, che sciorinano un riff-o-rama chitarristico tra alternative e post-punk, tensivo e bello denso che monta piano piano e che vede il suo climax nel catartico ritornello della conclusiva Competition: un quarto d’ora di allucinante scalata dark-noisy contro il sistema capitalistico. Capolavoro! Insieme a SIB, il direttore della presente rivista, e all’imprescindibile firma Fabio Polvani, accorsi per l’occasione, ci siamo goduti il live conclusivo della prima giornata dei McLusky anche se siamo stati un quarto d’ora buono a bestemmiare all’unisono [io no, ndd.] per il suono troppo basso della chitarra di Andy "Falco" Falkous. Aggiustato il tutto con l’intervento dei fonici, ci siamo goduti appieno il feroce show del trio dei vecchiardi di Cardiff, eccezionale per il tiro sempre lesto e per una scaletta che ha premiato l’ultimo “The World Is Still Here And So Are We” (tra i dischi dell’anno) e l'immarcescibile capolavoro “...Do Dallas” (2002). Lacrime e pogo sulla penultima Whoyouknow. Lunga vita ai McLusky!
Perso lo showcase mattutino di Joseph Arthur in pieno centro storico di Chiusi (che ci dicono essere stato molto apprezzato), per il secondo giorno sul palco principale, tra un olezzo di chianina alla brace e uno di salsiccia arrosto (si mangia ottimamente al Lars!) ci attendono Lostatobrado, giovanissimo trio nato a Bologna che gioca con synth e laptop e scolpisce un sound elettronico ballabile ma meditativo: electro-cantautorato un po’ alla Jacopo Incani, molto interessante e accattivante che introduce al meglio la vera bombetta della tre giorni di festival: gli australiani Party Dozen. Veri e propri animali da combattimento che la rivista che state leggendo caldeggia da tempo (diciamolo con un pizzico di compiacimento), i due di Sydney sono una gioia per le orecchie e per gli occhi grazie ad uno show coloratissimo che prevede un basso fuzz (purtroppo pre-registrato e non esibito live, unica mancanza della resa dal vivo) inseguito come un ossesso dalla pestifera e muscolare batteria di Jonathan Boulet (cose che neanche i Don Caballero…) e dal sax luciferino di Kirsty Tickle, che di tanto in tanto grufola dentro lo stesso sax cose del tutto inintelligibili. Il risultato, tra funkcore, jazz, dance e punk è devastante e a dir poco adrenalinico: io, fossi stato anche i Rage Against The Machine ai bei tempi, mi sarei guardato bene da calcare quel palcoscenico dopo questo concentrato esplosivo… e infatti, purtroppo, i Black Country, New Road, non sono proprio stati (prevedibilmente) all’altezza della situazione. Amiamo molto il combo inglese: i primi due dischi con Isaac Wood sono devastanti e anche i due successivi non sono affatto male, ma la resa live sembra quella di un saggio musicale delle medie: ognuno pensa a suonare bene per sé il proprio strumento, a testa bassa, e non si preoccupa minimamente del collettivo, che infatti pare privo di cemento e amalgama. Ora, credo che non tutti siano stati scontenti della performance, specie chi è arrivato solo per vedere loro, ma assicuriamo chi legge che difficilmente in vita nostra abbiamo assistito a un concerto così scolastico e financo didascalico. Evabbè.
Di tutt’altra pasta pur avendo una strumentazione simile (sono in sei/sette sul palco, con fiati, synth, viole e ammennicoli vari, come i BCNR), i veterani Heliocentrics, collettivo inglese nato intorno al maestro Mulatu Astatke, originano, in apertura dell’ultima serata, un live magnetico e sdrucciolevole tra trip hop, jazzcore, balcanismi assortiti, kraut rock, psichedelia, avanguardia e classica, condito dai gesti dada e dall’istrionismo hard-blues vocale della cantante anglo-slovacca Barbora Patkova, una sciamana, un po’ hipster, dei nostri tempi. Bomba ieratica guidata da un Malcom Catto che si nasconde con gli occhialoni scuri dietro la sua batteria afrobeat. Chiudono questa fantastica edizione del Lars i redivivi Karate da Boston, pietre miliari dell’indie-rock anni ‘90 (virato slowcore). L’indole del power-trio capitanato da Geoff Farina è jazz-blues e dal vivo la cosa è abbastanza palese: tutto gira intorno a quei giri (scusate), il sound è potente ma scarnificato e ridotto all’osso, c’è un'economia di suono che fa spavento e l’emozione (tra arpeggi, assolo e i powerchord del leader) è cercata in modo diretto anche grazie a quel cantato tipico, tra il parlato e la stonatura, che ti arriva letteralmente dentro. Arte povera basso-chitarra-batteria insomma, che poi è l’essenza di tutto. Less is more. Evviva i Karate ed evviva le gocce di pioggia (finalmente!) che iniziano a scendere copiose subito dopo l'ultima nota di The Same Stars. Lassù qualcuno ama il Lars. E noi con Lui! Marco Giappichini
Escape-ism
674FM, Colonia, 29 giugno 2025
Per il secondo anno consecutivo l’emittente radiofonica colognese 674FM ha il merito di organizzare nella sua sala concerti una data del tour europeo degli Escape-ism. Questa volta però lo fa con un buon battage promozionale, flyer e manifesti tappezzano ogni angolo della città e la risposta del pubblico è più che soddisfacente nonostante il caldo asfissiante, che diventerà infernale nel seminterrato in cui si tiene lo show. In apertura ci sono Mark Spark & The Sharks, un’ottima formazione locale di cui con ogni probabilità torneremo a parlare sulle pagine di “Blow Up”: il quintetto accende gli animi con un’incandescente miscela di garage, punk e rock’n’roll.
Poi è la volta degli Escape-ism. Ian Svenonius e la bassista Sandi Denton, sua nuova compagna in questa avventura, si presentano sul palco in completo blu borchiato. Simpatico e gigione come al solito, Svenonius saluta e si mette a dialogare con il pubblico sfoggiando anche qualche parola in tedesco. Poi gli Escape-ism attaccano a suonare e sin dalle prime note è chiaro il concetto che informa questa ennesima incarnazione del folletto underground americano: una versione minimale, scarnificata, ridotta all’osso del rock’n’roll. Pur senza rinunciare al groove. La batteria elettronica e il basso, anch’esso minimale, della Denton forniscono all’istrionico Ian il tappeto ritmico per lanciarsi nei suoi sermoni (“Do you wanna know my story?”), per alternare sussurri, grida, schitarrate e mosse da navigato entertainer, per coinvolgere il pubblico nel singalong in episodi come "Rebel Outlaw", "Rock 'N' Roll Man", "Black Gold" - tutti provenienti dall’ultima prova discografica "Charge Of The Love Brigade" - o "(I Was Born With A) Woman's Intuition". Il pubblico risponde con calore ed entusiasmo a uno show in cui emergono più di ogni cosa il carisma dell’artista di Washington DC, la sua simpatia e capacità di intrattenere. Quando, dopo un’ora circa, lo show volge al termine tutti escono dalla venue sotterranea a riprendere fiato all’aria aperta. Con il sorriso stampato sul volto. Roberto Calabrò
Osees
Electric Ballroom, Londra, 13 giugno 2025
Ad un anno di distanza tornano i californiani Osees all’Electric Ballroom, nel cuore di Camden Town. A guardar bene non è cambiato assolutamente nulla. Immutato è l’assetto bellico con i batteristi Paul Quattrone e Dan Rincon vicinissimi l'un l'altro e piazzati al centro di fronte al pubblico, il leader John Dwyer (voce, chitarra e tastiere) a sinistra, Tim Hellman (basso) a destra e defilato dietro Tomas Dolas (tastiere). L’immancabile canotta e i pantaloncini borgogna sfoggiati da John sembrerebbero esser gli stessi indossati lo scorso agosto sul medesimo palco e in effetti mi sorprenderebbe il contrario, dato che da oltre due decenni gli Osees sono tra i migliori interpreti di certe sonorità malsane e sudicie, lerce e insalubri. luride e settiche, che con l'igiene hanno poco a che vedere…
Nella trentina di dischi pubblicati con sigle dalle varianti ortografiche (OCS, The Ohsees, The Oh Sees, Thee Oh Sees, Oh Sees, Osees) “giusto per sbeffeggiare chi si lamenta della nostra iperproduttività”, mi confesserà John a fine concerto, hanno (mal)trattato diversi generi musicali riuscendo sempre a conferirgli una ben riconoscibile propria identità. Il giro di basso e i venti cosmici della tastiera introducono Withered Hand, che apre la serata con taglienti e secchi inserti di chitarra (che per qualche attimo omaggia il Bernard Sumner joydivisiano), a ruota sulla stessa scia Ticklish Warrior e poi il classico garage di Toe Cutter/Thumb Buster. John, da neolitico guerriero, brandisce lo strumento come fosse un’arma da combattimento e parte Animated Violence, con magistrale tour de force dei batteristi che continueranno la loro missione di incessante martellamento nelle successive meraviglie freak kraut The Dream/The Daily Heavy, quest’ultima con tanto di irresistibili demenziali sillabari. Come di consuetudine, la percussiva Chem Farmer preannuncia l’arrivo di Nite Expo, dove l’elettronica kraut si sposa felicemente con l’hardcore, il garage, il noise e quant’altro: letteralmente fantastica. Seguono due fulminanti pillole hardcore (Funeral Solution, alla Black Flag, e A Foul Form, alla Dead Kennedys), due classici garage rock (Tidal Wave e I Come From The Mountain), la new wave alla Devo di Intercepted Message e l’inaudita ferocia di Scramble Suit II, con le sue accelerazioni schizoidi e psicopatiche. A If I Had My Way seguono la cavalcata psych kraut Encrypted Bounce, cavallo di battaglia dei live, e la turbolenta Rogue Planet. Dopo un’oretta al fulmicotone, i suoni dilatati e lisergici di Sticky Hulk concedono benvenuti attimi di tregua con elucubrazione al synth di John in versione corriere cosmico che, recuperata la necessaria energia, si spolmona con i successivi synth punk urlanti di Blimp e Drug City, con il microfono che a un certo punto va giù per la trachea che neanche Linda Lovelace in “Gola Profonda”. Seguono il psych kraut di Web, gli sguaiati garage rock di Tunnel Time e Gelatinous Cube e la meravigliosa C, che rallenta il ritmo e omaggia i Fall grazie ad un passaggio preso in prestito da Eat Yourself Fitter. Si conclude con un inedito che, vista la produttività ai limiti dell’incontinenza, sicuramente sarà dietro l’angolo.
Conclusione: serata violentemente esplosiva con volume tellurico ai limiti del masochismo. Ne usciamo fuori letteralmente asfaltati dall’intenso rullo compressore feroce, implacabile e spietato guidato dall’inarrestabile propulsione della sezione ritmica che va con precisione metronomica e da sola varrebbe il biglietto di entrata. Aggiungete l’energetica presenza scenica di John (encomiabile quantità di sputi e sudori inclusa) e il suo particolare modo di violentare la chitarra tra maniacale precisione chirurgica e vigorosi efferati freakout ed avete una delle migliori live band in circolazione, dove il constante e arrembante attacco sonoro all’arma bianca, apparentemente caotico, è accuratamente e dettagliatamente programmato, ordinato ed eseguito alla perfezione. OK John, se non ci estinguiamo prima a causa dell’idiozia umana, ci si vede fra dodici mesi per l’annuale animalesca aggressione alla mia soglia uditiva. Sì, consideratemi pure oseessionato. Ferruccio Guglia
Massive Attack
Medimex, Taranto, 21 giugno 2025
Manca qualche minuto a mezzanotte. È appena finito il live dei Massive Attack, andato sold out in pochi giorni. Il pubblico sta lasciando la piazza. In ordine. In silenzio. Abbiamo assistito a qualcosa di unico. Di emotivamente forte.
Siamo al Medimex di Taranto, che anche quest’anno si conferma un evento musicale internazionale ben organizzato e ospitale. Parteciparvi è sempre un piacere. Attorno ai live c’è un ricco programma di eventi collaterali: dj set, incontri, mostre. Quest’anno il MArTA - Museo Archeologico nazionale di Taranto, ospita la splendida mostra fotografica di Charles Moriarty su Amy Winehouse. Le foto di Moriarty risalgono al periodo dell'album Frank, e mostrano una Winehouse giovane e sempre sorridente. Uno stridente contrasto con le teste di medusa ospitate al piano superiore del museo. Un presagio?
Ma torniamo al concerto. La serata dei Massive è aperta dal live di Dada e dall'esibizione dei Kyoto, progetto di Roberta Russo che a Taranto si presenta per la prima volta come gruppo portando un set energico, ben dosato e coinvolgente. Da tenere d'occhio.
Ma siamo tutti in attesa dei Massive. Con loro si entra in una dimensione ibrida della performance artistica, che difficilmente possiamo inquadrare nella categoria “concerto”. È qualcosa che va oltre. È molto più vicina al teatro contemporaneo o alle grandi operazioni d'arte. I Massive Attack non si limitano a suonare (eccelsi sul piano musicale) ma mettono in scena un vero e proprio spettacolo con una ricerca, una narrazione ed una regia di cui la musica è solo un elemento. Parte fondamentale è affidata ai video, flusso di filmati, cut-up che fanno da pilastro e tolgono il fiato. Raccontano il nostro presente distopico e anestetizzante. Sui maxi-schermi scorrono immagini, dati e informazioni importanti, intermezzati da gossip e non notizie. Proprio quello che troviamo quando scrolliamo la home di un social.
Ad esempio, su “Take it There” siamo sovrastati da una montagna su cui si muovono dei bambini. Alcuni stanno scavando. Altri portano sacchi carichi di terra fino in cima alla collina. Se provano a riposarsi vengono redarguiti dai guardiani. Non sono consentite pause in questo lavoro. Siamo in Africa ed esattamente nella Repubblica Democratica del Congo, in una miniera dove questi bambini (ripeto: bambini) scavano per estrarre minerali, in prevalenza cobalto e litio, per i nostri apparecchi elettrici, ossia smarphone, computer e batterie varie. È tutto lì. Davanti ai nostri occhi. Non è un film. E mentre Robert “3D” Del Naja canta la parte che su disco è affidata a Tricky, le scritte ci comunicano che questi minerali sono ciò di cui è fatto il mondo virtuale. E che per questi minerali sono in corso continue guerre, minimizzate alle nostre latitudini, che ad oggi contano quattro milioni di morti. Quando al canto si affianca “Daddy G” Marshall, dalle miniere si è già passati ad immagini di guerriglia in Africa. È tutta così la perfomance. Un continuo flusso d'immagini. Appare tutta l'idiozia di Trump, l'epopea criminale di Netanyahu, la guerra in Ucraina, gli esperimenti di Elon Musk, i complotti. Tutto questo alternato a immagini prese da trasmissioni televisive, filmini (forse) di vacanze, intrattenimento vario. È tutto perfetto. Perché niente di quello che vedi basta da solo a shockarti, ma è l’insieme di immagini e accostamenti che si insinua nella tua testa, canzone dopo canzone. È quando lo rielabori a fine concerto che viene fuori l’inquietudine. Quella vera.
Su Girl I Love You compaiono sugli schermi tanti volti in fototessera. Il pubblico di Taranto si riconosce e sorride, come se fosse un gioco. Poi però ci pensi e ti rendi conto che con un programma d'identificazione facciale in un istante si possono identificare centinaia di persone nella folla, senza sbavature e con precisione. Inquietante.
Ad accompagnare 3D e Daddy G ci sono anche Horace Andy (da brividi nell'incessante “love you love you love you” di Angel) Deborah Miller (su Unfinished Sympathy la piazza è esplosa in un boato!) e la magistrale Elizabeth Frazer che, oltre a cantare il classico Teardrop che tutti aspettavamo e altre perle tra cui la bellissima Black Milk, ci ha regalato una chicca che mi ha lasciato senza parole: Song to the Siren in versione This Mortal Coil.
All'uscita del concerto ci siamo tutti chiesti: ma è questo il mondo che stiamo vivendo? Davvero siamo così narcotizzati?
La risposta è arrivata tornando in albergo, quando mi sono riconesso ai media per scoprire che Trump, indossando un imbarazzante cappellino da baseball rosso, aveva appena bombardato l'Iran su suggerimento di Netanyahu. Ecco perché quello dei Massive Attack non è un concerto, ma è un'opera che parla del nostro (assurdo) presente in epoca social. Massimo Lovisco
“La Prima Estate”
Parco Bussola Domani, Lido di Camaiore (LU), 20/21 giugno 2025
A qualcuno piace, a due passi dal mare della Versilia, sdraiarsi all’ombra della vegetazione oppure stare in piedi, con lo sguardo mellifluo rivolto al palco sotto il sole del tramonto. Piace l’atmosfera “zero stress” che da sempre pervade “La Prima Estate”, forse l’unico festival al mondo in cui dall’afflusso al deflusso tutto è alla portata di tutti e senza affanni – che poi quel “qualcuno” in realtà sono svariate migliaia di persone e qualche grattacapo da gestire sarebbe nell’ordine delle cose, salvo rare eccezioni. Piace soprattutto, e come sempre, la proposta musicale incentrata sulla qualità e varietà degli artisti e non sull’abbondanza, perché non manchino quei momenti cosiddetti morti (i cambi palco) in cui godersi la compagnia delle persone, cioè gli sguardi che si incontrano e il suono delle parole che girano intorno. In tutto questo – che visto da fuori pare fin troppo idilliaco e in effetti lo è – i primi a salire su quel palco alle 18.30 di venerdì sono i Tare, un quartetto di coraggiosi vicentini venuti (forse) a beneficiare di visibilità sapendo di suonare in una situazione non propriamente ideale, perché il loro urban jazz futuristico è intrinsecamente destinato ad “ambienti” più circoscritti o comunque contesti meno dispersivi di quello in cui, per forza di cose, si trovano a suonare. In ogni caso è grazie a loro (e agli emergenti del sabato, Le Nora e Prima Stanza a Destra) che si è potuta apprezzare una bella sventagliata di gioventù promettente e più o meno in controtendenza rispetto all’andazzo tutt’altro che esaltante. A proposito di controtendenza, anche il dinamismo degli Yard Act e in particolare del carismatico cantante James Smith lo è stato, sul palco di questi giorni iniziali de “La Prima Estate”, giacché di gioviale ed energica prestanza muscolare abbelliscono il loro “saperci stare dentro” scuotendo il pubblico all’ora dello spritz. Dopo la pubblicazione di “Where's My Utopia?” si confermano in crescita anche dal vivo dimostrando, vivaddio, che può ancora esistere un senso estetico apprezzabile anche a quel genere lì, quello “sfigato” che inizia con la parola “post” e si può coniugare con punk, funk e tanto divertimento.
Dopo di loro arrivano gli Spiritualized ed è una storia completamente diversa. Jason Pierce (“J. Spaceman” per i più attempati) appare in forma invidiabile alla soglia degli ormai sessant’anni ma lo sguardo, con tutte le inquietudini esistenziali di bordo, è nascosto dietro le lenti scure dei Ray-Ban. Dunque l’emozione di guardare negli occhi uno di quelli la cui musica è stata fondamentale compagna di vita rimane strozzata nel limbo, ma l’attesa di vedere gli Spiritualized dal vivo, o per molti dei presenti di rivedere, è stata ampiamente ripagata da un concerto massiccio e liftato allo stesso tempo, con poco spazio per la nostalgia dei primi due dischi (Shine a Light però è da brividi lungo la schiena), e tuttavia liquidare trent’anni e passa di musica quasi sempre di ottimo livello in un’ora di concerto (o poco più) non è cosa semplice per nessuno. Infatti i Mogwai, in chiusura del venerdì, hanno pensato bene di esaltarsi ed esaltare tutti riproducendo in larghissima parte il saliscendi umorale di “The Bad Fire”, che pure rasenta il capolavoro intervallando qua e là con schegge di passato anche remoto tipo la pachidermica (e a suo modo estenuante) Mogwai Fear Satan. Stuart Braithwaite e sodali sono ormai come una vecchia banda di amici che si ritrovano ciclicamente per fare il casino che sanno fare, e la cosa sorprendente è che rimangono sempre enormi, imponenti e godibilissimi.
Il sabato ad aprire il lotto degli headliner sono i Calibro 35 e con un pizzico di rammarico occorre dire che il mega palco e la loro eccessiva compostezza scenica non hanno stimolato un reale coinvolgimento del pubblico. Li si conosce e li si apprezza più spavaldi (e coinvolti pure loro) in altri contesti e, nonostante il flusso di suono sempre molto sincero ed evocativo, questo non era esattamente il loro habitat. Al contrario lo è stato invece ampiamente di St. Vincent, ovvero Annie Clark (e la sua band), che si è letteralmente impossessata del festival infiammandolo d’entusiasmo con uno show molto fisico ed energico, anche se poi la spettacolarizzazione visiva, con ampio assortimento di rituali talvolta anche abbastanza tamarri, ha finito per prevalere sull’interesse per la sua musica. Altra storia ancora sono stati gli Air, a loro volta garanzia di successo per chiudere la serata in grande stile. Senza eccepire sul fatto che con spavalderia e furbizia portano in giro lo stesso identico show da molti anni – che pure è intriso di romanticismo ed elucubrazioni vintage ormai assimilate in tutte le sue sfumature, dagli effetti scenici al fatto che la prima parte è tutta incentrata su “Moon Safari” mentre il resto lo fanno sui soliti altri pezzi selezionati e arrangiati accuratamente per non uscire dalle righe – conta che tutto funzioni ancora a meraviglia e il lasciarsi rapire e trasportare lontano dal magnetismo onirico della Kelly Watch The Stars di turno, per dirne una che le rappresenta tutte, rimane ancora una bella suggestione. Andrea Amadasi
Gruff Rhys
The Boileroom, Guildford, 11 giugno 2025
Vi ricordate dei gallesi Super Furry Animals? Inseriti erroneamente dalla pigra ed ottusa stampa dell’epoca nel calderone Britpop (termine che personalmente detesto ma che utilizzo in questa sede giusto per intenderci), erano lontani mille miglia dall’arroganza alcaloide e dai puerili battibecchi da cortile dei ben più celebrati coetanei, Il loro personalissimo miscuglio di psichedelia, folk, sunshine-pop (ed escursioni techno!) ha prodotto dei veri e propri intramontabili classici caleidoscopici. Ho sempre ammirato il loro leader, Gruff Rhys, formidabile paroliere e abile narratore, per l’eccentricità geneticamente gallese e la sorprendente eclettica creatività. Qualità tutte presenti in modo esponenziale nei lavori da solista che, affiancate alle straordinarie capacità compositive, di diritto lo innalzano a forza nell’olimpo dei grandissimi e inarrivabili songwriter di sempre, a un passo dai padri putativi Brian Wilson, Ray Davies and Lee Hazlewood. Esagero? Be’, ascoltatevi attentamente gli otto album finora pubblicati a suo nome e poi ne riparliamo. Uno di questi è “American Interior” uscito nel 2014, un concept album che narra l’odissea dell’esploratore e cartografo gallese John Evans, presunto antenato di Gruff, che nel 1792 partì per l’America in cerca di una fittizia tribù di lingua gallese discendente dal principe Madoc. Accompagnato dal pupazzo dell’avo, Gruff ripercorse i luoghi esplorati secoli addietro da John, avventurandosi in un “investigative concert tour” esibendosi dal vivo in luoghi a dir poco insoliti, riserve indiane e bordelli inclusi, narrando l'avventura americana del ricercatore John, aiutato da una presentazione in power point! Dell'ambizioso progetto venne fuori il concept album, un documentario, un libro e pure un’app! Per celebrare la recente ristampa del disco, Gruff ha pensato di narrare nuovamente le peripezie del mitologico John nell’inesplorato entroterra americano, per cui, dopo averlo lasciato al Barbican Hall nel 2018 ai tempi di “Babelsberg” accompagnato dalla London Contemporary Orchestra, lo ritrovo solo soletto nell’intimità del Boileroom con chitarra elettroacustica “a cheap Spanish guitar… made in Sweden”, 2 microfoni, un metronomo, un foot drum, il pupazzo di John, un laptop e soprattutto umorismo a iosa.
Le note di Powerpoint Presentation (uno degli inediti presenti nella ristampa uscita di recente per la Rough Trade) introducono l’arrivo sul palco di Gruff che, nonostante la temperatura elevata che giustifica in pieno il nome del locale, sfoggia pantaloni e giacca di velluto stile massarotto campagnolo con l’immancabile cappellino a visiera da cui fuoriescono le folte chiome brizzolate. Dopo aver introdotto il tema della serata ci abbandona per una decina di minuti in cui assistiamo alla proiezione del servizio televisivo “Prince Madoc and the Welsh Indian”, trasmesso da chissà quale emittente negli anni Settanta, per poi ritornare e intrattenerci per un’oretta e mezza durante la quale, da consumato affabulatore, ci racconta cronologicamente le storiella, alternando la narrazione verbale, corroborata dalla proiezione di diapositive, con canzoni a tema tratte del suo vasto repertorio. Tra l’iniziale American Interior, Iolo, Walk into the Darkness, Liberty, Last Conquistador, Lost Tribe e la conclusiva 100 Unread Messages, tutte tratte dal concept citato poc’anzi, trovano posto Bad Friend, Shark Ridden Waters, Frontier Man, Pang e If We Were Words (We Would Rhyme). La serata è piacevolissima grazie all’arguzia umoristica e grottesca di Gruff, che riesce a tenere ininterrottamente alta l’attenzione del pubblico, invitando pure uno spettatore sul palco a reinterpretare un momento tragicomico della vicenda e, a metà serata, tirando fuori il pupazzo di John Evans tra l’ovazione del pubblico. Dal punto di vista strettamente musicale, visto l’assetto, non c'è ovviamente spazio per il curatissimo e lussureggiante pop orchestrale che caratterizza la sua produzione solista, ma la tipica malinconica euforia, marchio di fabbrica di Gruff, ci sta tutta. Le traversie dell’ingenuo esploratore terminano tragicamente: dopo essersi reso conto che la fittizia diaspora non esiste, muore prematuramente all'età di 29 anni nelle paludi di New Orleans rendendosi conto che forse tutta la sua vita non è stata altro che un’illusione, e Gruff chiosa comunicandoci che “seguendo l’insolita storia di John Evans mi sono reso conto come le fake news possono avere conseguenze profonde ed imprevedibili nella vita reale”, una constatazione che nella sciagurata epoca in cui viviamo risuona come una pillola di saggezza oltre che un’inconfutabile verità. Ferruccio Guglia
Alan Sparhawk
Largo Venue, Roma, 03 giugno 2025
Elaborare il lutto, esorcizzare la perdita. Per chi ha vissuto un’intera esistenza al fianco della propria compagna e ‘partner in crime’ musicale un esercizio improbo. Gettare il cuore oltre l’ostacolo: dopo la scomparsa di Mimi Parker Alan Sparhawk esce addirittura fuori dal seminato, pubblicando un disco solista – “White Roses, My God”, esemplare già nel titolo – che ammicca ad un’indietronica sui generis con tanto di vocoder. Estratti di quel disco aprono proprio la performance, ma non è questo il ruolo che meglio si addice al nostro, intento a saltellare su basi triggherate. Ricompostosi e imbracciata l’elettrica con due nuovi accompagnatori a basso e batteria, mette mano a brani dal nuovo disco in collaborazione con gli alternative-folksters Trampled By Turtles, riabbracciando qui suoni con cui ha costruito un impero, almeno musicale. All’intersezione tra americana e slo-core (genere che i Low hanno contribuito a definire), riportando in auge anche un paio di brani del vecchio progetto collaterale Retribution Gospel Choir, Sparhawk ci introduce a un rituale pagano, in un afflato comune che rema anche contro le onde avverse del destino. La sua penna rimane finissima, ma le sue canzoni sono laceranti, impossibile non immaginare nell’ombra la sagoma della vocalist/percussionista che con lui ha scritto pagine indimenticabili della nuova America. Luca Collepiccolo
Split System
Maschinerie, Dortmund, 10 giugno 2025
Ha ancora senso vedere un concerto punk nel 2025? Sì, se si tratta di uno dei migliori gruppi australiani dell’ultimo lustro. O, per meglio dire, di un “supergruppo”: negli Split System troviamo, infatti, alcuni dei giovani musicisti che stanno mettendo sottosopra l’underground dei nostri antipodi come il cantante Jackson Reid Briggs (andate a recuperare i dischi firmati a suo nome con gli Heaters), l’iperattivo chitarrista Arron Mawson (coinvolto pure nei micidiali Stiff Richards e Doe St., nonché titolare dell’etichetta Legless), il bassista Deon Slaviero (già The Black Heart Death Cult), il barbuto chitarrista Ryan Webb (anche negli Speed Week) e il batterista Mitch McGregor (ex Low Fly Incline).
Spazio autogestito da un collettivo, il Maschinerie si trova in una zona industriale verso la fine del porto fluviale di Dortmund e si rivela il posto perfetto per ospitare una tappa del tour europeo del quintetto di Melbourne. L’aria è umida per la recente pioggia e la vicinanza al canale, ma gli Split System ci mettono un attimo a riscaldarla attaccando subito con “The Wheel”, uno dei brani migliori del loro eccellente “Vol. II”.
Da lì per i successivi tre quarti d’ora non daranno tregua al centinaio di presenti, entusiasti punk-rocker di tutte le età, passando in rassegna i pezzi sparsi tra i loro due album e gli innumerevoli singoli fin qui pubblicati. La sezione ritmica pompa a pieno regime, le chitarre ruggiscono e dialogano tra di loro svelando brillanti geometrie, mentre Briggs non sta fermo un attimo e colpisce con la sua voce al vetriolo. Presenza scenica e un cantante all’altezza: è quello che fa la differenza in un gruppo punk. In più gli Split System hanno le canzoni: l’aggressiva “Chemicals” (dall’ultimo singolo split condiviso con i francesi Les Lullies), le ipercinetiche “Run On” e “Hold It”, per non dire di quella “Alone Again” che con il suo perfetto equilibrio di melodia e abrasività è già diventata un piccolo classico dell’Aussie rock contemporaneo. Dopo tre quarti d’ora è tutto già finito: come ogni punk band che si rispetti gli Split System bruciano in fretta, vanno dritti al sodo e non si perdono in chiacchiere. Il loro concerto è un’esplosione di energia. Che i presenti non scorderanno facilmente. Roberto Calabrò
“Jazz Is Dead 2025”
Bunker, Torino, 30 maggio > 2 giugno 2025
Coerentemente a quell’idea meravigliosa di musica trasversale che sottintende esplorazione senza confini per chi la crea e scoperta continua di nuovi paesaggi per chi l’ascolta, si è chiuso in maniera speciale un ciclo per Jazz Is Dead “così come lo conosciamo”, parafrasando le parole pronunciate dal deus ex machina Alessandro Gambo dopo i rituali ringraziamenti e prima dell’ultimo concerto in programma, quello dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. Un ciclo in crescita esponenziale fino all’edizione numero “8”, che richiama e duetta col concetto di “infinito” facendo ben sperare per il tempo a venire, perché di situazioni così, forse è superfluo ripeterlo ma se serve come incitamento non ci si tira indietro, deve rifarsi il mondo. Col rammarico di non aver potuto assistere (su tutto) al minimalismo ieratico e concentrico dei Necks, il primo giorno, e il set di Bug tre giorni avanti, raccontato altrove come qualcosa di devastante, dalle due giornate centrali il verbo di Alabaster De Plume si erge su tutto e su tutti. Il suo modo di rappresentare l’anima del festival, come un’entità sciamanica calata sul far della sera (di domenica) nel cuore del JID, sventolando con orgoglio una bandiera palestinese e quasi implorando, sull’importanza del senso di comunità e del coinvolgimento corale, &egra
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