LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Alan Sparhawk, foto di Luca Collepiccolo]

Alan Sparhawk
Largo Venue, Roma, 03 giugno 2025
Elaborare il lutto, esorcizzare la perdita. Per chi ha vissuto un’intera esistenza al fianco della propria compagna e ‘partner in crime’ musicale un esercizio improbo. Gettare il cuore oltre l’ostacolo: dopo la scomparsa di Mimi Parker Alan Sparhawk esce addirittura fuori dal seminato, pubblicando un disco solista – “White Roses, My God”, esemplare già nel titolo – che ammicca ad un’indietronica sui generis con tanto di vocoder. Estratti di quel disco aprono proprio la performance, ma non è questo il ruolo che meglio si addice al nostro, intento a saltellare su basi triggherate. Ricompostosi e imbracciata l’elettrica con due nuovi accompagnatori a basso e batteria, mette mano a brani dal nuovo disco in collaborazione con gli alternative-folksters Trampled By Turtles, riabbracciando qui suoni con cui ha costruito un impero, almeno musicale. All’intersezione tra americana e slo-core (genere che i Low hanno contribuito a definire), riportando in auge anche un paio di brani del vecchio progetto collaterale Retribution Gospel Choir, Sparhawk ci introduce a un rituale pagano, in un afflato comune che rema anche contro le onde avverse del destino. La sua penna rimane finissima, ma le sue canzoni sono laceranti, impossibile non immaginare nell’ombra la sagoma della vocalist/percussionista che con lui ha scritto pagine indimenticabili della nuova America. Luca Collepiccolo


Split System
Maschinerie, Dortmund, 10 giugno 2025
Ha ancora senso vedere un concerto punk nel 2025? Sì, se si tratta di uno dei migliori gruppi australiani dell’ultimo lustro. O, per meglio dire, di un “supergruppo”: negli Split System troviamo, infatti, alcuni dei giovani musicisti che stanno mettendo sottosopra l’underground dei nostri antipodi come il cantante Jackson Reid Briggs (andate a recuperare i dischi firmati a suo nome con gli Heaters), l’iperattivo chitarrista Arron Mawson (coinvolto pure nei micidiali Stiff Richards e Doe St., nonché titolare dell’etichetta Legless), il bassista Deon Slaviero (già The Black Heart Death Cult), il barbuto chitarrista Ryan Webb (anche negli Speed Week) e il batterista Mitch McGregor (ex Low Fly Incline).
Spazio autogestito da un collettivo, il Maschinerie si trova in una zona industriale verso la fine del porto fluviale di Dortmund e si rivela il posto perfetto per ospitare una tappa del tour europeo del quintetto di Melbourne. L’aria è umida per la recente pioggia e la vicinanza al canale, ma gli Split System ci mettono un attimo a riscaldarla attaccando subito con “The Wheel”, uno dei brani migliori del loro eccellente “Vol. II”.
Da lì per i successivi tre quarti d’ora non daranno tregua al centinaio di presenti, entusiasti punk-rocker di tutte le età, passando in rassegna i pezzi sparsi tra i loro due album e gli innumerevoli singoli fin qui pubblicati. La sezione ritmica pompa a pieno regime, le chitarre ruggiscono e dialogano tra di loro svelando brillanti geometrie, mentre Briggs non sta fermo un attimo e colpisce con la sua voce al vetriolo. Presenza scenica e un cantante all’altezza: è quello che fa la differenza in un gruppo punk. In più gli Split System hanno le canzoni: l’aggressiva “Chemicals” (dall’ultimo singolo split condiviso con i francesi Les Lullies), le ipercinetiche “Run On” e “Hold It”, per non dire di quella “Alone Again” che con il suo perfetto equilibrio di melodia e abrasività è già diventata un piccolo classico dell’Aussie rock contemporaneo. Dopo tre quarti d’ora è tutto già finito: come ogni punk band che si rispetti gli Split System bruciano in fretta, vanno dritti al sodo e non si perdono in chiacchiere. Il loro concerto è un’esplosione di energia. Che i presenti non scorderanno facilmente. Roberto Calabrò


“Jazz Is Dead 2025”
Bunker, Torino, 30 maggio > 2 giugno 2025
Coerentemente a quell’idea meravigliosa di musica trasversale che sottintende esplorazione senza confini per chi la crea e scoperta continua di nuovi paesaggi per chi l’ascolta, si è chiuso in maniera speciale un ciclo per Jazz Is Dead “così come lo conosciamo”, parafrasando le parole pronunciate dal deus ex machina Alessandro Gambo dopo i rituali ringraziamenti e prima dell’ultimo concerto in programma, quello dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. Un ciclo in crescita esponenziale fino all’edizione numero “8”, che richiama e duetta col concetto di “infinito” facendo ben sperare per il tempo a venire, perché di situazioni così, forse è superfluo ripeterlo ma se serve come incitamento non ci si tira indietro, deve rifarsi il mondo. Col rammarico di non aver potuto assistere (su tutto) al minimalismo ieratico e concentrico dei Necks, il primo giorno, e il set di Bug tre giorni avanti, raccontato altrove come qualcosa di devastante, dalle due giornate centrali il verbo di Alabaster De Plume si erge su tutto e su tutti. Il suo modo di rappresentare l’anima del festival, come un’entità sciamanica calata sul far della sera (di domenica) nel cuore del JID, sventolando con orgoglio una bandiera palestinese e quasi implorando, sull’importanza del senso di comunità e del coinvolgimento corale, è stato totale e quindi molto emozionante. Per un’oretta quasi è sembrato di stare altrove, in un tempo aperto punteggiato dai poeti della beat generation e colorato di musiche ed anime sensibili per tanta spiritualità espressa non solo a parole ma anche in musica, con quel sax scorbutico che ti mette con le spalle al muro a contemplarne le bizze vigorose e pur tuttavia vellutate. La Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp invece è un caso a sé non solo e non tanto per il JID quanto per tutto il panorama musicale contemporaneo: l’idea di andare per concerti in quattordici elementi è diabolica già alla fonte – l’allestimento del palco è durato probabilmente più del concerto stesso – pertanto dal combo di Ginevra non ci si poteva attendere altro che schizofrenia pura e irrefrenabile. Dentro il loro patchwork sonoro si trova veramente di tutto ma suona sempre giocoso anche se ad altissima tensione, poi la profusione di luci colorate che li ha accompagnati per tutto il tempo ha reso la festa ancora più esplosiva. Coinvolgente è stato anche il set di Andi Toma dei Mouse on Mars con la cantante nonché attivista iraniana/kurda Hani Mojtahedi, per una collaborazione a nome Hjirok e un disco all’attivo pubblicato nel 2024. IDM e melodie orientaleggianti che si fondono e confondono i confini mentali pregressi allo stesso modo di un altro duo, quello composto da Matthew Herbert insieme alla batterista e cantante Momoko Gill, che nel preserale del sabato avevano catturato la giusta attenzione scongiurando l’acquazzone che il cielo stava meditando da qualche momento (che poi ha scaricato puntuale il giorno seguente alla stessa ora). E poi ancora il soul e r'n'b suonato con maestria dai torinesi Funk Shui Project con alla voce il siciliano-capoverdiano Johnny Marsiglia e la comparsata casalinga di Willie Peyote in un paio di canzoni, i loop minimalisti, atavici e ipnotici di Oren Ambarchi con il progetto Ghosted insieme a Johan Berthling e Andreas Werliin (ovvero basso e batteria dei Fire!) e il tanto che ancora rimaneva ma era impossibile da seguire tutto. Perché sì, con tantissima (e qualitativamente esuberante) carne al fuoco era doveroso e fisiologico mollare la presa di tanto in tanto, come un rito personale e purificatorio dentro al rito collettivo pulsante di vita che è stato e confidiamo continuerà ad essere il Jazz Is Dead. Andrea Amadasi


Angelica Festival 35
Bologna,Teatro San Leonardo, Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Momento maggio 2025
Tra poco questo giornale compirà trent’anni e Angelica ha appena festeggiato il suo 35esimo compleanno! Credo di essermi perso soltanto la prima edizione, anche se la mia memoria comincia a vacillare. E dunque credo sia davvero tempo di ringraziare chi questo festival internazionale di musica, meglio momento maggio, (anche se ormai con le sue appendici autunnali, il quartier generale del Teatro San Leonardo pulsa di suoni, visioni e vita per gran parte dell’anno) l’ha fortemente ideato, voluto, con ostinazione pur tra mille difficoltà. A partire dal suo compianto fondatore Mario Zanzani, passando per lo storico direttore artistico Massimo Simonini e tutti i suoi appassionati non meno storici collaboratori, che per una volta vorrei provare a citare almeno in parte: da Walter Rovere per le scelte sempre attente e coraggiose, al tecnico del suono Gianluca Turrini, dal fotografo ufficiale Massimo Golfieri, all’ufficio stampa curato quest’anno da Leonardo Cianfanelli e Andrea Sbaragli e poi Elisabetta Beddini, Silvia Tarozzi con il piccolo coro Angelico, Fabrizio Gilardino e Luca Vitali e quanti altri dimentico. Ogni sera qui ad Angelica c’è un mondo diverso chiosa ad un certo punto un sempre “angelico” Massimo Simonini, e come dargli torto? Basti dare un occhio al cartellone, aperto con gran fervore da due vecchie conoscenze come Charlemagne Palestine e Rhys Chatham. Inutile dire che i due si conoscono fin dalla fine dei ’60, ma pur abitando entrambi a New York all’epoca, hanno iniziato a suonare insieme soltanto in anni più recenti, nello studio di Charlemagne a Bruxelles. La prima assoluta che han portato ad Angelica con il solito estroso titolo TWO forrrr AngelicA , muove col passo lento e fluente di un minimalismo più estatico del solito (a tratti un po’ sonnambulo). Sul palco pianoforte, organo elettrico e i pupazzi di pelouche (va da sé) per Charlemagne, flauti e chitarra elettrica e qualche lieve squarcio di elettronica per Chatham. Qualche sera dopo al Teatro Comunale Pavarotti- Freni di Modena, Rhys Chatham darà invece sfogo al suo proverbiale massimalismo minimalista (l’ossimoro non è propriamente mio) con A Secret Rose composizione per 33 chitarre elettriche, basso elettrico e un Jonathan Kane che abbiamo già conosciuto con la fragorosa Forever Blues Band di La Monte Young, alla batteria. Quattro file di chitarristi e Chatham di spalle a dirigerne l’orchestrazione, per quattro movimenti: Prelude, Intro, Adagio, G33. Trattandosi di una prima in questo caso, pur essendo una composizione scritta nel lontano 1989, non mancano momenti di calo di tensione, ma l’emotività si accende nella seconda parte, con l’assalto avant rock del Guitar For Trio, un drone sonoro che satura lo spazio, dove è possibile leggere nello sguardo estasiato di tanti giovani chitarristi, il trasporto verso un maestro di quel genere, che ha fatto scuola fin dai giorni del Kitchen e di una “No New York” infuocata.
Attesissima anche la prima assoluta del rumeno Iancu Dumitrescu e del suo Hyperion International Ensemble, l’oggi ottantenne artefice dell’”iperspettralismo” ancora una volta non concede sconti, tra vuoti e pieni, di una musica radicale che rompe ogni convenzione, avanguardia compresa. La sua è una furia che irrompe, attanaglia e disturba per oltre due ore, ed è potente e radiante per quanto complessa, come la filosofia Husserliana a cui si ispira. Ai lati gli assi portanti della batteria e percussioni di Chris Cutler e Simone Beneventi, nel mezzo una pletora di strumentisti (tra gli altri Tim Hodgkinson al clarinetto basso) che paiono diretti da un’instancabile ed ineffabile Dumitrescu, girato di spalle e autentico maestro dell’apocalisse. Il tredici maggio è di nuovo Charlemagne Palestine a effondere i suoi armonici dentro la Basilica di Santa Maria dei Servi, per una apposita interpretazione su quell’organo a canne ormai mitologico, di “Schlingen Blängen” una delle sue storiche composizioni per organo, non prima però di averci illuminato per qualche minuto, con il canto del suo tipico falsetto, memore dei trascorsi giovanili in sinagoga, a metà via tra salmodie ebraiche e mantra indiani. Uno degli highlight di Angelica 35, pur nella sua brevità. Momenti felici anche con il trio free di William Parker, Ava Mendoza e Hamid Drake. Circular Pyramid è l’intersezione tra le corde elettriche sporcate di blues e noise di Ava Mendoza, quelle più acustiche di Parker al contrabbasso e ad un meraviglioso strumento etnico che ricorda una kora, oltre a suonare il shakuhachi, mentre alle percussioni un sempre formidabile Hamid Drake, set che cresce sempre più in intensità, verso un finale spiritual jazz con Drake che intona il mantra di Padmasambhava, che pare un omaggio all’amico di una vita, Don Cherry, quello di “Brown Rice” soprattutto. Fulminei e furenti anche i brevi set di Pat Thomas, figura sempre più di culto ormai, che affianca al piano l’ipercinetico turntablism di Mariam Rezaei, dove si bruciano generi e confini, oltre l’elettroacustica, l’hip hop e il free jazz, puro eccitamento sensoriale piuttosto. Come un perturbante Peter Ablinger tra flauti glissati e ultrasonici, sparati a frequenze altissime e al limite dell’assordante, con la sua voce cantata o soffiata dentro le bottiglie, mentre poco dopo un rinnovato e splendente Rafael Toral distende i toni con la sua elettrica e un theremin, a volare alto tra corde e pedali nel suo “Spectral Evolution”, tra i live dell’anno senza dubbio. Qualche riserva invece per il polacco Waclaw Zimpel, al clarinetto ed elettronica, con il suo peraltro simpatico gruppo in odor di raga, con un efflorescente Giridhar Udupa al ghatam, ma il gruppo appare un po’ sconnesso e il canto raga di Zimpel non è propriamente efficace. Tante cose insomma ad Angelica e ciò di cui non racconto è perché semplicemente me lo sono perso, come ogni anno accade del resto, con grande rammarico per il “Nine Bells” di Tom Johnson, opera ardita e complessa per nove campane e un percussionista, portata sul palco da Simone Beneventi. Gino Dal Soler


Blowers + S.U.G.A.R.
Bumann & Sohn, Colonia, 29 maggio 2025
Uno split 10 pollici condiviso con i berlinesi S.U.G.A.R. su etichetta Alien Snatch! spinge gli australiani Blowers ad affrontare un tour europeo in compagnia del gruppo tedesco. Apre la formazione di Melbourne e ci mette un po’ a carburare, solo dalla terza canzone in scaletta sembra che il quartetto abbia finalmente oliato gli ingranaggi. Rispetto ai dischi, in cui il garage estremo dei Blowers viene passato attraverso il filtro distorto di band come Retards o Spits, appare evidente una caratteristica che le prove su vinile hanno fin qui camuffato e che solo l’ultimo lavoro, “Blowmania”, ha iniziato a mettere in luce, ovvero una vena melodica pop punk. Un pezzo come “Wasted On My Own”, sparato a metà set, è lì a dimostrarlo. Il gruppo pesca a piene mani dai tre album e, in assenza di una tastiera che ne sottolinei la matrice synth-punk, è appunto quella più bubblegum a emergere. Tra una corda di chitarra saltata all’improvviso, qualche battuta scambiata con il pubblico in prima fila, il concerto scorre via veloce senza però dare mai l’impressione di decollare.
Poi è la volta degli S.U.G.A.R. che per me sono una totale novità, non avendo mai avuto modo di ascoltarli né di vederli dal vivo prima d’ora. Il terzetto di Berlino attacca con veemenza e nei primi pezzi dà l’impressione di surclassare i compagni di etichetta. Il loro punk rock è duro ed efficace, a tratti con influenze alla Mötorhead, e gli astanti, ora più numerosi, sembrano apprezzare. Alla lunga, però, la formula risulta piuttosto monotona, anche se in certi frangenti il guitar-sound mostra addirittura venature metal. Last but not least, un’osservazione sul pubblico composto, per una volta, prevalentemente da trentenni. Come già sperimentato con i Chats, è la conferma che queste nuove band hanno un seguito proprio che finalmente prescinde dalla vecchia guardia. E questa, a conti fatti, è la nota più positiva dell’intera serata. Roberto Calabrò


Vibravoid
Blue Shell, Colonia, 24 maggio 2025
Poche band possono definirsi realmente psichedeliche. I tedeschi Vibravoid fanno parte di questa ristretta cerchia. Dal vivo al Blue Shell di Colonia per una serata-happening intitolata “Creamcheese”, come il club underground di Düsselforf in attività tra il 1967 e il 1978, la formazione guidata da Chris Koch ci ricorda cosa voglia dire esattamente psichedelia ovvero “allargare lo spazio della coscienza”. Droghe lisergiche a parte, quando il terzetto attacca con “Tomorrow Never Knows” dei Beatles inizia un viaggio che durerà quasi due ore con il light show parte integrante dell’evento. Suoni e luci che si fondono per creare un’atmosfera che cambia in continuazione: dalla forma canzone a sonorità più sostenute e ballabili, che non a caso infiammano il pubblico, passando per ripetizioni kraut fino a episodi totalmente sperimentali dove appare in scena anche un piccolo theremin.
A più riprese si materializza il fantasma dei Pink Floyd barrettiani, ma non sarà l’unica influenza marcatamente Sixties a emergere dal set. Verso metà ecco arrivare la cover di “In A Gadda Da Vida” degli Iron Butterfly, con tanto di assolo di batteria, e anche l’acidissima “No Silver Bird” dei Creation. Alcuni brani sono nuovi di zecca, una sorta di test dal vivo per “The Power Of Dreams”, il nuovo album in uscita tra qualche mese, altri fanno parte da tempo del repertorio Vibravoid come l’ipercinetica “World Of Pain”, l’avvolgente “Get To You” (che apre l’ultimo LP “We Cannot Awake”) e lo space rock della classica "Ballspeaker”. Tra il pubblico si notano reduci della stagione psichedelica di fine anni Sessanta, probabilmente frequentatori abituali del Creamcheese all’epoca: acconciature, abbigliamento ed entusiasmo sono immutati. Quando sembra che il concerto stia per terminare, si alza forte la richiesta di bis, così i Vibravoid omaggiano l’idolo Barrett con una bella versione di “Astronomy Domine” per chiudere poi con il trip stellare di un altro classico del gruppo, quella “Your Mind Is At Ease” che da sola vale il prezzo del biglietto. Roberto Calabrò


Salone Internazionale del Libro di Torino
Lingotto, Torino, 15-19 maggio 2024
Dato che il Salone del Libro sta diventando ogni anno che passa un evento sempre più mainstream, a cui si va perché si deve andare e perché a Torino il Salone del Mobile e la Settimana della Moda non li abbiamo, sembra essere diventato quasi un obbligo morale passare almeno uno dei due giorni del weekend pigiati nella folla per sentirsi così parte del Grande Evento. Che poi al Salone del Libro ci siano anche i libri – e un sacco di persone che scrivono libri o parlano di libri – per molti dei visitatori sembra essere un fatto secondario.
La sensazione è che forma e contenuto del Salone stiano divergendo, e laddove l’aspetto organizzativo è in netto miglioramento rispetto alla scorsa edizione e il numero dei visitatori è sempre in crescita, tutto ciò che riguarda gli ospiti e gli eventi sembra essere un po’ sottotono, o quantomeno non all’altezza. Ma procediamo con ordine.
Mai come quest’anno gli ingressi sono stati scorrevoli: le code chilometriche a cui si era abituati sembrano un lontano ricordo, anche perché il 94% dei biglietti sono stati venduti online, rendendo la procedura di accesso più rapida. Che nel capoluogo piemontese siano tutti diventati più smart è però soltanto un’illusione, perché la differenza sostanziale tra l’acquisto di un biglietto online (15 euro) o nella biglietteria fisica del Salone (22 euro), ha incentivato anche i più reticenti a capire come fare il biglietto tramite smartphone (viene da pensare che la sola strada per la Digitalizzazione Totale sia la coercizione).
Rispetto a dieci anni fa i prezzi sono raddoppiati, anche se, come riporta «La Stampa», secondo alcuni visitatori si tratterebbe di un prezzo equo per “una giornata di cultura”. Tralasciando il fatto che, se per fare cultura bastasse allestire banchetti con sopra dei libri per 137mila metri quadri allora la crisi dell’editoria sarebbe ormai risolta da un pezzo, pare ci si dimentichi che al Salone del Libro si vada anche per acquistare dei libri, cosa non facile per una famiglia, magari con due figli, magari venuta da fuori Torino, magari senza i biglietti acquistati online e senza pranzo al sacco (i prezzi delle aree ristoro interne sono anch’essi salatissimi), che si ritroverebbe a spendere 150 euro senza aver comprato nulla.
Il Salone è diventato sempre di più l’evento per l’evento: una grande festa per cui tutti sembrano tremendamente eccitati, ma per chi si aspetta di partecipare a una manifestazione culturale è come ricevere un pacco regalo grande e colorato, che una volta scartato si rivela una delusione. Chessò, un portachiavi. Un portachiavi molto piccolo e pure un po’ bruttarello.
Gli scrittori italiani invitati sono sempre gli stessi: Bignardi, Carrisi, Di Pietrantonio, Scurati, Veronesi. A stupire non è tanto il fatto che più passano gli anni e tra Soliti Stronzi e Venerabili Maestri di Brillanti Promesse ce ne siano (se ce ne sono) sempre di meno, ma che, al Salone del Libro, gli ospiti che chiamano maggior pubblico con i libri non abbiano niente a che fare.
Perciò, ancora una volta, mentre i romanzi restano ignorati sui banchetti degli espositori, i fan aspettano pazientemente in coda (anche tutto il giorno) per un disegnetto di Zerocalcare, una foto con Salmo, Ligabue, Ornella Vanoni o Antonello Venditti, oppure pascolano annoiati – sperando, con un po’ di fortuna, di incrociare Toni Servillo – finché non è arrivata l’ora di trasferirsi nell’Auditorium per una puntata live dei podcast (o delle conferenze-podcast) di Alessandro Barbero, Stefano Nazzi, Cecilia Sala o Francesco Costa. E i libri?
Certo, i giornali titolano: “La Gen Z è la più appassionata: i ragazzi trainano le vendite”, dimenticandosi di aver scritto tre mesi fa “Allarme editoria, crollo delle vendite: un milione di copie vendute in meno”, senza considerare poi che a trainare le vendite sono quasi soltanto le ragazze fan del romance (di fatto libri Harmony dalle tinte hard per adolescenti in piena tempesta ormonale), gli unici libri che in Italia davvero vendono ma che non ci sentiamo di definire oggetti culturali: acquistare I detective selvaggi di Roberto Bolano o Il fabbricante di lacrime di Erin Doom non è proprio la stessa cosa, ma non è questa la sede per discuterne.
Purtroppo, anche l’offerta internazionale è un po’ insipida: Joel Dicker è ormai un habitué, e si gode il bagno di folla nonostante le molte critiche ricevute dal suo ultimo romanzo (La catastrofica visita allo zoo), Emmanuel Carrère ritorna per presentare Portnoy di Philip Roth i cui diritti sono stati acquistati da Adelphi, e con lui tornano anche Mircea Cartarescu e Michael Bible.
Gli ospiti più interessanti che abbiamo ascoltato sono stati Kohei Saito, filosofo giapponese che nel Capitale nell’Antropocene propone una lettura marxista della crisi ecologica, Colwill Brown, scrittrice inglese al folgorante esordio con Noi bei pezzi di carne per i tipi di Sellerio (un Trainspotting al femminile ambientato a Doncaster) e Paul Murray, autore irlandese fresco vincitore del Premio Strega Europeo per il romanzo Il giorno dell’ape.
Proprio quest’ultimo – forse inferiore soltanto al duo Carrère-Roth – era l’incontro letterario più atteso del Salone, ma come purtroppo accade spesso in tali occasioni (autore internazionale presentato da scrittore/intellettuale italiano), Sandro Veronesi, nel ruolo di moderatore (che evidentemente gli stava stretto), si è reso protagonista dell’evento, citando Larkin, Madame Bovary, il complesso rapporto che Noi Moderni abbiamo con il reale, il bovarismo digitale (eh?), parlando il doppio del povero Murray, il quale, molto educatamente, ha partecipato come poteva ai ragionamenti di Veronesi, che non sembrava rendersi conto del rumoreggiare della platea.
Del romanzo dell’ospite quasi non si è parlato. Finito l’incontro, piuttosto delusi, ci ributtiamo tra la folla, e chissà che magari non incrociamo Toni Servillo.
Insomma, con il passare degli anni non si capisce più se quello di Torino sia il Salone Internazionale del Libro, oppure un Salone Internazionale Con Dei Libri. Ian Poggio


Monde UFO
Borgo Santa Brigida, Parma, 14 maggio 2025
Più che di un concerto con tutti i crismi si è trattato di una serata tra amici in compagnia del tutto eccezionale di Brian Bartus (o Ray Monde) e Kris Chau da Los Angeles, che sono un e una individualità dalla stravaganza quasi insensata – e infatti si fanno chiamare Monde UFO, che rende bene l’idea di come te li ritrovi davanti. Tra le diciotto date in venti giorni – che li hanno portati in Inghilterra, poi in Italia e successivamente in Croazia, Austria, Svizzera e Germania – questa si risolve velocemente con una scaletta “quasi” del tutto improvvisata dal momento, con l’aggiunta assolutamente occasionale di un batterista (Simone Donadini dei Rainbow Island e Trans Upper Egypt) e quel fugace problemino tecnico che non manca mai: quindi tutto più o meno come un ultimo passaggio in sala prove prima di iniziare a fare sul serio, o almeno provarci… Nonostante queste variabili non è dispiaciuta la versione più strampalata dei Monde UFO, andata in scena mentre altrove il Milan perdeva la coppa Italia col Bologna (Brian Bartus è tifosissimo dei rossoneri, ma questa è un’altra storia). Kris Chau, artista visuale prima di incontrare la musica, è avvolta nel suo kimono da geisha e fraseggia di canto e spifferi affusolati prodotti con la sua “insalatiera” effettata elettricamente, mentre Bartus giochicchia coi preset (andando a pescare a caso dai tre dischi fin qui pubblicati) alternando singulti di impro-jazz schizofrenici con sax, canto e armonie saturatissime del suo basico tastierino. Il pur bravo Donadini è invece nascosto nell’oscurità ma lo si sente, e talvolta risulta superfluo o addirittura eccessivo al contesto per la sovrapposizione con le ritmiche pre impostate, che evidentemente andavano tolte prima ma, come si diceva, è tutto un po’ così… alieno all’idea classica di concerto, e difatti dopo tre quarti d’ora si chiude baracca e si torna a far di chiacchiera in una serata infrasettimanale tra amici vicini e lontani. Andrea Amadasi


Snapped Ankles
The Boileroom, Guildford, 10 maggio 2025
A guardarsi intorno sembrerebbe che il processo di “de-evoluzione” teorizzato mezzo secolo fa ad Akron in Ohio dalla geniale doppia coppia Mothersbaugh-Casale, sembrerebbe esser arrivato a pieno compimento. Sebbene frutto di uno scherzo giovanile durante gli anni universitari, la teoria della regressione dell’umanità causata dalla disfunzione e dalla mentalità da gregge della società è un’oggettiva constatazione dei tempi in cui viviamo. Ma non avviliamoci, come sempre la musica ci viene in aiuto. Dal punto di vista strettamente musicale la de-evoluzione ha partorito una delle mutazioni più interessanti sulle rive del Tamigi tra i capannoni industriali abbandonati dell’East End londinese post-Brexit che prendono vita grazie all’agguerrita flotta di ravers finesettimanali e le foreste che resistono all’urbanizzazione più selvaggia da dove, narra la mitologia, provengono i nostri, ragion per cui eccoli presentarsi addobbati nella loro tipica tuta mimetica ghillie ricoperta da fogliame pesante con tanto di maschera e lucette sulla fronte in stile Orbital. La serata fa parte del tour promozionale dell’ultimo lavoro recentemente pubblicato “Hard Time Furious Dancing” (gran bel titolo, ispirato dalla raccolta di poemi della poetessa, scrittrice ed attivista Alice Walker, l’autrice del romanzo “Il colore viola” che Spielberg portò sugli schermi negli anni ottanta). Partenza con intro mini sinfonico kraftwerkiano ad alto minutaggio che si tramuta nella classica Jonny Guitar Calling Costa Berlin dal loro primo lavoro “Come Play the Trees” del 2017. Ogni pezzo proposto è un esercizio architettonico: l’iniziale riff di sequencer/sintetizzatore costituisce la base su cui i quattro erigono le loro composizioni semplicemente aggiungendo multipli strati ritmici fino ad edificare la loro poliritmica cattedrale sonora ed invitarci, come da titolo programmatico ad un rituale liberatorio e catartico per affrontare questi tempi ardui: danzare furiosamente. Sette delle dieci tracce in scaletta sono tratte dall’ultimo lavoro e l’impressione avuta ascoltando il disco è confermata dal vivo: il suono geneticamente MARKettaro, nel senso della triade Mark Mothersbaugh (Devo) Mark E Smith (The Fall, nelle inflessioni vocali) e Mark Stewart (Pop Group, per la critica/polemica sociale) si è (de)evoluto e suona come una versione post-punk dei Chemical Brothers. E ben venga, dato che suona molto meglio di tanto attuale ma già datato post punk musone pseudo esistenzialista per ragazzini che hanno appena scoperto “La nausea” di Sartre. L'innodica Pay The Rent, le spietate e incessanti percussioni metalliche di Bail Lan, l’inarrestabile groove di Raoul con tanto di ululato da lupo notturno e la travolgente Dancing in Transit suonano alla grande, ma Personal Responsibilities e Where’s the Caganer in effetti un po' meno e fanno rimpiangere le non eseguite Delivery Man (con l’inizio wave alla Gaznevada di “Sick Soundtrack”) o l’electro inno alla gioia Drink and Glide giusto per citarne un paio. Ma per fortuna c’è la danza robotica da automa mentecatto di Rhythm is our Business (mai titolo fu più azzeccato), con Austin che da buon sciamano scende tra il pubblico armato di sintetizzatore legato a un tronco (!) e inizia a percuoterlo come un indemoniato aggiungendo un ulteriore tocco di surreale teatralità al tutto. Gran finale con I Want My Minutes Back che suonerà pure come un vecchio brano dei Palais Schaumburg (vi ricordate la Neue Deutsche Welle primi anni Ottanta?) ma è un gran bel sentire, e poi le arpeggiate linee di synth che si riciclano nell’irresistibile ed esilarante assalto adrenalinico di Smart World che conclude la serata rassicurandoci che la de-evoluzione è ancora ben viva e vegeta(le). Ferruccio Guglia


Mai Mai Mai
Antica Falegnameria Martino, Oppido Lucano PZ, 26 aprile 2025
A Bad Day
Officine Macondo, Potenza, 30 aprile 2025
Succedono a volte cose inaspettate e molto piacevoli, come scoprire che due concerti che avevo puntato da tempo si svolgono non solo a pochi giorni di distanza ma anche a due passi da casa in un territorio dove fra l'altro il cartellone musicale non è poi così ricco come altrove.
Quando uscì Rimorso di Mai Mai Mai rimasi molto colpito. L'album entrò subito nell'elenco delle mie uscite favorite dell'anno. Riusciva a trasformare sonorità tipiche della mia infanzia, di quelle ascoltate nelle sagre con i nonni in atmosfere dark electro a tratti industrial senza perdere quella sorta di misticismo tipico di certi canti. Un po’ come dei Coil in residenza al Sud. È stata una vera sorpresa trovarlo in programmazione ad Oppido Lucano un piccolo paese dell'entroterra Lucano a pochi (difficili) chilometri dal capoluogo. E ancora più sorprendente quello che l'organizzazione è riuscita a creare: inserito nella programmazione culturale del progetto Disfusioni, il concerto si tiene in una vecchia falegnameria stile anni 60, ancora attrezzata, con legnami, cornici e macchinari intorno. La location è fenomenale ed è affascinante che tutto sia reale e così fuori dal tempo. Prima del concerto c'è la presentazione di Plume, una rivista quadrimestrale che esce su carta, autoprodotta e ben elaborata dalla grafica agli interventi. Il numero che presentano ha come tema i linguaggi di Comunità. È entusiasmante vedere che dei ragazzi decidano di fondare una rivista di spessore e pubblicarla su carta con estrema cura, autoproducendola. Un attivismo d'altri tempi che fa ben sperare.
Mai Mai Mai inizia a suonare intorno alle 23 in un silenzio devozionale. Perché quello che si sta profilando sembra quasi un rito pagano. Toni Cutrone sale in postazione con la sua classica tunica che lo copre e lo nasconde. Intorno a lui legni, segatura e manufatti di falegname. Dietro, video elaborati di maschere e paesaggi...siamo in una dimensione atemporale. Il set è ben dosato. Parte con un intro di suoni leggeri, lenti ma caratterizzati da una periodicità flemmatica e costante, come un respiro. Si sta preparando il campo. È come inoltrarsi in un bosco per invocare un’entità. Infatti quando tra i vari suoni inizia a percepirsi da lontano il fischiare alterato del Secondo Coro delle Lavandaie e partono le percussioni non siamo più ad Oppido (uh marò che bellu suonno). Mai Mai Mai ci porta in giro tra ricordi del passato che affiorano all'improvviso, sonorità contemporanee, luoghi e sensazioni non facendo abbassare mai l'attenzione e la tensione. Tra synth che si rincorrono con percussioni metalliche è introdotta la voce (campionata) di Vera di Lecce che ci porta in altro ambiente (Fimmene Fimmene). Ed è così con tutto il concerto giocato su suggestioni che in questo territorio sono ancestrali per tutti trasportate in dimensioni altre. Complimenti davvero, dai presenti, che a fine concerto intrecciando gli sguardi comunicano un senso di meraviglia.
Passano pochi giori e questa volta a Potenza siamo di nuovo sotto un palco per qualcosa di fantastico. Egle Sommacal e Sara Ardizzoni con il loro progetto A Bad Day. Li avevo già intercettati ed ammirati nei loro rispettivi progetti solisti e incontrati con i Massimo Volume ma mi incuriosiva capire come avrebbero reso dal vivo “Flawed”, un album in cui le due chitarre si fanno altro (la prima impressione ascoltando l'album è stata di ambient fatta con chitarre). Sara ed Egle sono due persone delicate e gentili, profonde e sorridenti. E la loro musica rispecchia alla perfezione la loro personalità, sentirli suonare è un intimo dialogo con loro attraverso altri mezzi espressivi. Alle Officine Macondo si presentano circondati da pedalini e chitarre con cui ci parlano, raccontano ed emozionano. Fantastici gli intrecci di arpeggi come in Non in the light, not in the darkness, o le parti in cui Sara trasforma la sua chitarra in un synth come nel finale di in Death of a drum (che dal vivo mi ha trasportato in ambienti Caterina Barbieri). Timanafaya, se su disco incuriosisce, dal vivo sorprende: una chitarra che si fa clarinetto synth. “Flawed” nelle intenzioni degli autori sta per "imperfezione", con l'idea di fare un album che integri tutto anche le imperfezioni che in musica possono essere vita. Ma nella serata alle Officine Macondo abbiamo assistito invece ad una perfezione rara, come detto da molti a fine serata, il miglior concerto che si sia visto da tempo da queste parti. Massimo Lovisco


Kamasi Washington
Estragon, Bologna, 24 aprile 2025
Il recupero della data inizialmente prevista dal “Fearless Movement Tour” per lo scorso autunno è avvenuto, sempre nell’ambito del Bologna Jazz Festival, all’interno di un Estragon particolarmente eterogeneo. Il pubblico dello storico club bolognese era infatti composto da una tale varietà di generazioni differenti, ognuna con gusti e aspettative altrettanto diverse, che forse sarebbe stato impossibile accontentare davvero tutti. Kamasi, a dispetto dell’infortunio alla schiena che lo ha costretto a posticipare la tranche europea, ci ha provato. Eppure, lo anticipiamo subito, l’impressione è che non avesse alcuna pretesa di riuscirci davvero. Questo per dire che forse non bisognerebbe approcciare un live di Kamasi Washington con l’intenzione di chi sta andando a un concerto jazz, nel bene o nel male. La proposta del sassofonista californiano, infatti, mira dichiaratamente a mescolare le carte sul tavolo di una black music totale, in cui Funkadelic, Marvin Gaye e John Coltrane si muovono insieme agli scratch sui giradischi di DJ Battlecat, strizzando l’occhio a una fascinosa amalgama di spiritual r&b guidato dalla voce di Patrice Quinn. Il rischio di rendere tutto piacevolmente innocuo è sempre dietro l’angolo, se non fosse che il leader ci crede così tanto da accendere il palco per più di due ore senza fare sconti a nessuno. Qualche momento poco ispirato c’è, soprattutto nei tentativi di mettere in risalto la bravura della band su riff e melodie un po’ banali, in cui si passa dal tributo all’improvvisazione senza riuscire a risultare granché incisivi. Ma sono parentesi tutto sommato brevi, anche perché la presenza del padre (impegnato al sax soprano e al flauto) – nonché di un intero collettivo che spalleggia il leader meticolosamente – e, non ultimo, dei racconti di amore e amicizia che il nostro eroe condivide con il pubblico, rende l’esperienza quasi un affare di famiglia. E cosa c’è di più bello che essere invitato nel salotto di casa Washington? Carlo Babando


Jim Jones All Stars
Oslo, London, 19 aprile 2025
Per gli amanti di certe sonorità, da queste parti la festività pasquale è sinomimo di Le Beat Bespoke, annuale kermesse di tre giorni dedicata a garage, soul, psych, freakbeat, ecc. che in passato ha regalato momenti davvero memorabili (per il sottoscritto su tutti King Khan & The Shrines e The Mummies).
La seconda serata inizia con il piacevole garage beat dei Baron Four capitanati dal veterano Matthew Lambert (già con i Mystreated e gli Embrooks) e Mike Whittaker (The Jack Cades e The Capellas con la compagna Elsa), che ci trasportano indietro nel tempo col loro accattivante R&B annata doc 1965 che invita a muovere i fianchi. D’accordo, revival puro, ma suona alla grande e per gli appassionati del genere “Outlying”, uscito per l’anno scorso per la danese Beluga Records, è imperdibile. E poi tocca a lui, Jim Jones ovvero l’impersonificazione in carne ed ossa del neilyoungiano “rock’n roll can never die”. In giro da ben 4 decenni, tra gli incendiari trascorsi giovanili, inevitabilmente terminati in autocombustione, con Thee Hypnotics ovvero la massima espressione del Detroit sound in terra britannica di sempre (inarrivabile e irraggiungibile), le frenetiche rivisitazioni rock ‘n’ roll anni cinquanta amfetaminizzate del Jim Jones Revue, l’omaggio al triumvirato putativo Iggy/Cave/Waits con i Righteous Mind e adesso in pista con la Jim Jones All Stars, supergruppo nato durante la pandemia con i sodali Gavin Jay al basso, Elliot Mortimer al piano (entrambi ex Revue), Carlton Mounsher (The Swamp) alla chitarra, Chris Ellul (The Heavy) alla batteria e i due sax di Stuart Dace e Tom Hodges (rispettivamente tenore e baritono). Jim, autentico purosangue, da grande showman qual è conquista il pubblico immediatamente anche perché la serata inizia con Cement Mixer, cavallo di battaglia del JJ Revue col suo incedere stomp, chitarra sporca, voce rauca e intermezzo corale sing-along squarciagola “here we go, nice and slow”. Segue l’interpretazione di When You See Me Hurt, classico numero soul di Carl Lester che suona come un selvaggio James Brown con i fiati che all’unisono spadroneggiano sul ritmo incalzante. In una parola, irresistibile. Sulla stessa scia l'inarrestabile originale Gimme the Grease, che con ritmica da paura mantiene i sassofoni in ben spolvero. La serata si alterna tra rivisitazioni/omaggi e classici originali composti da Jim nelle sue diverse incarnazioni. Tra le prime figurano Parchman Farm di Mose Allison con gran lavorio di piano, incandescente riff di sax e finale quasi jam, il northern soul addolorato di Lover’s Prayer dei Wallace Brothers, il funk grezzo e primitivo di Troglodyte di Jimmy Castor Bunch e lo swamp blues It’s Your Voodoo Working di Charles Sheffield. Tra le seconde, le pietre miliari del suono rock psichedelico fine ottanta targate Thee Hypnotics Soul Trader e Shakedown (che è ancora minacciosamente seducente dopo quasi quattro decenni), il super classico gospel blues Satan’s Got His Heart Set On You dei Righteous Minds, la frenetica Rock’n’Roll Psychosis dei JJ Revue, la recente I Want You (Anyway I Can) e alcuni nuovi pezzi dell’album in uscita fra qualche mese con la produzione di Chris Robinson dei Black Crowes, tra i quali il grintoso singolo appena pubblicato Goin’ Higher, spavalda miscela di soul, garage e rock’n’roll. Tre bis per il finale: la rampante cover di Big Bird di Eddie Floyd, l’energetica e raggiante Everybody’s Got Something to Hide Except Me and My Monkey dei Beatles e lo scatenato e viscerale rock’n’roll del classico 512 targato JJ Revue, dove le poche energie rimaste sia sul palco che in sala vengono consumate in un collettivo tripudio di festoso sudore. Neil ci aveva azzeccato: Rock’n roll is here to stay almeno fino a quando Jim è in giro. Ferruccio Guglia


“Rewire”
Den Haag, varie location, 3-6 Aprile 2025
L’Olanda detiene oggi - senza alcun possibile contradditorio – la leadership del circuito festivaliero continentale, offrendo le esperienze più complete nell’ambito della ricerca, delle musiche estreme e di quelle adiacenti al più virtuoso indie. Giunta alla sua 14sima edizione, la rassegna primaverile meglio nota come Rewire, oltre ad avvicinarsi a un traguardo storico, propone un calendario di eventi succulento come non mai, potendo contare su nomi di caratura internazionale e sulla disponibilità di ben 25 location tra centri d’arte, auditorium, chiese, storici club, teatri e scenari naturali. Immolatosi sin da principio alla ricerca in ambito elettronico con numerose concessioni all’avanguardia tout court, il festival è oggi un poliedrico contenitore capace di iniettare ancora linfa vitale in un circuito altrimenti stantio. Rispettando un equilibrio niente affatto scontato tra ciò che è contemporaneo e quanto è stato rivoluzionario nel secolo scorso, Rewire conta su un programma impreziosito da numerose prime, offrendo altresì l’omaggio a figure iconiche come Joan La Barbara, Alvin Curran e Laurie Anderson, che chiuderà con un concerto esauritissimo questa edizione.
Nella preview del giovedì Curran ripropone quanto visto anni fa nel pittoresco laghetto di Villa Borghese a Roma, ovvero “Maritime Rites”, una performance sviluppata con un corpo di musicisti che sfilano su diversi battelli in seno all’Hofvijver. Tra sacralità classica e vezzo collagista, l’intento dell’autore è chiaro, in un sintomatico affronto alle cure accademiche. La performance audio-video di Alessandro Cortini raggiunge nella seconda parte momenti di pura estasi analogica, riproponendo i cinque movimenti del disco “Nati infiniti”. Si entra propriamente nel vivo il venerdì con alcuni dei momenti più nevralgici dell’intera manifestazione. Il nu jazz immerso nel poliedrico live sampling pervade la bellissima session improvvisata degli SML, al secolo Small Medium Large, collettivo di base a Los Angeles che vede in Jeremiah Chiu (ai modulari) un leader carismatico. Uno degli apici astrali è toccato da Nala Sinephro, che ancora non ha dato alle stampe quel capolavoro da studio che sarebbe lecito attendersi. Ma godiamo del suo monumentale live in quartetto – in una delle location più importanti dell’intero festival, il modernissimo gioiello architettonico che è l’Auditorium Amare - un viscerale tributo ad Alice Coltrane tradotto in un moto perpetuo che porta di diritto ai cancelli della musica cosmica tedesca. Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly ripropongono con immutato entusiasmo i contenuti del loro debutto per International Anthem, “Mestizx”, sunto di tropicalismo e spiritual jazz nello storico club Korzo. Sui Seefeel, eccezionalmente in trio nella storica cornice della chiesa Lutherse Kerk, vince purtroppo la stanchezza, ma i dosaggi ambient dub di questi pionieri del nuovo esoterismo inglese rimangono pur sempre una rotta arguta.
Il sabato è all’insegna dell’azione, o quanto meno è questo il percorso scelto dal sottoscritto. Il duo di casa Able Noise – autore di un lodevole debutto in vinile per la label culto londinese World Of Echo – incanta tra memorie post Louisville/Chicago, abbozzando però improvvisazioni tout court e un meticciato mediterraneo (incantevole la chitarrista Alex Andropouolos quando imbraccia la balalaika). Sismica è la danza inscenata dagli Holy Tongue di Valentina Magaletti e Susumu Mukai con lo zampino di Shackleton, la struttura di un club piuttosto allenato a techno e affini come il Paard vacilla, dubedelia intrisa di attitudine industriale per scoperchiare la tassa toracica. Più immersivo il set del trio di Olivia Block, con uno stellare Jon Mueller alla batteria e il supporto alle elettroniche di Paige Naylor. Onirica contemporanea che si risolve in stati di stasi apparente per poi esplodere in senzienti rituali percussivi. Un’altra esclusiva di disarmante bellezza è di scena con il trio egiziano The Handover; lanciati da Sublime Frequencies, i nostri muovono tra droni, mediterraneo e Morricone western. Anche qui si tocca il cielo con un dito. A riportarci rovinosamente a terra ci pensano i Body Meπa, un’infernale macchina da guerra (post)metal con in sella il batterista Greg Fox e due colonne della downtown newyorkese come il bassista Melvin Gibbs ed il chitarrista Sasha Frere-Jones.
Arriviamo alla domenica con una serie di certezze che iniziano a scricchiolare e un residuo energetico tutto da provare. Intriga l’alternative country di Wendy Eisenberg – che tradisce le sue frequentazioni adiacenti al jazz di ricerca – mentre faccio onestamente fatica a perdermi nel wall of noise dei pionieri americani Yellow Swans. Avrei visto volentieri la ripresa di “Canti Illuminati” di Alvin Curran, ma un improvviso malore porterà alla cancellazione della pièce (una volta ristabilitosi, Alvin avrebbe fatto ritorno a Roma). Dei Caroline ho apprezzato più la forma che la sostanza: un originale ottetto londinese fulminato sulla strada di Canterbury che non mancherà di tornare sulla scena del delitto. Discorso analogo per la sound art di FUJI||||||||||TA, mirabile sulla carta ma un pizzico autoreferenziale nel format live. Chi vince a mani basse è invece il contrabbassista e leader Nick Dunston, che con la band Skultura schiaffeggia anche le più coerenti istituzioni free jazz. Menzione d’onore a una ritrovata Laurie Anderson, che chiude il festival con un concerto politico, parte reading e parte memorie esistenziali, corredato dal violino e dalle scarne elettroniche della collaboratrice Martha Mooke. Certamente arrivederci. Luca Collepiccolo


Steve Wynn & Rodrigo D’Erasmo: “Make it right”
Napoli, Rockalvi Main Out Auditorium Novecento, 8 aprile 2025
Fai anche tu parte del club? Quale club? Quello degli appassionati di musica (musicisti e fruitori) che si scelgono, quelli che non cercano qualcosa che vada bene per tutti (“tutti” intesi nel senso di mainstream, la corrente che trascina tutti indistintamente), quelli che – insomma – preferiscono cercarsela e trovarsela la musica con cui riempire la propria vita. Perché, in fondo, di malati di musica si tratta, di gente che vive di una “certa” musica. Tutto questo Steve Wynn (e molti di noi con lui) l’ha capito subito quando, mentre si stava avviando a essere musicista, ha ascoltato il primo disco dei Velvet. Se non fai parte del club, no problem, puoi rivolgerti altrove, c’è posto per tutti. Ma se entri nel club – beh – la tua vita cambia. Sunday morning è stata una delle prime canzoni suonate da Wynn in questo tour un po’ anomalo perché quello da promuovere stavolta non è un disco (c’è pure quello, a dire il vero), ma un libro. Si tratta della sua raccolta di memorie “Non te lo direi se non fosse vero. Memorie di musica, vita e Dream Syndicate” recensito dal nostro grande capo su Blow Up con parole che potrebbero andare benissimo per questo concerto che ha seguito, fondamentalmente, la trama del libro. Un percorso chiaro, spesso in dialogo con un pubblico preparatissimo, in cui si è apprezzata la bontà dell’uomo e del comunicatore. Frontman e songwriter sono per Wynn qualcosa di sostanza, qualcosa che parte dalla vita e arriva alla vita. Lou Reed e Alex Chilton (soprattutto lui) sono stati i numi tutelari che hanno avviato un percorso che con i Dream Syndicate ha trovato la sua entusiasmante espressione e che è stata, nel concerto, l’occasione per ripercorrere una buona fetta di storia di certo rock americano. Il concerto, come il libro, si conclude con lo scioglimento della band al finire degli anni 80. Il libro è stato scritto in 5 anni ed è stata l’occasione non solo per ricordare ma anche per riflettere sulle scelte fatte e quelle non fatte, come lui stesso ha ricordato. Grande uomo, Steve Wynn. Non a caso, alla fine del concerto, mentre chiacchieravamo tra “addetti ai lavori” con Peppe Guarino (organizzatore della serata), si respirava questa passione per la vita, per la musica, per consumarsi per qualcosa di bello, da comunicare e trasmettere e come la musica possa dare molto, con un senso della generosità e della gentilezza che Wynn aiuta a risvegliare. Rockalvi di Peppe Guarino è nata per aiutare una organizzazione (Camilla la stella che brilla) che sostiene bambini malati. E, per certe battaglie, ci vuole molta energia positiva. Come quella che Wynn ha trasmesso. Fondamentale, in questo, la presenza di Rodrigo D’Erasmo che con il suo violino ha accompagnato e dialogato con altrettanta passione i pezzi suonati, con un brio ora più leggero ora più intenso. Molto bella l’intesa tra i due musicisti che ha dato un vestito sempre fresco e nuovo alle canzoni. A me, per qualità e modalità ha ricordato il tour fatto da Nick Cave con Ellis per presentare il suo secondo romanzo. Girolamo Dal Maso


Kamasi Washington
Docks, Losanna, 31 marzo 2025
Programmato in origine a ottobre 2024, nel cartellone del 37o JazzOnze+ Festival, il live di Kamasi Washington era stato riportato in avanti in ragione di un problema alla schiena dell’artista (identico il motivo per cui la data milanese di JazzMi all’Alcatraz è diventata il 22 aprile; in Italia lo si vedrà anche a Roma il 23 e a Bologna il 24). Tutti contenti che il sassofonista si sia rimesso in piedi per il nuovo e lungo tour europeo, a cominciare dagli organizzatori, e il cartello davanti all’ingresso dei Docks lo dimostrava, perché sopra c’era scritto “complet”. Allora come oggi si trattava di far conoscere l’ultimo “Fearless Movement”, sinora il più danceable del lotto pur se nell’accezione di “esprimere lo spirito attraverso il corpo” (dice lui). Avanti dunque con Lesanu, all’inizio intonata nell’antica lingua etiope ge’ez, e poi Asha the First preceduta dal raccontino che la melodia gliel’ha suggerita la giovanissima figlia, e ancora subito dopo Lines In The Sand, un trittico punteggiato nell’ordine dai solo di Washington, del padre Rickey (flauto e soprano) e del bassista Joshua Crumbly. L’ora di DJ Battlecat, anche percussionista aggiunto, e dei suoi scratch pimpanti viene con la Get Lit in cui ci ha messo lo zampino George Clinton, mentre Kamasi si traveste un attimo, non di più, da Coltrane versione mistico-cosmica per The Garden Path. In scaletta non possono mancare nemmeno Together, con uno spazio riservato al trombonista Ryan Porter, invero non troppo considerato nell’arco dell’intero concerto, e la bizzarria Prologue, perché non ci si aspetterebbe la cover di un pezzo di Astor Piazzolla (a ripensarci, è forse questo il culmine della serata). Quel che non si comprende troppo è perché una band di otto elementi a cui non manca certo la tecnica finisca per suonare molto poco davvero di gruppo, con i rari momenti d’insieme riservati all’esposizione e poi al richiamo del tema, a ricalcare dinamiche da vetusto bebop. Non riusciamo a ricordarci dialoghi spontanei e scambi serrati tra i componenti, che finiscono per esprimersi in lunghi e pure un po’ scontati assolo a chiamata da parte del leader, al grido di “e adesso l’incredibile…”. Saranno sicuramente scelte ponderate, ma per ampi tratti il set pare scorrere forzato, con i singoli ridotti a eseguire parti mandate a memoria. All’esordio considerato il nuovo profeta del jazz, con “Fearless Movement” Washington sembra essersi tolto definitivamente la maschera, perché a lui del jazz e dell’improvvisazione (qualunque definizione si voglia dare ai due termini) importa poco o nulla, se non per qualche citazione funzionale al suo discorso. Ha deciso di giocare a un altro sport, quello che indubbiamente manda in sollucchero il suo folto ed entusiasta pubblico. Piercarlo Poggio



Little Barrie & Malcom Catto
The Garage, London, 5 aprile 2025
Nonostante innumerevoli esibizioni davanti a platee oceaniche offrendo la sua magistrale tecnica e inventiva a Paul Weller, Morrissey, Primal Scream, The The, i fratelli Gallagher ecc., solo un ristretto ma fedelissimo gruppo di adepti conosce e segue il percorso artistico individuale di Barrie Cadogan, the best kept secret chitarrista del Regno Unito. Tra l’esordio discografico (“Shrug off love” dei Little Barrie del 2000, groove infettivo e fantastica produzione vintage) e il criminalmente sottovalutato “Instafuzz” del 2024 a nome Ultrasonic Grand Prix (divertentissimo progetto estemporaneo con il polistrumentista e produttore Shawn Lee) il buon Barrie ci delizia le orecchie da ben 25 anni, la maggior parte dei quali trascorsi sotto la sigla Little Barrie (trio con all’attivo 5 album) fino alla prematura e tragica scomparsa del batterista Virgil Howe (figlio del chitarrista degli Yes) nel 2017. Dopodiché nel 2020 Barrie e il sodale Lewis Wharton al basso ritornarono con la sigla storica accompagnati dal ta-lentuoso batterista e produttore Malcom Catto (ben noto con gli Heliocentrics in “Quatermass Seven”): fra qualche giorno esce la seconda fatica, “Electric War” per la Easy Eye Sound di Dan Auerbach dei Black Keys.
Il rigenerato trio ha deciso di non rivisitare il catalogo dei tempi che furono, per cui tutta la scaletta della serata verte sui due lavori sopra citati. La title track del nuovo album apre la serata con ritmica kraut e tagliente chitarra assassina: per 80 minuti abbandoniamo ogni cognizione spaziotemporale per essere catapultati in un universo parallelo accompagnati dal suono emesso da una creatura musicale mutante, ibrida figlia meticcia dei Can e dei Meters e cresciuta a suon di (heavy) blues e tecniche jazz. Tra l’incessante, forsennata poliritmica al cardiopalma di Trabs e gli otto minuti dell’ipnogena cerebrale psych jam After After trovano spazio le più terrestri e rassicuranti Repeated #2, col suo incedere notturno e twang riverberato, e You’re Only You, che parte con ritmica alla Jaki Liebezeit e si trasforma in un numero psych funk blues con tanto di feedback conclusivo e lussureggianti tessiture wah wah. L’heavy blues di Old Role suona come una versione moderna dei Cream e l'irresistibile psych funk groove danzereccio di Zero Sun trasporta miracolosamente i Meters nella Madchester di qualche decennio fa. My Now lascia allibiti per l’immacolata perfezione dell'interplay, la mutazione ha partorito una mostruosa creatura dalle tre teste con batterista tentacolare, bassista omicida e chitarra che condensa in un brano ansiogeno tutta la storia (di un certo) rock tra accenni spagnoleggianti, schegge di surf alla Link Wray, riff alla Eddie Hazel, decenni di blues e quant’altro. Quindi arriva l’incedere lento ma inesorabile di Creaky, con ospite Danny Keane al violoncello (felicissimo connubio che riporta in mente Tom Cora con gli olandesi Ex di decenni orsono): un vero blues del deserto, etnico, ipnotico, tribale, con ripetute folate di acida sabbia wah-wah che con accanimento che scortica la pelle. Il salvifico psych rock di Spektator ci corre in aiuto offrendoci il necessario ossigeno per arrivare al finale bipolare di Count of Four ma soltanto per lasciarci totalmente liquefatti.
Neanche l’utilizzo di un breve frammento della genialità di Barrie inserito come intro nella (fantastica) serie televisiva “Better Call Saul” (spin-off di “Breaking Bad”) ha conferito al trio quella notorietà che gli spetterebbe di diritto; ma meglio così, almeno per noi che abbiamo avuto la fortuna di assistere a un’esibizione a dir poco stellare di tre grandi musicisti nell'intimità del Garage senza nessun annacquamento/mitigamento da stadio. Ferruccio Guglia


Paul Collins Beat
Sonic Ballroom, Colonia, 2 aprile 2025
Era da parecchio tempo che Paul Collins non si vedeva da queste parti, di mezzo si erano messi il Covid e un po’ di stanchezza dopo una vita spesa a scrivere canzoni e portarle in giro per il mondo. Rivitalizzato dagli ottimi riscontri critici di “Stand Back & Take A Good Look”, l’album dello scorso anno, il “re del power pop” si è rimesso in marcia e per questo tour europeo ha deciso di farsi accompagnare dagli svedesi Manikins. Scelta quanto mai azzeccata, visto che l’esperto gruppo di Nyköping è affiatatissimo e ne conosce a memoria il repertorio. La line-up a tre chitarre restituisce forza e brillantezza ai brani di Beat e Nerves, l’approccio ramonesiamo – tutti i brani suonati di fila, senza interruzioni o chiacchiere inutili– fa il resto, assieme a una setlist costruita alla perfezione.
L’atmosfera del Sonic Ballroom si fa subito incandescente, sin dall’attacco di “Rock’n’Roll Girl”, primo brano in scaletta e gancio da ko piazzato a un pubblico che dall’inizio alla fine si lancerà nel singalong. Del resto, Paul Collins ha fatto dello scrivere la canzone (power) pop perfetta la sua missione di vita e ancora oggi c’è da stupirsi di come l’omonimo debutto dei Beat, A.D. 1979, non abbia venduto milioni di copie e lo abbia reso ricco e famoso.
Proprio da quel classico che rasenta la perfezione il gruppo attinge a piene mani, suonandolo quasi nella sua interezza: “Let Me Into Your Life”, “Don’t Wait Up For Me”, “I Don’t Fit In”, “U.S.A.”, “Work-A-Day World”, fino a quella “Walking Out Of Love”, ripresa tante volte dal vivo dai Green Day. Un paio di pezzi dal secondo album “The Kids Are The Same”, tra cui la title-track cantata a squarciagola dagli astanti, precedono una manciata di brani dai recenti album da solista, prima che questa nuova incarnazione dei Beat si lanci nei classici dei Nerves, inclusa la celeberrima “Hanging On The Telephone” che tutto il mondo conosce nella versione dei Blondie. I bis sono quattro: una “Many Roads To Follow” a due voci e senza sezione ritmica, cantata quasi a cappella, seguita dalla tranquilla “You & I”, prima che l’elettricità innervi due pezzi innodici come “Different Kind Of Girl” e “Letter to G”. Applausi scroscianti e urla di approvazione per un Paul Collins in grandissima forma. Roberto Calabrò


“Chiasso Means Noise”
Magazzino II, Chiasso (Svizzera), 27-29 marzo 2025
Il calembour che abbina il concetto di rumore al contesto geografico è un colpo perfettamente assestato per il nome di un festival musicale, ma da fuori quel concetto bisogna saperlo recepire nella giusta ampiezza e varietà di sfumature, il rumore, quindi non solo tumultuoso o totalmente privo di caratteristiche musicali. Da dentro, i ragazzi dell’Associazione Grande Velocità/Spazio Lampo ce l’hanno messa tutta per fare sì che questa seconda edizione del “Chiasso Means Noise” fosse la più impattante ma anche eterogenea possibile, mettendo insieme un ricco programma di proposte e linguaggi espressivi differenti col presupposto altamente simbolico di provare ad abbattere quelle barriere che inibiscono qualsiasi potenziale interazione umana. Lo spazio fisico del “Chiasso Means Noise” è quello di un piccolo magazzino allestito al minimo indispensabile: due palchi contrapposti con in mezzo lo spazio per il pubblico. In questo scenario si è partiti il giovedì – ma c’era già stata un’anteprima domenica 23 marzo al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto con Aquiles Navarro, trombettista e compositore degli Irreversible Entanglements – con il concerto di Patrick Kessler e Dieb13, pseudonimo di Dieter Kovačič. Entrambi fanno parte della Chuchchepati Orchestra, un collettivo di mus
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