LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Lino Capra Vaccina e Mai Mai Mai, foto di Andrea Amadasi]Lino Capra Vaccina & MAI MAI MAI + Sanam
Monk, Roma, 24 novembre 2025
Il lunedì molto piovoso della capitale non trattiene un folto ed eterogeneo pubblico dal raggiungere il Monk al Portonaccio per assistere a una serata di musica dalle sfumature illuministe proposte attraverso una mescolanza di culture e tradizioni assai più lontane geograficamente che non dal punto di vista umano e quindi antropologico. In divenire, il sentiero unico e allegorico tradotto in una suite dai confini appena percettibili dei quattro componimenti de “I racconti di Aretusa” – ovvero la prima pubblicazione a catalogo della Baccano Dischi, la costola discografica della Luiss University Press, che collabora alla serata – è quello per il quale il percussionista e compositore Lino Capra Vaccina e MAI MAI MAI (Antonio Tricoli) aspirano a un coinvolgimento in relazione alla genesi dell’opera stessa, giunta a compimento delle due settimane di residenza che gli artisti hanno condiviso a Siracusa tre anni or sono, durante l’Ortigia Sound System Festival. Se Aretusa infatti è una fonte d’acqua dolce che sgorga nell’isola siracusana a poca distanza dal mare, e che secondo la mitologia greca deve il suo nome alla ninfa trasformata in sorgente da Artemide perché stanca delle continue attenzioni di Alfeo, le musiche di Capra Vaccina e MAI MAI MAI assecondano quella stessa narrazione amplificandone l’emotività con note di piano che, ripetendosi ciclicamente lungo tutta la trama, sembrano evocare la sofferenza di uno stallo esistenziale in contrapposizione alla moltitudine delle sollecitazioni positive della vita, metaforicamente rappresentate dalle fonti percussive sul tappeto dei variegati suoni sintetici che amalgamano tutto. Il legame empirico tra la leggenda di Aretusa e i due artisti, e tra gli stessi due artisti così distanti per età ed esperienze vissute, si traduce in un concorso di idee così ricco di significati che ogni singolo dettaglio sonoro, voci di popolo comprese, ci racconta noi stessi nell’animo più di mille inutili parole. E condividere questa esperienza dal vivo, al netto di ogni distrazione posticcia dalla trama che ha originato il progetto, è stato salutare, quasi commovente. Poi per proprietà transitiva (ammessa e non concessa, va da sé) ci si attendeva la stessa efficacia anche dai Saman ma, per quanto tanta fosse la curiosità all’inizio, una certa delusione alla fine la si è dovuta constatare. Ché trasferire dal vivo la bellezza di un disco (il recente “Sametou Sawtan”) non è mai semplice per nessuno e questi sei ragazzi di Beirut, seppur con tutta la buona volontà e con le attenuanti del caso, sono sembrati veramente acerbi e soprattutto, a prescindere dalle peculiarità che su disco emergono in modo più funzionale e caratteristico come il cantato in arabo e l’uso sistematico di uno strumento come il bouzouki, hanno dato l’impressione di essere ancora lontani da una loro precisa identità, non tanto per poterli collocare all’interno di un contesto definito quale che sia, quanto piuttosto che li possa rendere immuni da certi fastidiosi cliché quali ad esempio l’uso (seppur misurato) dell’autotune, di cui francamente non si sentiva il bisogno e non si sono avvertiti i benefici. Andrea Amadasi
Jethro Tull
Roma, Auditorium Parco della Musica, 24 novembre 2025
Onestamente credevo saremmo stati relativamente pochi al concerto dei Jethro Tull e, invece, sorpresa: sala piena e tanti giovani a dispetto di chi crede che questo sia un gruppo di culto per persone di una certa età. Il chitarrista Martin Barre, per decenni al fianco di Ian Anderson, è fuori da tempo, con grande strascico di polemiche, ma il leader ha messo su da qualche anno una nuova e stabile formazione (basso, batteria, tastiere e chitarra) e continua dritto per la sua strada, sebbene la voce e l’incredibile presenza scenica di una volta non possano più essere le stesse, avendo ormai quasi ottanta anni…
Concerto bellissimo, bisogna dirlo subito, grazie all’intelligenza di Anderson che sfugge alla trappola di presentare soprattutto i brani degli ultimi album e propone una sorta di “storia” dei Jethro Tull, a cominciare dal blues delle origini per arrivare alle ibridazioni con l’hard rock, il folk inglese, le suggestioni classicheggianti e rinascimentali che hanno creato l’unicità del sound della sua premiata ditta. Resta fuori solo il periodo “elettronico” quando, negli anni ’80, si incaponì a misurarsi con una dimensione che non era la sua, producendo scarsi risultati, fatto salvo quel capolavoro che è The Broadsword and the Beast (1982) dal quale, purtroppo, non è stato estratto alcun brano. Dopo un serioso avviso dagli altoparlanti (“il signor Anderson chiede gentilmente di non fotografare e registrare perché la sua musica è molto complessa da eseguire e i musicisti potrebbero distrarsi con i flash. Lascerà, però, che lo si possa fare durante il bis”), si parte dunque con Some Day the Sun Won’t Shine for You, dal primo album, This Was del 1968, dove colui che è passato alla storia soltanto come flautista si cimenta con l’armonica a bocca, suonata in maniera notevolissima (prego, cercare questo brano su YouTube in versione dal vivo, per verificare) e si prosegue con A Song for Jeffrey, introdotta dal vecchio amico e storico bassista della band, Jeffrey Hammond (sugli album sempre annotato come “Jefrrey Hammond-Hammond”), che si dichiara grato di esserne il dedicatario.
Ecco, una delle novità dei Tull 2.0 è l’uso intensivo dei video, impensabile nei concerti del periodo d’oro del gruppo, fatti solo di corpi, acrobazie e sudore. Un grande schermo alle spalle dei musicisti propone, infatti, immagini complementari ai brani eseguiti: frammenti di vecchi concerti (con Anderson capellone e magro), immagini della campagna e della vita operaia inglese per The Donkey and the Drum (i Tull sono stati uno dei gruppi più profondamente “British” della storia del rock), di barboni (per Aqualung) o semplicemente evocative, a commento del testo delle canzoni (fanno capolino anche le sagome di Freud e Jung, in relazione a Curious Ruminant, dall’ultimo album del 2025). Evitando la prevedibile scaletta cronologica, il gruppo salta direttamente a Thick As A Brick (1972), la lunga suite dalla quale viene proposto un breve estratto, e da allora si va avanti e indietro, percorrendo e ripercorrendo la lunga vicenda artistica dei Tull con Mother Goose e My God, da Aqualung del 1971 (precisissimo Anderson negli arpeggi, come già in Thick As A Brick, perché, ricordiamolo, è stato, ed è, anche un ottimo chitarrista acustico…), The Weathercock e i cori di Songs from the Wood (1977), entrambe dall’omonimo album del 1977 che aprì la cosiddetta “trilogia folk” (che comprende anche Heavy Horses del 1978 e Stormwatch del 1981), Aqualung, ovviamente, completamente rifatta in un arrangiamento che non è molto convincente, e Budapest, dall’album Crest of a Knave, del 1987, una canzone non particolarmente memorabile, molto influenzata dal sound dei Dire Straits (come tutto Crest, del resto), ma che, chissà perché, Anderson ritiene una delle sue migliori composizioni.
Resta da dire di Ian Anderson flautista, certamente ciò che più ha caratterizzato la sua attività musicale (ricordiamo che è stato anche un imprenditore, avendo gestito per anni un allevamento di salmoni in Scozia). Ebbene, la sua tecnica è decisamente più precisa e pulita, la diteggiatura accurata (alle origini se l’era completamente inventata lui, si mise a studiarla bene negli anni ’90, quando la figlia, che studiava il flauto a scuola, gli disse che era tutta sbagliata) ma certamente la potenza espressiva giovanile non c’è più, forse non può più esserci: quel l’uomo che ringhiava, sbuffava, eruttava in quello strumento, consegnandolo al linguaggio del rock dopo aver fatta propria la lezione jazzistica di Roland Kirk, è ormai un’altra persona e anche le oscenità che un tempo di divertiva a fare con lo strumento, e che divertivano le folle (compreso il sottoscritto) sono ormai consegnate alla storia e soltanto evocate qui e lì: resta un grande musicista che legge ormai il suo repertorio come un corpus unitario, divertendosi a ricombinarne le parti ogni volta in modo diverso. Non bisogna, però dimenticare, per finire, che anche i testi scritti da quest’uomo sono sempre stati di singolare originalità, talvolta autenticamente poetici, passando da piccoli spaccati della vita inglese di provincia, alla critica della religione istituzionalizzata, dalla satira dei tabloid popolari del Regno Unito alla celebrazione della vita rurale, fino alle riflessioni esistenziali di Minstrel in the Gallery, del 1976, agli appelli contro l’inquinamento e agli attacchi a Margareth Thatcher (proprio in Crest of a Knave). E, ancora oggi, Anderson è in grado di scrivere dei versi meditati, spesso linguisticamente molto ricchi, che purtroppo sono destinati a passare in secondo piano in un concerto rock come quello di ieri. Inevitabile il bis con il classico Locomotive Breath, preceduto da un video in cui, sempre lui, ci guarda da un binocolo (come sulla copertina di Stormwatch) e sulle lenti compare il via libera a usare i cellulari, per portarsi a casa un meritato ricordo. Giovanni Vacca
“Barezzi Festival”
Busseto, Parma, Fidenza, 13-16 novembre 2025
Passa in archivio anche la diciannovesima edizione del Barezzi Festival, sempre più itinerante per vocazione e ancor più versatile ed inclusivo nello spirito, poiché se la musica è il centro di gravità della tre giorni parmense è pur vero che intorno ad essa si fa largo l’idea di un mecenatismo romanticamente fuori dalla consuetudine, che si dilata in più direzioni con potenzialità tutte da esplorare. Con la rassegna parallela “Fuori rotta”, ad esempio, si è inteso proporre un percorso letterario alternativo attraverso incontri con docenti accademici, critici e storici dell’arte allo scopo di approfondire il rapporto tra arte e mecenatismo, con particolare attenzione alle contraddizioni che in esso possono celarsi, con l’esperienza vissuta e le figure di Giuseppe Verdi e Antonio Barezzi sullo sfondo a illuminare il pensiero critico. Ma poi anche arte figurativa con l’esposizione “Quadreria”, dipinti e illustrazioni che interpretano la musica in chiave contemporanea ad opera di artisti locali e non, quindi il contest Barezzi Lab, che ogni anno coinvolge decine di giovani musicisti che provano a definire il proprio percorso passando da una vetrina sicuramente molto stimolante. E infine “Barezzi Snug” per soddisfare anche il palato con la gastronomia delle osterie del centro storico di Parma, lasciandosi accompagnare nella degustazione dalla musica di artisti locali affermati. Questa è in sintesi l’esperienza immersiva che offre il Barezzi nei quattro giorni centrali del festival – perché tuttavia non è da dimenticare il Barezzi Way, ovvero l’anteprima che quest’anno ha visto il collettivo londinese Kokoroko rinverdire la sinergia col festival Aperto di Reggio Emilia, il 15 ottobre al teatro Valli, e Vinicio Capossela coi suoi “25 anni di canzoni a manovella”, quattro giorni dopo al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano – mentre poi ci sono i concerti veri e “pesanti”.
Si parte il 13 con i redivivi Mum al piccolo teatro di Busseto. Il collettivo islandese si è insinuato negli spazi spalancati dell’anima con la delicatezza di un decadentismo crepuscolare fatto di suoni ovattati e voci vellutate, al netto di misurate fibrillazioni che sporadicamente hanno enfatizzato una dimensione tendenzialmente acustica che non prevede roboanti colpi di scena, in una scaletta in perfetto equilibrio tra presente e passato. Venerdì e sabato ci si trasferisce al teatro Regio di Parma per le due doppiette combinate e ad aprire, alle 18.00 del venerdì, sono i King Hannah. Che ancora non hanno scelto se essere carne o essere pesce alimentando quel grande “boh” che evidentemente a loro non fa difetto, poiché se le canzoni ci sono ed è probabile che continueranno ad esserci, intorno ci si chiede se un compitino svolto in maniera così schematica e lineare sia il risvolto di una precisa volontà di apparire tanto algidi e distaccati o piuttosto l’effetto di un deficit di personalità che nel frattempo si è manifestato in tutta la sua evidenza. Per un’ora o poco più il palco del Regio è sembrato una prateria così sterminata che se Hannah Merrick e Craig Whittle sono riusciti a non perdersi è stato solo per il palpabile affetto del loro pubblico, che li adora a dispetto dei santi. Al contrario, dalle 21.00 quello stesso palco si è fatto capanna calda e accogliente in sospensione tra le luci soffuse e la musica di Tom Smith, venuto a Parma per presentare in esclusiva il suo primo album da solista, “There Is Nothing In The Dark Which Isn’t There In The Light”, in uscita ai primi di dicembre. Accompagnato da Nick Willes con chitarra e tastiera, a Smith basta davvero un nulla per creare quella morbida comunità d’animo col proprio pubblico, che ovviamente in larga parte è lì per lui come frontman degli Editors prima che per ogni altro motivo, e se questo lo si poteva immaginare, forse lui per primo non si aspettava un’accoglienza così calorosa. Di poche parole e con molta voglia di suonare, in chiave rigorosamente acustica, Smith assolve egregiamente al gravoso compito di rileggere alcuni dei pezzi più noti della sua band d’origine (Blood, Papillon e Munich le più applaudite), che in continuità col suo importante registro vocale si alternano ai pezzi del nuovo disco facendo un tutt’uno di confidenzialità e fragilità emotiva. Personalità da vendere ne ha pure Anja Franziska Plaschg, in arte Soap&Skin, che alle 18.00 del sabato si presenta sul palco del Regio con una The End dai toni lievi e minimali accompagnandosi col suo piano ibrido Feurich, per poi salire di registro in modo esponenziale cantando con temperamento ed eleganza in inglese, tedesco e italiano un repertorio che spazia trasversalmente dal classico al contemporaneo, evidenziando altresì una sorprendente versatilità nella scelta delle cover – oltre all’omaggio iniziale ai Doors, Me and Devil Blues di Robert Johnson, Mawal Jamar di Omar Souleyman, Gods and Monsters di Lana Del Rey e Pale Blue Eyes dei Velvet Underground – con le quali ha valorizzato d’enfasi la sua per certi versi già funambolica esibizione.
Alle 21.00 arriva finalmente il momento degli headliner dell’intera rassegna, ossia gli Spiritualized, che sul palco de “La prima estate” di Camaiore, a metà giugno, avevano risvegliato emozioni sopite da tempi antichi e lo stesso Jason Pierce aveva dato l’impressione di aver fatto pace con sé stesso e risolto le sue “vicissitudini” psico-fisiche. Cinque mesi dopo quelle stesse sensazioni accendono una luce più che lusinghiera in proiezione futura ma se un appunto sul concerto si volesse proprio fare, è solo quello di non aver osato con un surplus di pezzi del primissimo periodo per dilatarne ulteriormente la dimensione onirica, in un teatro anima e cuore tutto (esaurito) e solo per loro. I primi quindici minuti di Cop Shoot Cop avevano di molto alzato le aspettative e con Shine A Light, a stretto giro, si era già naviganti senza bussola; poi ad un certo punto si scorge il bagliore in un lontanissimo riverbero degli Spacemen 3 (Take Me To The Other Side) e in tutta onestà quello poteva anche essere l’approdo definitivo, ché la pace del cuore per una sera poteva dirsi raggiunta. Per la serata finale del festival si torna in provincia, nel piccolo e meraviglioso teatro di Fidenza, per il concerto di Micah P. Hinson, un personaggio tra le cui certezze acquisite, oltre le divertenti narrazioni del suo vissuto da texano adottivo, la sempre abbondante sudorazione durante i concerti e la capigliatura da mohicano nascosta sotto il cappello a tesa larga, c’è anche il sodalizio artistico con Alessandro “Asso” Stefana alle chitarre e alla tastiera e Paolo Mongardi alla batteria. Anche se leggermente imbolsito rispetto al Barezzi di due anni fa, Hinson rimane garante di sé stesso e della sua beffarda leggerezza, malcelata da una voce a cui non ci si abitua mai del tutto. Aveva un disco nuovo di zecca da cantare (“The Tomorrow Man”) e in un’ora e mezza non ha lesinato nulla, gigioneggiando con la sua chitarra ad altezza delle spalle, esternando con passione la sua premura per il popolo palestinese e infine chiudendo con un grande classico, The Same Old Shit. Anche per dire che la serata di fitta pioggia autunnale là fuori, alla fine, non è nemmeno tra le cose peggiori che ci possano capitare. Andrea Amadasi
The Schizophonics
Hootananny, London, 12 novembre 2025
Qualcuno dice che i californiani Shizophonics da San Diego sono una delle migliori rock’n’roll live band attuali, per cui mi dirigo a Brixton per constatare la veridicità di tale convinzione. Gli apripista Top Left Club, quartetto di Brighton, convincono col loro energetico set di synth-punk dai ritmi serrati - tra Stranglers e Ramones - e inaspettatamente entusiasmano quando, col bassista al microfono, si d-evolvono in una versione post Brexit piacevolmente tamarra del quartetto di Akron (aiutati dalle tute multicolorate indossate e da una bella presenza scenica teatrale). I coniugi Beers (Lety alla batteria) e Pat (voce e chitarra) approvano in pieno divertendosi come ragazzini mentre ballano con noi sotto il palco. Poi tocca a loro. Pat, pacato e quasi timido durante la nostra chiacchierata pre concerto, parte col primo riff che immediatamente innesta il processo di trasformazione che lo tramuta in un irresistibile ed esuberante frontman tra incontrollabili salti, vertiginosi volteggi, pericolose piroette, genuflessioni e contorsioni, giravolte da capogiro e capriole da circo equestre che continueranno per l’intera serata, il tutto mentre imbraccia la chitarra che viene suonata per la maggior parte sempre e solo con la mano sinistra, dato che la destra è impegnata a maltrattare l’asta del microfono che volteggia pericolosamente nell’etere. Con Pat zuppo di sudore dopo solo il brano di apertura (!) partono le selvagge Steely Eyed Lady e Streets of Heaven and Hell, che azzerano ogni nozione spaziotemporale trasportandoci nell'infuocata Detroit degli MC5. Non mancano i momenti di evangelizzazione alla Ian Svenonius, per cui ecco Pat che, da buon predicatore, prima incita il pubblico col singalong, poi invita a duettare chi ha il fegato di stargli dietro e infine si scaraventa direttamente sotto il palco continuando i suoi frenetici esercizi ginnici per ben due canzoni battezzandoci copiosamente con raffiche di sudore strizzato via grazie ai rapidi movimenti rotatori da trottola impazzita. Lo show, imprevedibile e caotico, è sempre sull’orlo del collasso, cosa che miracolosamente non avviene grazie alla sezione ritmica che tiene tutto insieme sulla via di Lety, novella Moe Tucker anfetaminizzata e di basso potente dell’amica Sarah Linton delle garage rockers Death Valley Girls. Tra gli originali trova spazio la cover Shake Baby Shake di Jack Dupree che forse però è A Whole Lotta Shakin Going On (non lo sapremo mai, dato che non c’è traccia di setlist sul palco) e Riff Raff degli AC/DC, che conclude la serata confermando che Pat, figlioccio bastardo di Little Richard, James Brown ed dello Ian sopracitato, è un ossesso, appestato dal verbo del fuoco sacro del rock, vittima sacrificale e carnefice: gli Shizophonics sono veramente una delle migliori rock’n’roll live band attuali. Ferruccio Guglia
Širom
RichMix, Londra,15 novembre 2025
La lungimirante programmazione del sempre attento promoter londinese Baba Yaga ci offre la prima data europea del terzetto sloveno Širom, ovvero quanto di meglio l’universo avant folk possa attualmente offrire. Peccato che gli irlandesi Rún, che avrebbero dovuto aprire la serata, siano impossibilitati ad esibirsi a causa di un infortunio alla cantante: la sostituta, una ragazzina del Lancashire che si presenta col nome d’arte Thorn Wych, ci ammalia per una trentina di minuti con un mantra dronico che si erge sulle corde pizzicate dello strumento autocostruito da un ramo di olmo montano (“wych elm” in inglese, da cui l’alias da lei scelto) mandato in loop su cui improvvisa con flauti e corde varie salmodiando canti devozionali in una lingua misteriosa e sconosciuta, il tutto filtrato attraverso pedali in delay e pitch bending (manovrati con le dita dei piedi) che aumentano esponenzialmente la singolarità della proposta.
Dopodiché, facendo bene attenzione alla miriade di strumenti e oggetti dislocati sul palco, il trio sloveno entra in scena. Samo accarezza l’arpa, i delicati tocchi del balafon di Ana invitano le tre corde basse del guembri di Iztok e parte Between the Fingers the Drops of Tomorrow Dawns, un viaggio di 17 minuti di misteriosa arcana bellezza con la ritmica del tamburo a cornice di Samo a scandire il ritmo. Le struggenti corde del banjo sfregate con l’archetto da Iztok si intersecano con quelle toccanti del liuto di Samo e preannunciano l’accecante delirio estatico raggiunto grazie ai vocalizzi di Ana. I gorgheggi continueranno nella successiva Tiny Dewdrop Explosions Crackling Delightfully con iniziali ritmiche gamelan ed intenso crescendo delle corde di Ana (il ribab prima e il violino dopo), il banjo di Itzok e la lira di Samo che aggiunge un ulteriore strato di straniante fascino grazie ai vertiginosi vortici ciclici dell’hurdy-gurdy con Ana, impegnata a emettere una sequela di timbriche percuotendo una miriade di tegami, casseruole, pentole e paioli di varie dimensioni. La serata si conclude con i trenta minuti del medley Curls Upon the Neck… e The Hangman’s Shadow Fifteen Years On, con inizio da musica classica, quasi liturgica, e progressiva, inesorabile esplosione ritmica con le basse corde di Samo accompagnate dalle tormentate grida che sembrano riecheggiare le urla di tutte le popolazioni afflitte e perseguitate di questo pianeta in un intenso crescendo che le tramuta un una voce sola, dolorosa e sofferta: quello della stessa terra stremata, violentata e umiliata dalla crudele stupidità umana. Il finale percussivo suona come l’auspicio di un agognato ribelle riassetto tellurico necessario per motivi di mera sopravvivenza ma forse, più prosaicamente, è la mera rappresentazione sonora del rovinoso sfacelo attuale. L’unica certezza è che in questa triste epoca di pericolosi nazionalismi, brutali divisioni e intolleranze, lo splendore atavico e la magnificenza arcana dei Širom è necessaria, indispensabile, obbligatoria. Ferruccio Guglia
Le Guess Who?
Utrecht, diverse location, 6-9 novembre 2025
Un’altra narrazione, un punto di vista più intrigante e colorato. Scomponiamo i fattori e partiamo da un episodio. Bordo palco, ingrandimento, siamo quasi al termine della performance degli [Ahmed] – collettivo internazionale con base a Londra e guidato spiritualmente dal pianista Pat Thomas – senza ombra di dubbio una delle più intense dell’intero festival. Vedo un paio di loschi figuri che si agitano, si dimenano, uno di loro addirittura incita Pat con il pugno chiuso, in una trance emotiva che travalica addirittura il ‘concerto rock’, calandoci idealmente nelle spire del tifo da stadio. È Greg Anderson, che, con il fido Stephen O’ Malley al fianco, appena terminata la performance dei Sunn O))) si precipitano ad ascoltare una delle realtà più sfuggenti di tutto il tribolato universo free jazz contemporaneo. Suonano alla velocità della luce gli [Ahmed], un quartetto che prende il radicalismo della musica libera e lo sovverte inseguendo nuovi modi d’uso. Un dizionario fatto di strappi, micro-fratture, frammenti infinitesimali che si susseguono impunemente rimettendo in scena l’atto sacrificale che un tempo fu dei migliori combo apparsi sotto la gloriosa sigla ESP Disk. Ma non pensate ad un’opera di restaurazione, l’urgenza metropolitana del loro suono è un unguento, una curativa forma di intrattenimento alto nelle maglie del grigiore urbano. L’episodio ci aiuta comunque a capire quanto sia autentico lo spirito ‘comunitario’ del festival, coi suoi curatori, coi musicisti che collaborano a più riprese occupando diversi spazi, rispondendo ad una necessità artistica incontaminata. Alle soglie del ventesimo anniversario che si consumerà l’anno venturo Le Guess Who? conferma la totale demolizione degli steccati indie con cui aveva in qualche misura avuto a che fare nei primi anni di esistenza. La manifestazione è transglobale, con protagonisti provenienti anche dai più remoti angoli dei cinque continenti.
Una delle tante vette performative del festival – il gusto personale orienta immancabilmente le scelte– è nel gioioso e animato live del trio afro-americano di Portland Cosmic Tones Research Trio. Investiti da due ottime pubblicazioni per Mississippi, i nostri già nella sigla rimandano alle nobili intenzioni dell’Arkestra, puntando però ad un approccio che rivela inedite soluzioni cameristiche. Sassofono, violoncello e piano mutano linguaggi jazz con una gentilezza che per assurdo potrebbe essere quella della Penguin Cafè Orchestra precipitata nell’universo black. Più massimalista in questo senso l’approccio del gruppo guidato dal batterista sud-africano Asher Gamedze (with A Semblance), una musicalità che nasce dalla grande tradizione degli esiliati inglesi (gli originali Blue Notes) per connettersi agli universi di hip-hop, downtempo e improvvisativa. Una lezione di storia si concretizza invece nelle parole e letture del campione di slam poetry Saul Williams, oggi intellettuale ‘lisergico’ che attacca con una sentita reprimenda per i coloni olandesi. Sull’onda della fondazione di New Amsterdam e dei commerci sregolati della Dutch East India Company, un testo fiume musicato da Carlos Nino alle percussioni e Surya Botofasina al piano elettrico ed acustico. Spoken ambient-jazz che attraversa le dolorose maglie del nostro tempo, un percorso di autocoscienza che rimette al centro l’individuo tartassato dai conflitti e dalle contraddizioni dei tempi moderni. Un appello ancora più sinistro in un momento in cui il confronto sui ‘territori’ è lungi dall’esaurirsi. Perché questo festival è politico, centrato, avverso a ogni forma di offesa e sentire guerrafondaio. Una delle curatrici di questo festival è Valentina Magaletti, che ho avuto il piacere di osservare in coppia con Upsammy in un mirabolante dialogo organico tra batteria, percussioni ed elettroniche manipolate in tempo reale. Più diretto e contaminato con la club culture l’altro progetto V/Z, condiviso con il bassista dei Vanishing Twin e storico producer elettronico Zongamin. L’astrazione è invece di rito nell’incontro tra Nicholas Jaar e il vocalist pakistano Ali Sethi, dove i linguaggi della tradizione sufi e dell’elettronica più minimalista trovano un terreno fertile in cui avvicendarsi. La storia viene spesso rivista e corretta in questi ambiti così spugnosi e capienti. C’è il ritorno delle leggende reggae Congos, da cui mi smarco senza rimorsi, mentre non resisto alla rinnovata veste dei Pram, architetti sonori che tanto fecero nel circuito del cosiddetto post-rock inglese. La loro notturna poetica wave-cabarettistica non perde un’oncia dell’originale afflato, trasportandoci di nuovo in sibilline stanze segrete. Citazione d’onore anche per i libanesi Ghadr, in pratica un offshoot dei Sanam in chiave decisamente post-industrial, e l’onorato meeting tra il produttore Al Wootton e la vocalist e musicologa - anch’essa libanese - Youmna Saba. Per quattro giorni il mondo si incontra idealmente nelle ariose sale dell’auditorium Tivoli, dei club circostanti e delle chiese messe gentilmente a disposizione dalla giunta locale. Un miracolo, non riesco a trovare altro termine. Luca Collepiccolo
Rob Mazurek / “This Ever Existence Flare”
Reggio Emilia, Teatro Ariosto, 8 novembre 2025
Il trombettista e compositore Rob Mazurek, musicista fra i più operosi e apprezzati della scena che si può genericamente definire avant-jazz, è anche pittore che considera la pittura come un’estensione della musica: ogni suo quadro è una “partitura visiva” caratterizzata da forme astratte, colori intensi e segni gestuali, che richiamano l’energia dell’improvvisazione nel jazz. Come già diverse volte in passato in sue performance multimediali, anche in “This Ever Existence Flare”, opera “totale”coprodotta da AngelicA e dalla Fondazione I Teatri e rappresentata a Reggio Emilia al Teatro Ariosto in prima mondiale, ha fatto dialogare le immagini delle sue pitture (digitalizzate in video manovrati caleidoscopicamente da Mathieu Constans) con la musica, con una voce recitante e con canti singoli e corali, creando un’esperienza multisensoriale potente e sofisticata di grande impatto visivo e scenico. Il testo del libretto, pure esso scritto da Mazurek ispirandosi a “Book Of Sound” di Damon Locks che, sotto lo pseudonimo immaginario di Helder Velasquez Smith, nella formazione è la voce narrante, intreccia fantascienza, filosofia e visioni poetiche in una narrazione che si sviluppa in tre atti con flusso continuo senza intervalli.
Il gruppo, denominato significativamente “Immortal Birds Bright Wings”, è formato, oltre che da Mazurek alla tromba e al citato Damon Locks voce recitante, alle elettroniche e alla danza, da Fabrizio Puglisi al pianoforte (pure assistente musicale in fase di messa a punto durante le prove), Koun Jeong al gayageum e al piano elettrico, Pasquale Mirra al vibrafono, Danilo Gallo al contrabbasso e al basso elettrico, Mauricio Takara alle percussioni e percussioni elettroniche, Cristiano Calcagnile alla batteria e un coro di quattro voci: Rachele Amore, Silvia Fiume, Elisa Giovanditti e Alessandra Franchina. Proprio il coro è stato il fulcro musicale dell’intera architettura, assumendo l’importanza che aveva nel teatro greco, quindi pure introducendo e commentando gli eventi, fornendo informazioni di contesto e anticipando sviluppi. Stilisticamente, sempre mescolandosi con gli strumenti e la voce narrante, questo coro s’è avvicinato al gospel e ai canti di lavoro, all’uso potente che ne ha fatto Max Roach in “It’s Time”, ai duetti emozionanti in “West Side Story” di Leonard Bernstein, genericamente al canto jazz e folk, anche con momenti avvincenti di rimescolamento turbolento (un plauso alle bravissime giovani coriste, intonate, ben amalgamate, espressive, scese perfettamente nella parte).
La musica strumentale, sia quando s’è mescolata al coro o ha commentato e sostenuto la voce narrante, sia quando s’è presentata autonomamente, ha formato quadri a sé stanti di differenti impostazioni, dai più chiassosi e concitati a quelli più pacati. È stata perfettamente ingabbiata da Mazurek in strutture precise, ma dando sempre un’idea concreta di libertà, dove alle parti scritte si si sono aggiunte, mantenendosi sulla stessa lunghezza d’onda espressiva, quelle improvvisate, spesso arrivando a momenti simil-free, con l’instancabile superbo vibrafono di Mirra protagonista, Puglisi a sottolineare la bellezza della scrittura, Koun Jeong a dare afflato orientaleggiante con il gayageum, Gallo, Takara e Calcagnile a supportare ritmicamente con fantasia ed estro e concretizzando qualche episodio africaneggiante con una fitta poliritmia, infine il leader che s’è limitato a quattro non lunghi interventi solistici, ma ogni volta conferendo ancor più incisività al contesto attraverso il suo teso, spezzato e discontinuo fraseggio con cui alterna note acute e penetranti con suoni gravi e distorti. Aldo Gianolio
“Festival dei Popoli” 66a ed.
Firenze, 1-9 novembre 2025
La 66ma edizione del Festival dei Popoli sono stati presentati due documentari ispirati a Firenze e alla musica rock fiorentina. Il primo, “Piero Pelù. Rumore dentro”, già proposto fuori concorso alla 82ma. Mostra di Venezia, è un film di Francesco Fei, regista fiorentino, autore di video musicali e documentari o docufiction su artisti, e di Piero Pelù, che ha contribuito al soggetto e alla sceneggiatura. Il film descrive come un diario l’incidente verificatosi nel 2022 e il percorso di recupero. Un cambio di cuffie in sala di registrazione ha provocato uno svenimento e un danno al nervo acustico, un acufene, un ronzio permanente non legato a sorgenti sonore. Questo ha costretto Piero ad interrompere tour programmati e a stare per un po' lontano dal palco. È un problema - come ha detto Piero nel dibattito seguito alla proiezione - di cui soffrono molte persone: il 10-15% della popolazione adulta mondiale e, solo in Italia, più di 6 milioni. Problemi di udito ebbe Beethoven, che rimase sordo progressivamente a partire dall’età di 30 anni, eppure compose opere straordinarie in seguito. Nel rock o il pop, in cui la esposizione a volumi sonori elevati è frequente, di acufeni o ipoacusie hanno sofferto o soffrono molti musicisti, fra cui Eric Clapton, Phil Collins, Sting, Brian Johnson (AC/DC), Dave Grohl, Lars Ulrich (Metallica), Antony Keidis (Red Hot Chili Peppers), la buonanima Ozzy Osbourne (Black Sabbath) e pure Neil Young, Pete Townshend, Chris Martin (Coldplay) e Noel Gallagher. Questo fastidioso ospite che Piero si porta da allora dentro è diventato uno stimolo per una immersione nel mondo interiore e per una successiva ripartenza in chiave di viaggio, di cui il film mostra il toccante svolgimento. Un percorso on the road e off road, in cui la musica accompagna il protagonista. Piero ci mostra questa evoluzione sofferta ma orgogliosa utilizzando frammenti del suo sconfinato archivio video. Si avvicendano sullo schermo i compagni di avventura, gli amici a partire dai Litfiba. Il viaggio ha echi spirituali insospettabili, con il pellegrinaggio a Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue, per Santa Sarah la Nera, santa laica non riconosciuta dal calendario e protettrice di gitani, viaggiatori e migranti, il cui nome Piero si è fatto tatuare. Dalla dimensione autobiografica riemerge con determinazione la voglia di esserci e andare avanti, con la musica e per la musica, con il consueto stile schietto, libero e irriducibile e con la coerenza che sempre in lui abbiamo ammirato. Piero è artista inossidabile e resiliente, sempre sensibile alle battaglie alte, alle questioni sociali e, come dimostra il caso della vertenza GKN, ai problemi drammatici del mercato del lavoro.
Il secondo docufilm è "Uscivamo molto la notte" di Stefano Pistolini, giornalista, scrittore e regista, col contributo di Bruno Casini, brillante animatore della stagione irripetibile che va dal ‘79 ai primi anni ‘80, in cui Firenze, in uno dei suoi tanti "rinascimenti", diventò sede di un movimento vivace ed emozionante della cultura giovanile, attirando per il suo dinamismo folle e figure intellettuali dal resto dell'Italia e dall'estero, fra cui Pier Vittorio Tondelli. Una stagione di creatività, una tendenza al divertimento appassionato e alla creazione di locali di culto spesso ricavati in spazi angusti o di fortuna. Sono stati protagonisti una moltitudine di club leggendari come Banana Moon, Manila, Tenax, Casablanca, Rockoteca Brighton, Nel film, impostato come flusso di immagini e ricordi, compaiono i personaggi che hanno contraddistinto quella epoca: Piero Pelù e i Litfiba, i Diaframma, i Neon, Sandro Lombardi dei Magazzini Criminali, Federico Fiumani e le immagini evocative di una esplosione di energia e di edonismo improvvisato ma vincente. Si parla di negozi di vinili come Contempo Records, diventato poi etichetta discografica. Oggi di dischi se ne vendono pochi ma i concerti si continuano a fare, recuperando o valorizzando alcuni siti periferici, anche se forse una organizzazione complessiva ed efficace degli spazi di aggregazione in città non c’è. La volontà di provare il nuovo, con un approccio artigianale e schietto in cui si mescolavano le nuove tendenze musicali con gli influssi che arrivavano dall'estero, soprattutto quello del punk e della new wave, la moda, la conversione in oggetti glamour dei tessuti poveri, in generale la valorizzazione delle idee, il teatro di avanguardia. Bruno suggerisce di trarre da quella stagione irripetibile spunti da riutilizzare nel presente e per il futuro: alcuni gruppi o musicisti dell'epoca sono ancora attivi e anche se nel complesso c'è stato uno smorzamento dell’attività rispetto a quella fiammata, lo spirito resta intatto dentro tutti noi. Giuseppe Barbagli
“Club2Club Festival”
OGR – Lingotto, Torino 30/10-02/11 2025
Questa è stata un’edizione speciale per chi da tempo frequenta il festival torinese: un viaggio ascensionale “per aspera ad astra” (come recita il motto di quest’anno), dedicato alla memoria del suo fondatore e direttore Sergio Ricciardone, scomparso l’anno scorso. La commozione era palpabile, la partecipazione copiosa ed entusiastica.
Il ritorno alle Officine Grandi Riparazioni di Torino per la serata di giovedì è stata una sorpresa gradita. Era attesissimo il set di Daviel Blumberg, l’ex-indie rocker fresco di premio BAFTA per la colonna sonora di “The Brutalist”: ma l’idea di impostare il live sui droni di viola e contrabbasso, sparsi samples elettro-acustici e melodie strozzate ha lasciato un po’ perplessi. Meglio gli YHWE Nailgun, a cui va tutta la nostra simpatia per il nome geniale: un live muscolare fra poliritmie di rototom, bassi synth tellurici, chitarre snaturate e boati vocali alla Burzum. Per contrasto, fil di voce, pad eterei, arpeggiatori e ritmiche acustiche: tanto gentile e tanto onesta è parsa la performance di Jenny Hval.
Si sa che i giorni caldi del C2C sono il venerdì e il sabato. I due enormi hangar del Lingotto, messi in comunicazione dall’ormai iconico (e super-instagrammabile) corridoio stellato, soprattutto venerdì erano tutto un brulicare di corpi, una folla ulteriormente accresciuta da molti avventori stranieri, francesi in testa. Il cartellone conferma la mutazione da evento quasi esclusivamente incentrato sull’elettronica (da ballo) a esperienza sfaccettata e aperta a espressioni musicali diverse, come la delicata collaborazione piano-voce di Nicholas Jaar e Ali Sethi. Mentre racchiusi nel cerchio mistico del turrito Stone Island Stage impazzavano i beat calibrati di Barker, nella sala principale il pubblico cadeva nella rete delle corrispondenze amorose di Iosouncane e Daniela Pes, al debutto ufficiale della nuova collaborazione: forse uno dei momenti più intesi, sicuramenti dei più austeri. Decisamente sdrammatizzante lo show di Saya Gray, all’insegna del funambolismo strumentistico, fra chitarre-basso doppiomanico e ingombranti costumi e tracolle pelouche: praticamente la versione nippo-canadese femminile del Prince più giullaresco. Il lato più romantico e leccato del re di Minneapolis non poteva invece che reincarnarsi in Devonte Hynes aka Blood Orange, salito sul main stage davanti a una folla di accoliti desiderosi di sciogliersi al suono dei miagolii suoi e delle sue controfigure vocali. Pregevole l’idea di non avere visual, solo riprese di schiena a conferire un’aura di intima fragilità a un set quasi tutto incentrato sull’ultimo, fortunatissimo, “Essex Honey”: salvo alcune chicche irresistibili come l’accenno di How Soon Is Now? degli Smith per voce e violoncello elettrico (delirio puro!). I set di Djrum e DJ Python hanno chiuso in bellezza il venerdì, lasciando ancora inespresso qualche spasmo estatico nelle membra.
Personalmente ero molto curioso di vedere i Model/Aktriz alla prova del nove: il loro set di due anni fa alle OGR mi aveva folgorato. L’attesa è stata ripagata. Sabato, nonostante l’orario da tg delle 20:00, la band canadese ha letteralmente infuocato il main stage, colmando la sete diffusa di cassa-dritta. Cole Haden, più istrionico e camp che mai, ha letteralmente smosso le masse, una specie di Mosé queer a officiare un rito tribale, fra cavalcate techno-industrial e riff math-rock: uno dei live act migliori degli ultimi anni. A seguire Nourished by Time ha scoccato tutti i dardi d’amore del suo ultimo “The Passionate Ones”: una scrittura onestissima, una voce sincera, puro pop come non se ne sentiva da un po’. Nel mentre intorno all’Isola di pietra e concrezioni di casse come stalagmiti andava in scena il “porco comizio” (quote) di John Maus, a metà fra una convention alt-right e una lezione di aerobica per scoordinati seriali. Se non abbiamo sentito (se non belle vibrazioni per interposta persona) il set di Los Thuthanaka, è solo perché eravamo mesmerizzati nelle sinestesie acido-digitali del principe della pc music A. G. Cook e il livello di zucchero sintetico nelle vene era troppo alto per non schiumare felici. A rincarare la dose i dj set di Floating Points e Fourt Tet: ok, largo ai giovani, viva il progresso e il turn-over generazionale, ma quando si tratta di farla salire fino alle punte della chioma-fantasma, la cara vecchia techno, il sempre-verde artigianato di chi mescola pozioni ritmiche da lustri e decenni, è insostituibile. Il premio, la cura, la redenzione. Ancora una volta il rito si è compiuto e abbiamo visto le stelle.
PS. Domenica eravamo troppo a pezzi, ormai su treno veloce verso il purgatorio. Chi ha avuto la forza di vedere Billy Woods e le Smerz, ha detto che sono stati una bomba. E noi ci crediamo. Crediamo sempre. Diego Palazzo
Laurie Anderson
"Romaeuropa Festival", Roma, Auditorium, 3 novembre 2025
Nell’ambito del “Romaeuropa Festival”, troviamo affollatissima la sala S. Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, sia in platea che in galleria, per Laurie Anderson, che non ha certo bisogno di presentazioni poiché è in pista da oltre quarant’anni (oggi ne ha settantotto ma è in splendida forma anche se, spiega, è reduce da un’operazione alla spalla che le impedisce di suonare correttamente il violino). Da sempre al crocevia tra musica, arti visive, linguaggio e politica, la carismatica artista americana ha spesso detto di sé stessa di sentirsi una “balladeer”, vale a dire una compositrice e una cantante di ballate, qualcosa che in italiano potremmo forse tradurre, più che con “cantautrice”, con la parola “cantastorie”: una cantastorie dei nostri tempi che, invece dei cartelloni disegnati che si usavano nella tradizione popolare per illustrare i fatti narrati nelle canzoni, si avvale di schermi e computer e si fa accompagnare dai Sexmob, una band di tutto rispetto con batteria, due violini, basso, chitarra e strumenti a fiato. E, dunque, di “storie” si tratta, di storie americane, soprattutto, ma calate in ambiente cosmopolita e, soprattutto, urbano: lo dice quando afferma (proprio questa parte in inglese, perché poi ha parlato spesso in un buon italiano) che lei non passa da una nazione all’altra ma “da una città all’altra” e che “bisogna lasciare aperto questo circuito di città per farci passare dentro la musica, l’arte, la moda”. Storie americane, dunque, che attraversano un’intera carriera: Big Science, per esempio, presentata quasi all’inizio (dall’album omonimo con cui si affermò, uscito nel 1982), che è una raggelata fotografia dell’America di quegli anni tra “shopping mall”, “sports centers” e “drive-in banks” o Language is a Virus (espressione presa da William S. Burroughs), un altro classico del suo repertorio, che le serve a intensificare il discorso sulla società americana che proprio sul linguaggio e il suo uso vive da anni accese controversie. Scorrono, intanto, le immagini sul grande schermo a sostenere la narrazione e si sovrappongono a quel parlato filtrato dall’elettronica che è sempre stato il suo marchio di fabbrica e, oltre a Burroughs, appaiono i volti di altri grandi nomi della controcultura americana come, tra gli altri, Allen Ginsberg, John Cage, Cornel West e, ovviamente, l’amato Lou Reed. In Coolsville, è ancora una città al centro del discorso ma, questa volta è un luogo della fantasia, dove tutto è perfetto ma dove “alcune cose sono solo figure, sono scene davanti ai tuoi occhi”. Beautiful Red Dress è invece una riflessione sul ruolo della donna nella società odierna mentre Bodies in Motion ritorna sul rapporto tra esseri umani e modernità o, più precisamente, tecnologia, con il movimento dei corpi a fare da metafora del processo di civilizzazione: un corpo, quello dell’artista stavolta, che in Drum Dance, diventa cassa di risonanza di percussioni elettroniche. It's Not the Bullet that Kills you, it's the Hole, affronta l’apparente paradosso che è il buco (cioè, il vuoto), che uccide, più che il pieno (il proiettile), vale a dire che sono le conseguenze di un trauma a fare male, non il trauma stesso. Se mancano brani storici come From the Air e O Superman, resi famosi dall’uso del vocoder, c’è, però, un inaspettato omaggio a Bob Dylan, che Laurie Anderson dichiara di amare perché “ha sempre raccontato dei perdenti”, con una versione sgranata e dilatata di Hard Rain’s Gonna Fall, su un tappeto elettronico che, del resto, è il taglio che viene dato a tutto il concerto, un concerto in più momenti animato a ritmo di reggae ma che, soprattutto, dall’instancabile ricerca sonora costantemente perseguita da Laurie Anderson trae il suo fascino. La serata si conclude con alcuni movimenti di Tai Chi, da lei praticato con Lou Reed, che i presenti sono invitati a seguire, non senza qualche perplessità, visto che, all’Auditorium, gli unici spazi in cui ci si può muovere sono i corridoi tra le file delle poltrone… Giovanni Vacca
Swans
Teatro Nuovo/Ferrara sotto le stelle, Ferrara, 3 novembre 2025
Due ore e mezza di Swans col loro registro liturgico in sei atti formali dilatati su misure extra large sono oggettivamente tanta roba, nel bene e nel male. Di quello che viene indicato come l'ultimo tour del gruppo al completo, a supporto di “Birthing” – poiché Michael Gira ha dichiarato che le future uscite della band saranno “significativamente ridotte” e lui non ne sarà più il produttore principale in quanto tutto degli Swans è evocazione di qualcosa in divenire, certamente perentorio e monolitico come lo stesso “Birthing”, ma in divenire. In ogni caso, signore e signori, dopo il brevissimo set “gothic wave” di Jessica Moss (in passato già nei Thee Silver Mt. Zion) per violino, voce e pedali assortiti, ecco a voi gli Swans, che sono Dana Schechter (basso e tastiere), Phil Puleo (batteria), Norman Westberg (chitarra), Kristof Hahn (steel guitar), Christopher Pravdica (basso) e Larry Mullins (percussioni). Tutti intorno al centro di gravità che è Michael Gira, col suo istintivo ed energico sciamanesimo che gli consente di padroneggiare il palco e gestire le vampate al calor bianco con l’eleganza di un totem. The End of Forgetting è solo l’inizio e rappresenta già il paradigma di ciò che succederà incessantemente per le due ore a seguire: l’entrata lenta e ipnotica di ogni strumento con Gira a salmodiare versi con una voce borderline tra assonanza e dissonanza, poi l’accelerazione costante e la crescita d’intensità fino a diventare qualcosa di imponente e totalizzante. Una potenza avvolgente e respingente allo stesso tempo, una forza centrifuga al cui confronto anche il droning estremo dei Sunn o))) di Stephen O’Malley potrebbe sembrare all’acqua di rose. E se i tappi alle orecchie fanno il possibile per attutire l’impatto, i timpani dei coraggiosi che sono accorsi fin da subito sotto il palco avrebbero potuto sanguinare già dopo i primi venticinque minuti di concerto, mentre Christopher Pravdica ha già il fiato lungo di chi ha corso una maratona. Paradossalmente, però, da qui e sino alla fine sono stati proprio i momenti più incandescenti, ma ritmicamente anche molto groovy, quelli verso cui è stato più naturale abbassare le difese, ché nella veemenza dei vortici sonori reiterati all’infinito il movimento del corpo ad assecondare le battute è inebriante e contemporaneamente salvifico. Nel bene e nel male, come si diceva all’inizio, perché confrontarsi con questi Swans dal vivo non poteva essere una sfida facile, e infatti da metà concerto in avanti in molti hanno voluto rinunciare, perdendosi oltretutto l’esilarante presentazione finale che Michael Gira ha fatto dei suoi colleghi di palco. Robe tipo father of Bruce Springsteen, mother of Beyoncè, father of Frank Sinatra e altre amenità distribuite a caso almeno lì, in quel momento in cui per una volta il rumore di fondo stemperava la tensione anziché alimentarla. Andrea Amadasi
Teho Teardo
Sala dell’Ottocento in Galleria Nazionale, Complesso Monumentale della Pilotta, Parma, 31 ottobre 2025
Il titolo è “Twin Peaks and Other Infinitives” e il tema portante è dato dai suoni notturni registrati nei boschi dei monti friulani al confine con la Slovenia, riletti attraverso una trascrizione in musica e intrecciati a temi di compositori classici contemporanei come Angelo Badalamenti, Stefano Bollani, Barbara Strozzi e Henry Purcell. La rappresentazione al buio, con il pubblico sdraiato in rigoroso inquadramento in questo salone con le lunghe pareti laterali sovraffollate di dipinti accademici, è una logica deduzione rispetto alla genesi sonora del progetto, che si “materializza” dopo la brevissima introduzione orale e i due minuti accompagnati dal suono estemporaneo di alcuni campanacci, poi anche la luce rossa che illumina la postazione di Teardo si spegne del tutto. Da questo momento tutto ciò che è reale diventa molto marginale e l’esperienza d’ascolto si fa via via sempre più coinvolgente, sulle trame di una lunga suite dall'andamento sinusoidale con momenti di altissimo pathos ritmico alternati a suoni caleidoscopici, lisci e sinuosi. Sembra di stare nella realtà virtuale di un “Tron” senza gli assilli cibernetici e se qua e là si percepiscono echi lontani di Daft Punk come di Morricone e Piovani, a un certo punto, quando Teardo imbraccia la chitarra per introdurre il Laura Palmer’s Theme, viene spontaneo pensare che probabilmente avrebbe ottenuto risultato ancora migliore se al suo posto avesse suonato In limine, dal tema de “L’alligatore”, la serie Tv andata in onda qualche anno fa sulla Rai di cui egli stesso ha composto la colonna sonora. Detto ciò, è fin troppo ovvio concludere che “Twin Peaks and Other Infinitives” è un’esperienza da vivere preferibilmente dal vivo e in libertà da qualsiasi turbamento interiore, a patto però di riuscire, chi di dovere, ad agevolare l’approccio “fisico” del pubblico in modo più libero e rilassato che non come in questo caso, con la zavorra di trovarsi in uno spazio museale con tutte le fastidiose limitazioni del caso. Andrea Amadasi
The Bevis Frond
Paper Dress Vintage, Londra, 25 Ottobre 2025
In un mondo in continuo cambiamento è rassicurante ancorarsi alle poche certezze rimaste in giro. Per cui onore e gloria al sommo bardo di Walthamstow, Nick Saloman aka The Bevis Frond, che, noncurante delle mode passeggere, da ben quattro decenni ci delizia con la sua magica pozione di psichedelia atemporale elargita attraverso una generosa discografia il cui nuovo capitolo (triplo!) uscirà in primavera. “I am waiting here, not for the money, not for the gear, just for a hug, a little bit of recognition” canta il buon Nick in The Hug (tratta dall’ottimo “Focus in Nature” dell’anno scorso), per cui approfitto dell’invito e non perdo l’occasione di abbracciarlo prima del concerto, ritrovando la simpatica ed affabile anima gentile di sempre. L'aneddotica che accompagna Nick è proverbiale, ma a causa di un problema tecnico sorto dopo qualche brano (che si mangia ben 10 minuti del set) questa sera evita le tipiche, simpatiche digressioni tra un pezzo e l’altro, dopo che già all’inizio, per scusarsi della camicia celeste con balze d’annata che sfoggia, ci ha regalato questa perla introduttiva: “La mia squadra del cuore (il QPR) ha perso nuovamente per cui ho pensato di tirarmi su il morale acquistando questa nuova camicia, mi sembrava molto cool, ma adesso ripensandoci…sembro davvero un coglione!” Il riff semplice ma efficace di Hole#2 apre la serata, con l’assolo wah wah di Nick che lacera la parte centrale del brano, e si conclude con l’elettrizzante cover degli Open Mind Magic Potion. Nel mezzo ci stanno schegge di stentoreo hard rock (Maybe) che a tratti virano verso lidi blues (Stoned Train Driver), inni da capogiro (Old Worlde), dieci minuti alla Neil Young (Pale Blue Blood, con uno stratosferico riff di Paul Simmons), ben diciotto di avventurosa improvvisazione lisergica da liquefazione neuronale (Superseeder), un bel botta e risposta delle due chitarre (Mr Fred’s Disco) e ovviamente immortali gemme di perfezione pop (Flood Warning e le quasi-hits He’d be a Diamond e Lights Are Changing). Sembrerebbe che neanche il bel documentario uscito l’anno passato (“Little Eden, A Film About The Bevis Frond”) sia riuscito a dargli quel poco di notorietà che meriterebbe (nonostante l’endorsement di fan come Evan Dando e Teenage Fanclub) ma chi lo conosce sa bene che Nick è una specie in via d'estinzione, un monumento rock e un patrimonio da accudire gelosamente. La Corona Britannica dovrebbe immediatamente affibbiargli il titolo di baronetto!... Ferruccio Guglia
Uzeda
Wishlist Club, Roma, 16 Ottobre 2025
Bravi, se non bravissimi, i ragazzi di Wishlist che sono riusciti a intercettare gli Uzeda portandoli a Roma, dove non tornavano da qualche annetto: non è facile accaparrarsi le prestazioni dei catanesi, visto che la loro etica DIY li porta a non avere un’agenzia di booking, suonando quindi sporadicamente e senza un vero e proprio tour organizzato. Detto questo, dopo gli opening spettrali e horrorifici affidati alla chitarra e alla relativa loop station di Tuktu and the Belugas Quartet prima e al contrabbasso effettato di Caterina Palazzi poi, gli Uzeda salgono sul palco nella miglior forma possibile: mentre salgono sul palco potrebbero sembrare una qualunque cover band di paese, ma quando attaccano i jack diventano improvvisamente impossessati dal demonio. I diavoli del noise-rock, probabilmente. Il live - che passa in rassegna gran parte dell’ultimo “Quocumque jeceris stabit” del 2019 e qualcosa da “Stella” e dalle primissime cose - scorre sul filo del rasoio sin dalla prima nota: respiri il ferro grazie alla chitarra siderurgica e meccanica di Agostino Tilotta e al basso tagliente di Vincenzo Virgillito; Davide Oliveri, alla batteria, spariglia i tempi e li rende “contro” o “dispari” spiattando a più non posso mentre, in tutto questo rigurgito (spesso sul filo del funk o del crossover), la discola Giovanna Cacciola (una via di mezzo tra la Lydia Lunch più istrionica e growl e la Kristin Hersh più belluina) sembra andare in trance, salmodiando meravigliosamente. Insomma, mentre voci e singoli strumenti sembrano deragliare e collassare a più non posso, mai etica del suono è stata più compatta e integrata di questa. Gli Uzeda sono dei secchioni, divertiti (e divertenti), della matematica applicata al rock che incredibilmente (e questa forse è la magia di chi ha sudato tanto e ama sudare ancora e darsi al pubblico) riescono ad essere urgenti e sacrali, hic et nunc, come neanche dei ragazzini di 18 anni. E che dio ce li conservi più a lungo possibile. Tra i live dell’anno, tutti concordi dentro la sala. Marco Giappichini
C’Mon Tigre
Spazio Bianco DumBO, Bologna, 10 ottobre 2025
La sede è un lungo capannone all’interno di un’ex area ferroviaria facente parte di un progetto di rigenerazione urbana, che già solo alla vista, oltre che concettualmente, mette di buon umore. Il contenitore di eventi, per chiamarlo sommariamente così, è il ROBOT 16, il festival bolognese di musica elettronica e arti digitali ideato e organizzato dall’Associazione Culturale Shape sulle tracce di quello che fu il Netmage, dal quale ha preso più di qualche spunto e del quale ha poi raccolto l’eredità a partire dal 2011, anno dell’ultima edizione del festival organizzato da Xing. I protagonisti in questo caso sono i C’Mon Tigre, nel mezzo di un ricchissimo programma di live e dj set il cui unico difetto, nei giorni di venerdì e sabato, è stato quello della sovrapposizione di alcuni degli eventi con conseguente obbligo di scelta. Il palco su cui i C’Mon Tigre presentano il loro “Lumina” in anteprima assoluta è lungo e stretto al centro della scena, come una zattera di salvataggio sovraccarica di ogni sorta di strumentazione reale e virtuale (e ben tre postazioni regia al centro del palco) pronta a salpare verso l’ignoto con la musica come stella polare e con essa la volontà di evocare sul pubblico, distribuito in piedi attorno al palco, suggestioni tentacolari attraverso un ascolto assolutamente intimo e privato con le cuffie wireless fornite in dotazione. Alla vista è tutto molto scenografico e coinvolgente: il collettivo C’Mon Tigre (che ci ha abituato a essere di geometria variabile: in in questo caso sono cinque, seminascosti sotto sgargianti cerate da ravernauti e “tracciati” in volto da segni rossi di un tribalismo apolide che mette un po’ in soggezione) si avvia a “salpare” intorno alle dieci, nell’oscurità frammentata dai laser e dai visual, da lì e per un’ora si starà in balia degli eventi. L’Africa con i suoi suoni più tradizionali, il funk, il jazz, sprazzi di cassa dritta e poi tropicalismi assortiti e altro ancora, con i movimenti non sincronizzati delle luci blu delle cuffie che suggeriscono scene di un Tron che al cinema non vedremo mai. A un certo punto potrebbe sembrare di fluttuare nel futuro ma nella realtà è tutto molto contemporaneo e persino basico nel concetto di fusione dei linguaggi espressivi che fa della musica un’arte libera e senza confini. Sicuramente più complesse e articolate sono state la genesi e la messa in opera di questo progetto, che è perfettibile in vista della rappresentazione milanese di inizio novembre – ma buona comunque la prima, come si usa dire in questi casi. Andrea Amadasi
The Beta Band
O2 Apollo Manchester, 4 Ottobre 2025
Uno degli inizi più disastrosi di sempre per una reunion auspicata da 21 anni: non azzeccare la tonalità vocale (stonando dall’inizio alla fine) dell’iniziale Inner Meet Me è un duro colpo per la rediviva band di Steve Mason e soci che purtroppo si ripercuoterà sul mood di una buona fetta del live mancuniano dei nostri (tour che per la cronaca prevede solo una manciata di date tra UK e USA). D’altronde l’attesa era alta, altissima per chi li ama da sempre e per chi non può far a meno di mettere i leggendari “Three E.P.” (ai quali viene dedicata la serata) sul piatto un tot di volte all’anno. La rinomata indisciplina inglese poi mette benzina sul fuoco (altro che i soliti italiani!): è tutto un brusio dovuto, anche, al frenetico saliscendi dalle proprie sedie per rifocillarsi di birra che acuisce uno straniamento di base che gli scozzesi dal palco non contribuiscono a placare, tutt’altro. Altra nota stonata è l’esibizione di Assessment che diventa un vero disastro: l’impianto va via di botto a metà canzone, i nostri la ripetono da capo (male, malissimo con una chitarraccia che copre tutto) e l’immaginifico scoppio bandistico sulla coda della canzone (quello sì atteso da 20 anni e passa, almeno dal sottoscritto) si rivela di cacofonica bruttezza per via dalla chitarra di Mason che vorrebbe imitare i fiati con risultati tragicomici. Ma mentre il brusio sale insieme alla quantità di birra (e pensate che il più giovane astante avrà sì e no 50 anni e passa) e io e il mio socio Carmine iniziamo seriamente a pensare: “ma chi ce l’ha fatto fare di prendere un volo per venire fino a qui?”, ecco arriva che il miracolo: una B + A esibita in pieno stato di grazia, micidiale nel suo ipnotico e stravagante psych trip-hop con tanto di bomba rockeggiante sul finale ridesta l’attenzione di un pubblico imbenzinato ma, finalmente, adesso partecipe. Il finale è un crescendo emozionale (ed emozionante, vivaddio) che passa da una Dry The Rain can
TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000







