LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI

Jim Jones All Stars
Oslo, London, 19 aprile 2025
Per gli amanti di certe sonorità, da queste parti la festività pasquale è sinomimo di Le Beat Bespoke, annuale kermesse di tre giorni dedicata a garage, soul, psych, freakbeat, ecc. che in passato ha regalato momenti davvero memorabili (per il sottoscritto su tutti King Khan & The Shrines e The Mummies).
La seconda serata inizia con il piacevole garage beat dei Baron Four capitanati dal veterano Matthew Lambert (già con i Mystreated e gli Embrooks) e Mike Whittaker (The Jack Cades e The Capellas con la compagna Elsa), che ci trasportano indietro nel tempo col loro accattivante R&B annata doc 1965 che invita a muovere i fianchi. D’accordo, revival puro, ma suona alla grande e per gli appassionati del genere “Outlying”, uscito per l’anno scorso per la danese Beluga Records, è imperdibile. E poi tocca a lui, Jim Jones ovvero l’impersonificazione in carne ed ossa del neilyoungiano “rock’n roll can never die”. In giro da ben 4 decenni, tra gli incendiari trascorsi giovanili, inevitabilmente terminati in autocombustione, con Thee Hypnotics ovvero la massima espressione del Detroit sound in terra britannica di sempre (inarrivabile e irraggiungibile), le frenetiche rivisitazioni rock ‘n’ roll anni cinquanta amfetaminizzate del Jim Jones Revue, l’omaggio al triumvirato putativo Iggy/Cave/Waits con i Righteous Mind e adesso in pista con la Jim Jones All Stars, supergruppo nato durante la pandemia con i sodali Gavin Jay al basso, Elliot Mortimer al piano (entrambi ex Revue), Carlton Mounsher (The Swamp) alla chitarra, Chris Ellul (The Heavy) alla batteria e i due sax di Stuart Dace e Tom Hodges (rispettivamente tenore e baritono). Jim, autentico purosangue, da grande showman qual è conquista il pubblico immediatamente anche perché la serata inizia con Cement Mixer, cavallo di battaglia del JJ Revue col suo incedere stomp, chitarra sporca, voce rauca e intermezzo corale sing-along squarciagola “here we go, nice and slow”. Segue l’interpretazione di When You See Me Hurt, classico numero soul di Carl Lester che suona come un selvaggio James Brown con i fiati che all’unisono spadroneggiano sul ritmo incalzante. In una parola, irresistibile. Sulla stessa scia l'inarrestabile originale Gimme the Grease, che con ritmica da paura mantiene i sassofoni in ben spolvero. La serata si alterna tra rivisitazioni/omaggi e classici originali composti da Jim nelle sue diverse incarnazioni. Tra le prime figurano Parchman Farm di Mose Allison con gran lavorio di piano, incandescente riff di sax e finale quasi jam, il northern soul addolorato di Lover’s Prayer dei Wallace Brothers, il funk grezzo e primitivo di Troglodyte di Jimmy Castor Bunch e lo swamp blues It’s Your Voodoo Working di Charles Sheffield. Tra le seconde, le pietre miliari del suono rock psichedelico fine ottanta targate Thee Hypnotics Soul Trader e Shakedown (che è ancora minacciosamente seducente dopo quasi quattro decenni), il super classico gospel blues Satan’s Got His Heart Set On You dei Righteous Minds, la frenetica Rock’n’Roll Psychosis dei JJ Revue, la recente I Want You (Anyway I Can) e alcuni nuovi pezzi dell’album in uscita fra qualche mese con la produzione di Chris Robinson dei Black Crowes, tra i quali il grintoso singolo appena pubblicato Goin’ Higher, spavalda miscela di soul, garage e rock’n’roll. Tre bis per il finale: la rampante cover di Big Bird di Eddie Floyd, l’energetica e raggiante Everybody’s Got Something to Hide Except Me and My Monkey dei Beatles e lo scatenato e viscerale rock’n’roll del classico 512 targato JJ Revue, dove le poche energie rimaste sia sul palco che in sala vengono consumate in un collettivo tripudio di festoso sudore. Neil ci aveva azzeccato: Rock’n roll is here to stay almeno fino a quando Jim è in giro. Ferruccio Guglia
“Rewire”
Den Haag, varie location, 3-6 Aprile 2025
L’Olanda detiene oggi - senza alcun possibile contradditorio – la leadership del circuito festivaliero continentale, offrendo le esperienze più complete nell’ambito della ricerca, delle musiche estreme e di quelle adiacenti al più virtuoso indie. Giunta alla sua 14sima edizione, la rassegna primaverile meglio nota come Rewire, oltre ad avvicinarsi a un traguardo storico, propone un calendario di eventi succulento come non mai, potendo contare su nomi di caratura internazionale e sulla disponibilità di ben 25 location tra centri d’arte, auditorium, chiese, storici club, teatri e scenari naturali. Immolatosi sin da principio alla ricerca in ambito elettronico con numerose concessioni all’avanguardia tout court, il festival è oggi un poliedrico contenitore capace di iniettare ancora linfa vitale in un circuito altrimenti stantio. Rispettando un equilibrio niente affatto scontato tra ciò che è contemporaneo e quanto è stato rivoluzionario nel secolo scorso, Rewire conta su un programma impreziosito da numerose prime, offrendo altresì l’omaggio a figure iconiche come Joan La Barbara, Alvin Curran e Laurie Anderson, che chiuderà con un concerto esauritissimo questa edizione.
Nella preview del giovedì Curran ripropone quanto visto anni fa nel pittoresco laghetto di Villa Borghese a Roma, ovvero “Maritime Rites”, una performance sviluppata con un corpo di musicisti che sfilano su diversi battelli in seno all’Hofvijver. Tra sacralità classica e vezzo collagista, l’intento dell’autore è chiaro, in un sintomatico affronto alle cure accademiche. La performance audio-video di Alessandro Cortini raggiunge nella seconda parte momenti di pura estasi analogica, riproponendo i cinque movimenti del disco “Nati infiniti”. Si entra propriamente nel vivo il venerdì con alcuni dei momenti più nevralgici dell’intera manifestazione. Il nu jazz immerso nel poliedrico live sampling pervade la bellissima session improvvisata degli SML, al secolo Small Medium Large, collettivo di base a Los Angeles che vede in Jeremiah Chiu (ai modulari) un leader carismatico. Uno degli apici astrali è toccato da Nala Sinephro, che ancora non ha dato alle stampe quel capolavoro da studio che sarebbe lecito attendersi. Ma godiamo del suo monumentale live in quartetto – in una delle location più importanti dell’intero festival, il modernissimo gioiello architettonico che è l’Auditorium Amare - un viscerale tributo ad Alice Coltrane tradotto in un moto perpetuo che porta di diritto ai cancelli della musica cosmica tedesca. Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly ripropongono con immutato entusiasmo i contenuti del loro debutto per International Anthem, “Mestizx”, sunto di tropicalismo e spiritual jazz nello storico club Korzo. Sui Seefeel, eccezionalmente in trio nella storica cornice della chiesa Lutherse Kerk, vince purtroppo la stanchezza, ma i dosaggi ambient dub di questi pionieri del nuovo esoterismo inglese rimangono pur sempre una rotta arguta.
Il sabato è all’insegna dell’azione, o quanto meno è questo il percorso scelto dal sottoscritto. Il duo di casa Able Noise – autore di un lodevole debutto in vinile per la label culto londinese World Of Echo – incanta tra memorie post Louisville/Chicago, abbozzando però improvvisazioni tout court e un meticciato mediterraneo (incantevole la chitarrista Alex Andropouolos quando imbraccia la balalaika). Sismica è la danza inscenata dagli Holy Tongue di Valentina Magaletti e Susumu Mukai con lo zampino di Shackleton, la struttura di un club piuttosto allenato a techno e affini come il Paard vacilla, dubedelia intrisa di attitudine industriale per scoperchiare la tassa toracica. Più immersivo il set del trio di Olivia Block, con uno stellare Jon Mueller alla batteria e il supporto alle elettroniche di Paige Naylor. Onirica contemporanea che si risolve in stati di stasi apparente per poi esplodere in senzienti rituali percussivi. Un’altra esclusiva di disarmante bellezza è di scena con il trio egiziano The Handover; lanciati da Sublime Frequencies, i nostri muovono tra droni, mediterraneo e Morricone western. Anche qui si tocca il cielo con un dito. A riportarci rovinosamente a terra ci pensano i Body Meπa, un’infernale macchina da guerra (post)metal con in sella il batterista Greg Fox e due colonne della downtown newyorkese come il bassista Melvin Gibbs ed il chitarrista Sasha Frere-Jones.
Arriviamo alla domenica con una serie di certezze che iniziano a scricchiolare e un residuo energetico tutto da provare. Intriga l’alternative country di Wendy Eisenberg – che tradisce le sue frequentazioni adiacenti al jazz di ricerca – mentre faccio onestamente fatica a perdermi nel wall of noise dei pionieri americani Yellow Swans. Avrei visto volentieri la ripresa di “Canti Illuminati” di Alvin Curran, ma un improvviso malore porterà alla cancellazione della pièce (una volta ristabilitosi, Alvin avrebbe fatto ritorno a Roma). Dei Caroline ho apprezzato più la forma che la sostanza: un originale ottetto londinese fulminato sulla strada di Canterbury che non mancherà di tornare sulla scena del delitto. Discorso analogo per la sound art di FUJI||||||||||TA, mirabile sulla carta ma un pizzico autoreferenziale nel format live. Chi vince a mani basse è invece il contrabbassista e leader Nick Dunston, che con la band Skultura schiaffeggia anche le più coerenti istituzioni free jazz. Menzione d’onore a una ritrovata Laurie Anderson, che chiude il festival con un concerto politico, parte reading e parte memorie esistenziali, corredato dal violino e dalle scarne elettroniche della collaboratrice Martha Mooke. Certamente arrivederci. Luca Collepiccolo
Steve Wynn & Rodrigo D’Erasmo: “Make it right”
Napoli, Rockalvi Main Out Auditorium Novecento, 8 aprile 2025
Fai anche tu parte del club? Quale club? Quello degli appassionati di musica (musicisti e fruitori) che si scelgono, quelli che non cercano qualcosa che vada bene per tutti (“tutti” intesi nel senso di mainstream, la corrente che trascina tutti indistintamente), quelli che – insomma – preferiscono cercarsela e trovarsela la musica con cui riempire la propria vita. Perché, in fondo, di malati di musica si tratta, di gente che vive di una “certa” musica. Tutto questo Steve Wynn (e molti di noi con lui) l’ha capito subito quando, mentre si stava avviando a essere musicista, ha ascoltato il primo disco dei Velvet. Se non fai parte del club, no problem, puoi rivolgerti altrove, c’è posto per tutti. Ma se entri nel club – beh – la tua vita cambia. Sunday morning è stata una delle prime canzoni suonate da Wynn in questo tour un po’ anomalo perché quello da promuovere stavolta non è un disco (c’è pure quello, a dire il vero), ma un libro. Si tratta della sua raccolta di memorie “Non te lo direi se non fosse vero. Memorie di musica, vita e Dream Syndicate” recensito dal nostro grande capo su Blow Up con parole che potrebbero andare benissimo per questo concerto che ha seguito, fondamentalmente, la trama del libro. Un percorso chiaro, spesso in dialogo con un pubblico preparatissimo, in cui si è apprezzata la bontà dell’uomo e del comunicatore. Frontman e songwriter sono per Wynn qualcosa di sostanza, qualcosa che parte dalla vita e arriva alla vita. Lou Reed e Alex Chilton (soprattutto lui) sono stati i numi tutelari che hanno avviato un percorso che con i Dream Syndicate ha trovato la sua entusiasmante espressione e che è stata, nel concerto, l’occasione per ripercorrere una buona fetta di storia di certo rock americano. Il concerto, come il libro, si conclude con lo scioglimento della band al finire degli anni 80. Il libro è stato scritto in 5 anni ed è stata l’occasione non solo per ricordare ma anche per riflettere sulle scelte fatte e quelle non fatte, come lui stesso ha ricordato. Grande uomo, Steve Wynn. Non a caso, alla fine del concerto, mentre chiacchieravamo tra “addetti ai lavori” con Peppe Guarino (organizzatore della serata), si respirava questa passione per la vita, per la musica, per consumarsi per qualcosa di bello, da comunicare e trasmettere e come la musica possa dare molto, con un senso della generosità e della gentilezza che Wynn aiuta a risvegliare. Rockalvi di Peppe Guarino è nata per aiutare una organizzazione (Camilla la stella che brilla) che sostiene bambini malati. E, per certe battaglie, ci vuole molta energia positiva. Come quella che Wynn ha trasmesso. Fondamentale, in questo, la presenza di Rodrigo D’Erasmo che con il suo violino ha accompagnato e dialogato con altrettanta passione i pezzi suonati, con un brio ora più leggero ora più intenso. Molto bella l’intesa tra i due musicisti che ha dato un vestito sempre fresco e nuovo alle canzoni. A me, per qualità e modalità ha ricordato il tour fatto da Nick Cave con Ellis per presentare il suo secondo romanzo. Girolamo Dal Maso
Kamasi Washington
Docks, Losanna, 31 marzo 2025
Programmato in origine a ottobre 2024, nel cartellone del 37o JazzOnze+ Festival, il live di Kamasi Washington era stato riportato in avanti in ragione di un problema alla schiena dell’artista (identico il motivo per cui la data milanese di JazzMi all’Alcatraz è diventata il 22 aprile; in Italia lo si vedrà anche a Roma il 23 e a Bologna il 24). Tutti contenti che il sassofonista si sia rimesso in piedi per il nuovo e lungo tour europeo, a cominciare dagli organizzatori, e il cartello davanti all’ingresso dei Docks lo dimostrava, perché sopra c’era scritto “complet”. Allora come oggi si trattava di far conoscere l’ultimo “Fearless Movement”, sinora il più danceable del lotto pur se nell’accezione di “esprimere lo spirito attraverso il corpo” (dice lui). Avanti dunque con Lesanu, all’inizio intonata nell’antica lingua etiope ge’ez, e poi Asha the First preceduta dal raccontino che la melodia gliel’ha suggerita la giovanissima figlia, e ancora subito dopo Lines In The Sand, un trittico punteggiato nell’ordine dai solo di Washington, del padre Rickey (flauto e soprano) e del bassista Joshua Crumbly. L’ora di DJ Battlecat, anche percussionista aggiunto, e dei suoi scratch pimpanti viene con la Get Lit in cui ci ha messo lo zampino George Clinton, mentre Kamasi si traveste un attimo, non di più, da Coltrane versione mistico-cosmica per The Garden Path. In scaletta non possono mancare nemmeno Together, con uno spazio riservato al trombonista Ryan Porter, invero non troppo considerato nell’arco dell’intero concerto, e la bizzarria Prologue, perché non ci si aspetterebbe la cover di un pezzo di Astor Piazzolla (a ripensarci, è forse questo il culmine della serata). Quel che non si comprende troppo è perché una band di otto elementi a cui non manca certo la tecnica finisca per suonare molto poco davvero di gruppo, con i rari momenti d’insieme riservati all’esposizione e poi al richiamo del tema, a ricalcare dinamiche da vetusto bebop. Non riusciamo a ricordarci dialoghi spontanei e scambi serrati tra i componenti, che finiscono per esprimersi in lunghi e pure un po’ scontati assolo a chiamata da parte del leader, al grido di “e adesso l’incredibile…”. Saranno sicuramente scelte ponderate, ma per ampi tratti il set pare scorrere forzato, con i singoli ridotti a eseguire parti mandate a memoria. All’esordio considerato il nuovo profeta del jazz, con “Fearless Movement” Washington sembra essersi tolto definitivamente la maschera, perché a lui del jazz e dell’improvvisazione (qualunque definizione si voglia dare ai due termini) importa poco o nulla, se non per qualche citazione funzionale al suo discorso. Ha deciso di giocare a un altro sport, quello che indubbiamente manda in sollucchero il suo folto ed entusiasta pubblico. Piercarlo Poggio
Little Barrie & Malcom Catto
The Garage, London, 5 aprile 2025
Nonostante innumerevoli esibizioni davanti a platee oceaniche offrendo la sua magistrale tecnica e inventiva a Paul Weller, Morrissey, Primal Scream, The The, i fratelli Gallagher ecc., solo un ristretto ma fedelissimo gruppo di adepti conosce e segue il percorso artistico individuale di Barrie Cadogan, the best kept secret chitarrista del Regno Unito. Tra l’esordio discografico (“Shrug off love” dei Little Barrie del 2000, groove infettivo e fantastica produzione vintage) e il criminalmente sottovalutato “Instafuzz” del 2024 a nome Ultrasonic Grand Prix (divertentissimo progetto estemporaneo con il polistrumentista e produttore Shawn Lee) il buon Barrie ci delizia le orecchie da ben 25 anni, la maggior parte dei quali trascorsi sotto la sigla Little Barrie (trio con all’attivo 5 album) fino alla prematura e tragica scomparsa del batterista Virgil Howe (figlio del chitarrista degli Yes) nel 2017. Dopodiché nel 2020 Barrie e il sodale Lewis Wharton al basso ritornarono con la sigla storica accompagnati dal ta-lentuoso batterista e produttore Malcom Catto (ben noto con gli Heliocentrics in “Quatermass Seven”): fra qualche giorno esce la seconda fatica, “Electric War” per la Easy Eye Sound di Dan Auerbach dei Black Keys.
Il rigenerato trio ha deciso di non rivisitare il catalogo dei tempi che furono, per cui tutta la scaletta della serata verte sui due lavori sopra citati. La title track del nuovo album apre la serata con ritmica kraut e tagliente chitarra assassina: per 80 minuti abbandoniamo ogni cognizione spaziotemporale per essere catapultati in un universo parallelo accompagnati dal suono emesso da una creatura musicale mutante, ibrida figlia meticcia dei Can e dei Meters e cresciuta a suon di (heavy) blues e tecniche jazz. Tra l’incessante, forsennata poliritmica al cardiopalma di Trabs e gli otto minuti dell’ipnogena cerebrale psych jam After After trovano spazio le più terrestri e rassicuranti Repeated #2, col suo incedere notturno e twang riverberato, e You’re Only You, che parte con ritmica alla Jaki Liebezeit e si trasforma in un numero psych funk blues con tanto di feedback conclusivo e lussureggianti tessiture wah wah. L’heavy blues di Old Role suona come una versione moderna dei Cream e l'irresistibile psych funk groove danzereccio di Zero Sun trasporta miracolosamente i Meters nella Madchester di qualche decennio fa. My Now lascia allibiti per l’immacolata perfezione dell'interplay, la mutazione ha partorito una mostruosa creatura dalle tre teste con batterista tentacolare, bassista omicida e chitarra che condensa in un brano ansiogeno tutta la storia (di un certo) rock tra accenni spagnoleggianti, schegge di surf alla Link Wray, riff alla Eddie Hazel, decenni di blues e quant’altro. Quindi arriva l’incedere lento ma inesorabile di Creaky, con ospite Danny Keane al violoncello (felicissimo connubio che riporta in mente Tom Cora con gli olandesi Ex di decenni orsono): un vero blues del deserto, etnico, ipnotico, tribale, con ripetute folate di acida sabbia wah-wah che con accanimento che scortica la pelle. Il salvifico psych rock di Spektator ci corre in aiuto offrendoci il necessario ossigeno per arrivare al finale bipolare di Count of Four ma soltanto per lasciarci totalmente liquefatti.
Neanche l’utilizzo di un breve frammento della genialità di Barrie inserito come intro nella (fantastica) serie televisiva “Better Call Saul” (spin-off di “Breaking Bad”) ha conferito al trio quella notorietà che gli spetterebbe di diritto; ma meglio così, almeno per noi che abbiamo avuto la fortuna di assistere a un’esibizione a dir poco stellare di tre grandi musicisti nell'intimità del Garage senza nessun annacquamento/mitigamento da stadio. Ferruccio Guglia
Paul Collins Beat
Sonic Ballroom, Colonia, 2 aprile 2025
Era da parecchio tempo che Paul Collins non si vedeva da queste parti, di mezzo si erano messi il Covid e un po’ di stanchezza dopo una vita spesa a scrivere canzoni e portarle in giro per il mondo. Rivitalizzato dagli ottimi riscontri critici di “Stand Back & Take A Good Look”, l’album dello scorso anno, il “re del power pop” si è rimesso in marcia e per questo tour europeo ha deciso di farsi accompagnare dagli svedesi Manikins. Scelta quanto mai azzeccata, visto che l’esperto gruppo di Nyköping è affiatatissimo e ne conosce a memoria il repertorio. La line-up a tre chitarre restituisce forza e brillantezza ai brani di Beat e Nerves, l’approccio ramonesiamo – tutti i brani suonati di fila, senza interruzioni o chiacchiere inutili– fa il resto, assieme a una setlist costruita alla perfezione.
L’atmosfera del Sonic Ballroom si fa subito incandescente, sin dall’attacco di “Rock’n’Roll Girl”, primo brano in scaletta e gancio da ko piazzato a un pubblico che dall’inizio alla fine si lancerà nel singalong. Del resto, Paul Collins ha fatto dello scrivere la canzone (power) pop perfetta la sua missione di vita e ancora oggi c’è da stupirsi di come l’omonimo debutto dei Beat, A.D. 1979, non abbia venduto milioni di copie e lo abbia reso ricco e famoso.
Proprio da quel classico che rasenta la perfezione il gruppo attinge a piene mani, suonandolo quasi nella sua interezza: “Let Me Into Your Life”, “Don’t Wait Up For Me”, “I Don’t Fit In”, “U.S.A.”, “Work-A-Day World”, fino a quella “Walking Out Of Love”, ripresa tante volte dal vivo dai Green Day. Un paio di pezzi dal secondo album “The Kids Are The Same”, tra cui la title-track cantata a squarciagola dagli astanti, precedono una manciata di brani dai recenti album da solista, prima che questa nuova incarnazione dei Beat si lanci nei classici dei Nerves, inclusa la celeberrima “Hanging On The Telephone” che tutto il mondo conosce nella versione dei Blondie. I bis sono quattro: una “Many Roads To Follow” a due voci e senza sezione ritmica, cantata quasi a cappella, seguita dalla tranquilla “You & I”, prima che l’elettricità innervi due pezzi innodici come “Different Kind Of Girl” e “Letter to G”. Applausi scroscianti e urla di approvazione per un Paul Collins in grandissima forma. Roberto Calabrò
“Chiasso Means Noise”
Magazzino II, Chiasso (Svizzera), 27-29 marzo 2025
Il calembour che abbina il concetto di rumore al contesto geografico è un colpo perfettamente assestato per il nome di un festival musicale, ma da fuori quel concetto bisogna saperlo recepire nella giusta ampiezza e varietà di sfumature, il rumore, quindi non solo tumultuoso o totalmente privo di caratteristiche musicali. Da dentro, i ragazzi dell’Associazione Grande Velocità/Spazio Lampo ce l’hanno messa tutta per fare sì che questa seconda edizione del “Chiasso Means Noise” fosse la più impattante ma anche eterogenea possibile, mettendo insieme un ricco programma di proposte e linguaggi espressivi differenti col presupposto altamente simbolico di provare ad abbattere quelle barriere che inibiscono qualsiasi potenziale interazione umana. Lo spazio fisico del “Chiasso Means Noise” è quello di un piccolo magazzino allestito al minimo indispensabile: due palchi contrapposti con in mezzo lo spazio per il pubblico. In questo scenario si è partiti il giovedì – ma c’era già stata un’anteprima domenica 23 marzo al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto con Aquiles Navarro, trombettista e compositore degli Irreversible Entanglements – con il concerto di Patrick Kessler e Dieb13, pseudonimo di Dieter Kovačič. Entrambi fanno parte della Chuchchepati Orchestra, un collettivo di musicisti a configurazione variabile (ne fa parte anche il sassofonista e compositore svedese Mats Gustafsson) che dal 2018 si esibisce al Palace di San Gallo regolarmente una volta al mese. Al “Chiasso Means Noise” presentano il Markograph, un enorme giradischi presumibilmente autocostruito che tramite un lettore ottico al posto della puntina traduce in suono le superfici di dischi di circa 83 cm di diametro, che a loro volta possono essere realizzati con materiali e finiture molto diversi. Ma le curiose peculiarità non finiscono qui perché Chuchchepati è la traduzione nepalese di “orizzonte” ed è anche un distretto di Kathmandu, il luogo da cui hanno origine gli otto altoparlanti conici che sono stati dislocati intorno alla postazione (che peraltro comprende anche un contrabbasso, due giradischi tradizionali e un ricco armamentario di arnesi digitali). La performance prende il via dopo che sul Markograph è stato posizionato il disco con rilievi topografici scelto dal pubblico per acclamazione, ed è subito reminiscenza di idee e filosofie: l’ambiente si ravviva di singulti ruvidi e articolati che si sviluppano in una matassa improvvisata e imperfetta, ricca di dettagli che si stratificano in un flusso avvolgente che va progressivamente adombrando le fonti da cui essi stessi sono generati. Alla fine resta quasi il rammarico perché una tale imponente configurazione avrebbe dovuto e potuto esprimere assai più del percepito, ma l’impatto è stato comunque notevole.
Così come, per saltare di palo in frasca lungo il flusso torrenziale di suoni delle tre serate e arrivare direttamente quasi in chiusura, notevole è stata anche la partecipazione di Valentina Magaletti, al cui estro creativo, unito all’abilità tecnica nello srotolare complesse partiture ritmiche, è mancato giusto solo un po’ di luce che ne illuminasse a dovere la naturalezza dei particolari esecutivi. O ancora la coppia tutta al femminile composta da Natalie Peters e Laure Federiconi, che qui erano alla loro prima collaborazione assoluta, frutto di una residenza artistica offerta per l’occasione. Il poco tempo a disposizione per trovare il feeling giusto avrebbe potuto metterle in difficoltà ma a vederle così empatiche, la Peters coi suoi gorgheggi esistenziali alti ed acuti e la Federiconi coi suoi pattern scuri ed ossessivi, si è percepita una comunione stilistica ben più profonda di quanto ci si potesse aspettare. Sempre in quota femminile, il trio composto da Vanessà Heer, Caroline Ann Baur e Carmen Oswald si è disimpegnato all’esterno tra parapetti e cortile, con un “Naturjodel” ipnotico e straniante, pur con tutta la dolcezza che poteva derivare dal fatto che la Baur avesse il proprio neonato adagiato al petto. Altra coppia tutta al femminile era quella composta da Marie Delprat e Masha Ten, in arte Marytronics: la loro ambient-wave sostenuta da ibridi ritmici ai confini con la techno è stata tra le più coinvolgenti dell’intera rassegna. E poi ancora il tellurico free jazz contaminato di Tapiwa Svosve (insieme a Richard Scott alla viola e Xaver Rüegg al contrabbasso), il minimalismo tantrico di Golem Mecanique, con la sua ghironda motorizzata stabilmente sulla stessa nota e una grande inquietudine pasoliniana tutta intorno, le colorate primavere sintetiche di Ciro Vitiello e via di questo passo. Variegato, imprevedibile, in ogni caso sempre sorprendente. Andrea Amadasi
Alvin Curran, Mike Cooper
Roma, Zazie nel Metrò, 23 marzo 2025
Un incontro straordinario, per di più in un inedito bar di ‘periferia’. Transavanguardie e mixologia, con imprevisto dietro l’angolo. Un invito spontaneo tramutatosi in evento unico e irripetibile, quasi un’eco del secolo scorso. Di giganti parliamo, ma se di messaggio ed espressione vogliamo discorrere, l’umiltà con cui i nostri si affacciano alla materia musicale è encomiabile. L’entusiasmo di due post-adolescenti tradotto in composizione istantanea, trionfo di libertà, un dedalo di citazioni che sfiorano massimalismo e hyper-pop. Curran armato del suo primitivo campionatore con interfaccia digitale, una banca di suoni praticamente infinita, e Cooper con fida pedal steel e decine di ammennicoli tra chaos pad e filtri, tanto basta a generare un vortice che sa di pura indipendenza psico-fisica. La performance è dettata da urgenza, piccoli sguardi d’intesa e grande trasmissione telepatica, non c’è canovaccio da (in)seguire, i temi e le intuizioni vengono demolite sul nascere, è un portale aperto su un’idea di musica autenticamente globale, scevra da compromessi e soprattutto frutto dei viaggi – non solo virtuali – di ambo i protagonisti. Stato emergenziale dell’avanguardia o tracollo della musica popolare? La velocità d’esecuzione e la pratica infinita rendono questa performance eccelsa, nonostante le infinite declinazioni del suono. Che sia una citazione exotica, un passaggio di broken r&b o addirittura un’improvvisa impennata guitar-noise, tutto è consentito, purché la fuga sia istantanea, l’accenno perso (e ritrovato) tra mille rivoli. Tutto nasce e tutto si decompone, secondo una logica per nulla marziale, in un gioioso rincorrersi che è fotografia sovrana del loro spirito. Innovatori e guastatori negli ambiti accademici e dell’impro tout court, un concerto che è stato puro inno alla vita. Luca Collepiccolo
Bergamo Jazz 2025 “Sounds Of Joy”
[Direzione artistica di Joe Lovano]
Bergamo, vari luoghi, dal 20 al 23 marzo 2025
Ce n’è stato per tutti i gusti al Bergamo Jazz 2025, quarantaseiesima edizione di uno dei festival più longevi e importanti della penisola. All’insegna del “sound of joy” a cui s’è ispirato il direttore artistico e grande sassofonista Joe Lovano (da tempo la rassegna bergamasca affida a noti jazzisti la direzione artistica, coadiuvati da Roberto Valentino) si è passati dal mainstream allo sperimentale, dal rock progressive (gli Stick Men di Tony Levin) all’ambient (Tania Giannouli & Nik Bartsch Duo) e al folk classicheggiante (Sara Calvanelli e Virginia Sutera), da jazzisti maturi che hanno fatto la storia a giovani talenti, dalle esibizioni in solitaria a quelle di più o meno nutriti gruppi, dallo strumentale al canto (e in diversi luoghi: il Teatro Donizetti - acustica superlativa - nella Città Bassa e il Teatro Sociale nella Città Alta; poi l’Auditorium, l’Accademia Carrara, il Teatro S. Andrea, la Sala Piatti, il Circolino e i locali NXT, Daste e Legami).
Il gruppo che raccoglie in sé un po’ tutte le diverse caratteristiche del cartellone, e che quindi potrebbe assurgere a emblema di questa edizione, è il Fearless Five di Enrico Rava: l’ottantacinquenne trombettista, che ha raggiunto da tempo una sua smagliante classicità, guida da un paio d’anni un gruppo di giovani (a parte il contrabbassista Francesco Ponticelli, pure lui impostato classicamente con cavata energica e agile bounce) dediti a ricerca e sperimentazione: Francesco Diodati per l’ispidezza materica dei suoni metallici e distorti della chitarra; Matteo Paggi per un’emancipata spavalderia coniugata con perizia, sicurezza, intensità e confidenza negli stilemi del passato classico, mescolando Roswell Rudd con Trummy Young; ed Evita Polidoro per l’abile e policromo drumming pieno di guizzi inaspettati. Rava, che mantiene le sue storiche peculiarità, cioè la liricità, la splendida sonorità e il fraseggio che spazia dal disegno di semplici e distese linee melodiche a quello di intricati arzigogoli (comprese le mitragliate sui sovracuti con cui costruisce episodi simil-free), dirige i compagni, ma anche si fa dirigere, ognuno portando la propria idea di musica inserendosi negli altrui costrutti, contemporaneamente aperto a farsi condizionare, in questa maniera integrandosi vicendevolmente alla perfezione. In un brano il direttore artistico Joe Lovano ha affiancato con estrema efficacia il gruppo: a differenza dell’edizione dello scorso anno, quando pure era direttore artistico, il sassofonista non ha lesinato a partecipare come ospite alle esibizioni di diversi altre compagini in rassegna, sempre al soprano: con i gruppi di Danilo Pérez, Marc Ribot e Dianee Reeves.
Di indirizzo modern mainstream, due sono stati i gruppi principali: il trio del pianista Antonio Faraò e The Cookers.
Faraò, accompagnato da Ameen Saleem al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria, ha presentato brani quasi tutti da lui composti presi dal suo recente disco “Tributes” (dove John Patitucci è al posto di Saleem), attraverso i quali rende omaggio ai pianisti che più lo hanno influenzato: Herbie Hancock, Chick Corea e McCoy Tyner. Ne scaturisce un pianismo a tratti spettacolare per l’articolato e fitto fraseggiare senza pause, ricco di inventiva e incessante propulsione, dove risuonano gli echi di tutti i suoi modelli, catalizzatori per la creazione di un tumultuoso e virtuosistico stile personale.
The Cookers, settetto che riunisce alcuni dei più rappresentativi esponenti dell’hard bop degli anni Sessanta e Settanta, una all-star con Eddie Henderson e David Weiss alle trombe, Azar Lawrence al sax tenore, Donald Harrison al sax alto, George Cables al pianoforte, Cecil McBee al contrabbasso e Billy Hart alla batteria, non si sono discostati dal jazz che ognuno produceva negli anni d’oro, mantenendo la stessa verve e gli stessi suoni pieni e robusti, che non di rado mancano ai musicisti delle nuove generazioni. I brani, perlopiù composti da loro (McBee e Cables) e da Freddie Hubbard, ben strutturati in arrangiamenti efficaci, hanno il compito di lanciare gli assoli che i vari componenti prendono di volta in volta con cipiglio bop e swingante vigore (l’ottantaquattrenne Hart, che alla batteria fu anche con McCoy Tyner e Wayne Shorter, è ammirevole per la forza e la spinta incessantemente prodotte).
Ancora sulla falsariga mainstream sono stati due dei concerti inseriti all’interno del festival sotto l’insegna Scintille di Jazz, una mini rassegna nella rassegna, volta a presentare musicisti italiani, perlopiù nuovi talenti, con la direzione artistica di Tino Tracanna: il Maniscalco Trio con Pietro Tonolo special guest, e il quartetto di Nicholas Lecchi (gli unici due che abbiamo potuto ascoltare della mini rassegna, per l’accavallarsi degli eventi in programma).
Bella commistione, di intenti e di poetica, quella fra il trio del pianista Emanuele Maniscalco (con Francesco Bordignon al contrabbasso e Oliver Laumann alla batteria) e l’ospite tenor sassofonista Tonolo, entrambi sviluppando assoli dall’architettura complessa e sghemba sui solchi della tradizione moderna, di Herbie Nichols e Thelonious Monk da una parte e di Joe Henderson e Sonny Rollins dall’altra (eseguiti alcuni original, incorniciati dal brano d’apertura di Nichols “Change Of Season” e da quello di chiusura di Mingus “Reincanation of a Lovebird”).
Un’incontenibile energia e traboccante espressività, quelle espresse dal tenor sassofonista Nicholas Lecchi, che con il suo quartetto s’è esibito nelle ore notturne con un hard bop estroso ed esuberante.
Per la sezione che si potrebbe definire di jazz contemporaneo sono stati presentati il Dialect Quintet di Alexander Hawkins, il quartetto Via del ferro, il quartetto Lux (che ha sostituito all’ultimo momento il preannunciato duo Dave Holland/Lionel Loueke che ha cancellato il tour europeo a causa di problemi di salute occorsi al contrabbassista inglese), il quartetto di Danilo Pérez, il duo Barry Guy/Jordina Millà e Aruan Ortiz al piano solo (Marc Ribot è un discorso a parte, più spostato verso l’hard rock e il blues protestatario).
La produzione originale Dialect Quintet ha visto Alexander Hawkins al piano, Camila Nebbia al sax tenore, Giacomo Zanus alla chitarra, Ferdinando Romano al contrabbasso e Francesca Remigi alla batteria, che si sono espressi in tumultuosi e densi interventi free diversamente strutturati, sia inserendo parti composte sia lasciando libero sfogo alla creatività estemporanea, il tutto costellato da abrasivi assoli individuali ben incasellati nell’insieme (apparentemente) caotico.
Il gruppo Via del ferro (The Iron Way) è meno densamente burrascoso rispetto al Dialect Quintet, è più incentrato sulle individualità solistiche di Alex Hitchcock al sax tenore e di Maria Chiara Argirò al pianoforte e synth, accompagnati con ampia libertà espressiva da Michelangelo Scandroglio al basso elettrico e Myele Manzanza alla batteria: c’è più marcata e maggiore alternanza fra momenti di free e altri più pacati e distesi, a volte cantabili; ci sono più reiterazioni melodiche e crescite e decrescite d’intensità, il tutto esternato con groove energico, paesaggi sonori elettronici e terrose linee di basso.
Pochi invece i momenti free nella performance del Lux Quartet, co-diretto dalla pianista Myra Melford e dalla batterista Allison Miller e completata dal sassofonista Dayna Stephens e dal contrabbassista Nick Dunston, dove tutto quello che è composto viene eseguito con pesata esattezza e quello che viene improvvisato è studiato per essere inserito in un insieme pensato e strutturato, anche se ogni musicista si muove dentro e fuori dalle composizioni con grande libertà. È avant-jazz di pregio, che tocca via via composizioni atonali, brani modali, intricati metri dispari, swing strascicati che ricordano il Braxton dei primi anni Settanta, assoli, anche lunghi, di Stephens e della Melford, la quale passa da furori ritmico/melodici meticolosamente debordanti a momenti rarefatti e intimisti, e una sezione ritmica che si ritrova un uragano d’energia nel drumming della Allison: è stata una delle punte artisticamente più alte del festival.
Il trio di Danilo Pérez al piano, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria, che era quartetto quando lo guidava Wayne Shorter, lo torna ad essere ora con l’aggiunta del tenor sassofonista Ravi Coltrane per onorare proprio la figura del grande musicista di Newark scomparso nel 2023 attraverso il progetto Legacy Of Wayne Shorter. I tre, cimentandosi con brani di Shorter tipo “Sanctuary”, “Miyako” e “Footprints”, utilizzati come un canovaccio intorno al quale intrecciare una musica continuamente cangiante, si intendono a meraviglia con un senso telepatico che ha del sorprendente, rispondendosi e commentandosi a vicenda con prontezza felina, tanto che l’ospite Coltrane, figlio di tanto padre, pur eccellente e pieno di pathos, è sembrato leggermente scollato dal gruppo. Anche in questa occasione si è unito con efficacia Joe Lovano nel brano “Which Hunt”.
Con il duo formato dalla pianista Jordina Millà e dal contrabbassista (a cinque corde) Barry Guy, uno dei padri della musica improvvisata europea, si piomba dentro alla poetica della musica astratta, dada e rumoristica, liberamente improvvisata attraverso grande varietà di suoni e rumori prodotti sia insieme che separatamente su un’ampia gamma dinamica.
Il pianista Aruan Ortiz s’è esibito in solitudine, ripercorrendo le strade del suo recente disco “Cub(an)ism”, idealmente il cubismo applicato alla musica cubana. Considerato il titolo e il pedigree di Ortiz, l’influenza cubana è però meno palese di quanto ci si potrebbe aspettare: la musica in un unico flusso di coscienza senza interruzioni viene di continuo smantellata e riformulata con le figure che cadono e si riorganizzano in un qualcos'altro di diverso e con i vari componenti che sembrano slegati o inappropriati, ma che alla fine, inseriti nel contesto generale, svelano compattezza e un proprio conseguente equilibrio formale.
Con il quartetto di Marc Ribot Hurry Red Telephone (citazione dalla poesia di Richard Siken “Several Tremendous”) si scivola verso sonorità hard rock e post punk, soprattutto per la presenza dell’altra chitarrista Ava Mendoza, oltre al contrabbassista Sebastian Steinberg e al batterista Chad Taylor. Il gruppo ha regalato una performance da potersi considerare, pure questa, una delle vette artistiche del festival. Ribot le ha conferito un’impronta fortemente politicizzata, tanto profondamente sentita da apportare alla musica un forte sincero pathos e una struggente emozione: “So che siete qui per la musica e non per discorsi politici”, ha detto il chitarrista, “ma questi ultimi due mesi sono stati molto difficili per noi: un dittatore fascista sta prendendo il controllo del nostro Paese”. Inoltre, come bis, ha dato una interpretazione struggente e sui generis di “Bella Ciao”, cantata da lui in inglese e che già aveva cantato e suonato in un recente disco con Tom Waits: la sua cruda interpretazione vocale è piena di angoscia e tormento, l’assolo di chitarra colmo di rabbia e sdegno, sublime chiusa a un concerto in cui aleggia costantemente nell’aria lo spirito di Albert Ayler in un flusso musicale lancinante e esacerbato.
Per finire due cantanti fra le più apprezzate della scena odierna: Lizz Wright e Dianne Reeves. La prima, accompagnata da un quartetto professionalmente ineccepibile (Kenny Banks Sr al piano e all’organo, Adam Levy alla chitarra, Ben Zwerin al contrabbasso e Marlon Patton alla batteria) ha cantato canzoni gospelizzanti, blues e pop-folk prese in parte dal suo ultimo album “Shadow”, ma anche spaziando in altri lidi, per esempio con un’avvincente interpretazione di “Old Man” di Neil Young. La sua voce da contralto è scura, possente, a tratti sensuale, nel gospel ricorda Mahalia Jackson, pur se non con il medesimo profondo pathos, nel folk-jazz Nina Simone annacquata con Joan Armatrading.
Dianne Reeves è invece la tipica jazz singer il cui stile, nella fattispecie, deriva da Sarah Vaughan e Betty Carter, caratterizandola con una voce profonda e inflessioni hot, con un uso canonico dello scat e un senso di libertà e giocosità sul palco che ha coinvolto gli spettatori (Donizzetti all sold out, come lo sono stati tutti i concerti della rassegna). Accompagnata da John Beasley all piano, Romero Lubambo alla chitarra, Reuben Rogers al contrabbasso e Terreon Gully alla batteria ha interpretato con maestria e forte espressività canzoni di diversa provenienza, dalle davisiane “What’s New” e “All Blues”, a “Minuano” di Pat Metheny, da “Peace” di Horace Silver a “Dreams” dei Fleetwood Mac, con la mccoytyneriana “You Taught My Heart To Sing” come bis, accompagnata dal solo Lubambo alla chitarra. Pubblico in visibilio. Meritata chiusura per una riuscitissima edizione del festival. Aldo Gianolio
CCCP - FEDELI ALLA LINEA: Gran Galà Punkettone 2025
Teatro Valli – Reggio Emilia, 21 marzo 2025
Un anno e mezzo è trascorso da quel Gran Galà Punkettone, quando Annarella Giudici e Giovanni L. Ferretti entravano la prima volta in teatro dalla porta principale a fondo platea, accompagnati dalle note di Annarella suonate alla chitarra da Massimo Zamboni, che li attendeva da un lato del palco mentre dall’altro un sornione Danilo Fatur assisteva a tutta la scena. Da quel momento così intensamente sceneggiato il risveglio della cellula dormiente è diventato di dominio pubblico e da lì in poi, come tutti sappiamo, il corso degli eventi ha superato di gran lunga ogni più rosea aspettativa. Un anno e mezzo dopo – in un parallelo funzionale con quel “Le idi di marzo” che era il nome del festival di Melpignano che portò i CCCP a suonare a Mosca e Leningrado nel 1989 e poi l’anno successivo, allo scioglimento degli stessi CCCP dopo la caduta del muro di Berlino e quasi in concomitanza con la dissoluzione dell’impero sovietico – la scena si ripete ma al contrario. Annarella e Ferretti ora scendono dal palco e si avviano verso l’uscita, lentamente, con la stessa enfasi di allora indugiando, per dirottare sguardi verso il pubblico intorno prima di essere inghiottiti dal bagliore di luce accecante dilatato dalla spessa coltre di fumo. Dunque siamo di nuovo all’epilogo ma questa volta con una cerimonia di commiato, in esclusiva per la città di Reggio Emilia e in concomitanza con la pubblicazione del cofanetto che contiene il riassunto audio e video dei primi due Gran Galà, a mitigare per quel che può l’attesa per i sette concerti finali fissati per l’estate. Una cerimonia fortemente voluta che ovviamente raggiunge la sua massima esaltazione nel secondo atto, quello del commiato vero e proprio, quando si alza il sipario sulle gigantografie iconografiche dei leader politici di un est europeo che può fare persino nostalgia, allo stato attuale delle cose. Fatur le strattona verso terra una ad una sotto lo sguardo attento di Annarella e al loro posto scende un caleidoscopio di vessilli a simboleggiare la frammentazione e l’oblio dopo il crollo di una distopia dogmatica. All’ombra di quei vessilli, poi, altri piccoli gesti ugualmente simbolici da parte di ognuno dei CCCP, ritornati per l’occasione ad essere solo loro quattro, col comunicato letto da Zamboni che riecheggia soprattutto in quel “non ci sarà un altro episodio: l’epica dei CCCP termina qui”, e questa volta c’è da credere che sarà così. Annarella si sfila gli zoccoli e li rimette nel baule, Ferretti declama “…All'erta sto come un russo nel Donbass come un armeno del Nagorno-Karabakh…”, Zamboni si occupa della ritmica con basso e batteria elettronica e Fatur, come sempre, armeggia coi suoi “gingilli”. Poco più di una ventina di minuti in tutto, prima dell’epica finale sulle note di Annarella e una parabola che dopo quaranta e passa anni si avvia solennemente alla sua dissolvenza definitiva. Andrea Amadasi
Nana Bang
Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp
Teatro Borsoni, Brescia, 23 marzo 2025
Non sarà come ai “vecchi tempi” – che tanto vecchi poi non sono: parliamo di circa tre lustri fa – in cui Brescia respirava brezze una tantum non inquinate dalle industrie ma creative, ciò nonostante è un gran bel segnale che una delle colonne della scena cittadina torni in pista tastando il polso al qui e ora. Marco Obertini (promoter, DJ e svariate altre cose: lui, comunque, preferisce definirsi “agitatore”) conferma uno sguardo da sempre focalizzato sull’attualità nella rassegna curata al Teatro Borsoni intitolata “Café Tassili”: il nome, infatti, mette in risalto l’idea di un luogo di incontro e una concezione del viaggio sonoro come esperienza (multi) culturale, sottolineando quanto confini e barriere siano concetti insensati. Anche se il mondo occidentale spinge in direzione contraria, per fortuna c’è chi ancora si affida alla curiosità, all’apertura mentale e al crossover e, dopo il concerto di Bombino nell’ottobre 2024, invita sul palco Massimo Siviero, Sarathy Korwar e per l’appunto la Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, alla quale è spettato il compito di inaugurare la rassegna con un’entusiasmante musica “totale” che scavalca i generi e le categorie perché sa da dove proviene e dove è diretta.
Con la contaminazione e la trasfigurazione del passato lavorano anche Andrea Fusari e Beppe Mondini alias Nana Bang, progetto scaturito dai Gurubanana che ha preceduto gli svizzeri in una scelta molto azzeccata, poiché il loro minimale, surreale folk elettroacustico percorso da ricordi blues, tecnologia garagista, finestre melodiche d’autore e stralunate filastrocche incarna l’anello di congiunzione tra Kevin Ayers, i Violent Femmes e dei Suicide con la gioia di vivere. Se per alcuni saranno una sorpresa (cercate i loro dischi: ne vale la pena), l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp può essere annoverata senza alcun dubbio tra i classici contemporanei. Seria però mai seriosa, la folta banda elvetica vanta il dono dell’originalità e da tempo porta avanti una concezione di suono “progressista” che, assecondando istinto e ragione, trasporta in una fertile terra di nessuno dove carezze folk, obliquità new wave, tiro afrofunk, archi torti e ritorti, ottoni che sferzano e voci che si intrecciano sono magnifica cosa sola e, sì, unica. Decollando da album di eccellente fattura, nel loro caso la dimensione concertistica costituisce uno spazio ideale per sprigionare l’intesa ineffabile che sul serio appartiene a un’orchestra onnipotente: ovvero, al collettivo capace di costruire solidi ponti tra ipotesi di The Ex color pastello e di una Penguin Cafè Orchestra punkettosa, di travolgere con un misto di gioia e introspezione e, attingendo da un post che è prima attitudine e poi stile, di disegnare panorami in cui ti smarrisci. Dopo bis invocati con entusiasmo ti scopri felice e carico di energia. Di più, da una fresca domenica sera di inizio primavera non avresti potuto desiderare. Giancarlo Turra
Thus Love/Dream Nails
Covo Club, Bologna, 15 marzo 2025
I Thus Love si sono trovati appena prima della pandemia in un fienile in mezzo a un bosco nei pressi di Brattleboro, nel Vermont, l’hanno chiamato “Hobbit Hole” e ne hanno fatto il quartier generale dove scrivere e registrare le loro canzoni. Non hanno alcuna attinenza apparente con Joseph Rudyard Kipling, che pure a Brattleboro trovò dimora sul finire del 1800 e vi scrisse, tra gli altri, “Il libro della giungla”, e nemmeno con H.P. Lovecraft, che in quella cittadina ha ambientato parte del racconto “Colui che sussurrava nelle tenebre”. Piuttosto, vanno in giro con un’attitudine dichiaratamente queer – si fanno chiamare con pronomi tipo they/them (aka Echo Mars, voce e chitarra), he/they (il batterista Lu Racine), she/they (la bassista Ally Juleen) ed infine he/him (Shane Blanck, chitarra e synth) – e da quel fienile in mezzo al bosco sono poi usciti con due dischi che, questione di tempo e opportunità, li faranno famosi. Nel frattempo arrivano in Italia di soppiatto per un paio di date (Milano sold out e Bologna quasi) inserite in un fugace tour europeo che a loro fa curriculum mentre noi che siamo diversamente giovani e nostalgici, apprezziamo anche per la situazione contingente (l’intimità del piccolo club, i gruppi tutti da scoprire, vecchi e nuovi amici che si incontrano…) che un tempo era la normalità e oggi fa venire la pelle d’oca per quanto fosse romantica e ancora non lo sapevamo.
Ad aprire la serata sono le Dream Nails, un terzetto al femminile (o riot girl, o transgender che dir si voglia) proveniente da Londra, che ama definirsi una via di mezzo tra Ramones e Bikini Kill ma, pur non difettando in simpatia, con una personalità che al momento sembra ancora compressa al livello delle intenzioni. Anche per loro due soli dischi all’attivo e quindi una manciata di canzoni che incuriosiscono più per le tematiche dei testi che non per il genio artistico e, per tale che è l’omologazione con i canoni estetici del post punk in voga negli ultimi anni, dopo averle ascoltate risulta difficile pronosticare loro un futuro minimamente radioso. I Thus Love, al contrario e come già detto, di personalità ed esuberanza ne hanno da vendere a rimorchio di Echo Mars, il frontman con l’espressione strafottente à la James Dean che si confonde in una morbida ambiguità fatta di sguardi e ammiccamenti ad ampio raggio. Soprattutto però hanno già un ampio repertorio di canzoni ispirate che acchiappano al primo ascolto. Ci puoi sentire i Dream Syndicate come i Pavement in On The Floor o Lost In Translation, ad esempio, altrove riverberano i Replacements, ma tutte sono solo attinenze che valorizzano un percorso stilistico personale che i Thus Love si stanno costruendo con cognizione e buon gusto. E poi dal vivo, già alla loro giovanissima età, sono essenziali, eccitanti e divertenti, il che rende tutto più esclusivo e unico, non solo in prospettiva. Andrea Amadasi
Fennesz
Napoli, "Live In Auditorium" (Rockalvi Main Out Basemental), Auditorium Novecento, 13 marzo 2025
Dopo vent’anni Fennesz torna a Napoli. Su disco il meglio ormai viene dal passato. Cosa aspettarsi dunque da un live del restio musicista austriaco? Non so se tutti hanno apprezzato (la maggior parte sembra di sì), ma la versione della sua musica, questa sera, non aveva molto a che fare con le sonorità sospese dei dischi. Certo, il modo di trattare il suono e di lavorare i pezzi è lo stesso, e in questo è decisamente un maestro, ma, questa sera, è proprio il suono, la matrice sonora a deflagrare, e Fennesz ne ha assecondato i sommovimenti magmatici. Sarà che qui ormai si vive di bradisismo e scosse telluriche, ma il concerto ha dirottato la musica dalle volute eteree, per certi versi ambient, verso profondità dense e scure, andando in profondità. I suoni non venivano dall’aria e manco dal tablet ma dalla terra, da sottoterra, con una fisicità debordante (un amico – per sicurezza – si è sentito il concerto con i tappi alle orecchie e “pazienza – ha detto lui – se ho perso qualche armonica”) in cui le sfumature non sono state date da discrete linee eleganti ma da bordate di noise, in un flusso incandescente ma oscuro, sotterraneo, che – però – fa sentire il suo effetto in superficie. Le casse, come totem postapocalittici o antenne mimetiche, sono state le vere protagoniste. E, inutile nasconderselo, tra queste masse sonore non è improbabile avvertire avvisaglie di guerre incombenti, di altri boati o ruggii, di altre sirene. Forse la rabbia (sì proprio rabbia) con cui Fennesz ha aggredito più che suonato la chitarra ha a che fare con queste avvisaglie. Meno consapevole e denso ma bravo Noklan che lo ha preceduto e introdotto con un set all’altezza. Girolamo Dal Maso
Godspeed You! Black Emperor
OGR, Torino, 8 marzo 2025
Alle otto di sera l’imponenza architettonica postindustriale delle Officine Grandi Riparazioni (in sostanza, dove per circa un secolo e fino al 1992 si faceva manutenzione ai treni) fa da sfondo al lungo serpentone di gente in attesa di entrare, regalando un supplemento d’enfasi visiva alla prima del ritorno in Italia dei Godspeed You! Black Emperor, già segnalati in ottima forma dagli “spifferi” francesi e soprattutto spagnoli dei concerti immediatamente precedenti. Nonostante questo però, il sold out non è nelle corde dei GY!BE in un luogo così grande e incombente, ma a ben vedere è pure meglio così, con quegli ampi spazi nelle retrovie dove potersi accoccolare in comodità e godere di un’esperienza differente, meno conforme alla situazione e quindi più intima, in ogni caso molto immersiva. Prima però c’è da scrollarsi il pur volenteroso Mat(hieu) Ball, il chitarrista dei Big Brave che usa sollecitare compulsivamente sugli amplificatori le meccaniche per nulla celesti della sua Gibson per scatenare un lungo bordone di stridori saturi che si collocano nell’ambiente come complementi di design sonoro sì ricercati ma discutibilmente significativi, e che alla fine non fanno clamore né lasciano segni particolarmente indelebili nella memoria. Poi alle dieci le luci tornano ad abbassarsi e, come loro consuetudine, uno alla volta i GY!BE salgono sul palco per raggiungere ognuno il proprio strumento nel proprio spazio di pertinenza, lungo una linea a semicerchio anche questa ormai consolidata. Da questo momento gli elementi che contraddistinguono lo spazio, il suono e le immagini vintage proiettate con pellicole sovrapposte da Philippe Léonard, appostato di fianco al mixer, si uniranno in una simbiosi situazionista così esclusiva che non lascia prigionieri, lungo l’ora e mezza di concerto tra cavalcate strumentali imponenti e stratificate e momenti in cui i più piccoli dettagli fanno la gran differenza. Un concerto che ha come spina dorsale la quasi totalità dell’ultimo disco: all’inizio Sun Is A Hole Sun Is Vapors, Babys In A Thundercloud e Raindrops Cast In Lead sono però ancora più dilatate, epiche e avvolgenti, ogni singola nota di ogni singolo strumento è compiuta e definitiva. Poi Fire at Static Valley si colloca come frangiflutti prima di Pale Spectator Takes Photographs e Grey Rubble - Green Shoots, infine Moya e BBF3 completano il lungo giro sulle montagne russe. Alla fine, mentre i GY!BE se ne vanno così come sono arrivati, è subito il momento di riavvolgere il nastro e rivivere i momenti più emozionanti, e sono tanti, mentre le luci si accendono (rimaste spente per tutto il concerto, con gli unici riflessi luminosi che provenivano dalle immagini proiettate sullo sfondo) e il deflusso lento e confuso delle persone descrive di qualcosa di grandioso che si è appena concluso. Andrea Amadasi
The Limiñanas
The Fighting Cocks, Kingston, London, 25 febbraio 2025
Incontro i coniugi Limiñanas (Lionel e Marie da Perpignan, sud della Francia) nello storico record shop Banquet Records a Kingston, sobborgo a sud-ovest di Londra, per la presentazione del nuovo lavoro “Faded”. Foto e firme di consuetudine per soddisfare i fan presenti e via al Fighting Cocks, pub locale dove in serata è prevista l’esibizione che Lionel mi preannuncia in formazione quintetto, con bassista, tastierista e voce/chitarra acustica ad accompagnare Marie (batteria e voce) e Lionel (chitarra). Si inizia con lo strumentale, da fatidica colonna sonora di un film immaginario, Spirale, seguito a ruota dal bel singolo Prisoner of Beauty, e Shout, dove la voce di Tom (Gorman, ex cantante dei Kill the Young) cerca di non far troppo rimpiangere quelle di Bobbie Gillespie e Timothe Regnier (aka Rover), rispettivi ospiti d’onore in Faded. Questo trittico iniziale accantona per la serata l’ultima prova discografica dei nostri per passare ai classici di una discografia ormai ventennale: l’ipnotico numero sixties Down Underground, le delizie garage pop Salvation e Shadow People, la newordiana The Gift e Instabul Is Sleeping, connubio perfetto tra Velvet e Joy Division con le tastiere che creano rassicuranti spiragli e bagliori di intensa luce che spezzano l'oscurità dei quattro minuti di durata. Inaspettatamente, almeno per me, arriva l’ottima, selvaggia e tiratissima, cover di TV Set dei Cramps, con Tom che improvvisamente si trasforma in licantropo ed offre probabilmente la sua migliore performance vocale della serata. A seguito dieci e passa minuti di pura estasi kraut (o, come dicono loro, Fraugrock!) di una (da me) non ben identificata track (sorry!) che potrebbe facilmente rappresentare l’apice del concerto se non fosse che parte Je m’en vais con il suo incedere ipnotico, così semplice ed efficace che dopo tre minuti si trasforma in Rocket USA dei Suicide in tutta la sua ieratica ripetizione, grave e solenne, per un finale davvero strepitoso. Con tale conclusione le richieste di bis del centinaio di presenti passano, giustamente, del tutto inosservate. Merci Marie, Merci Lionel. Ferruccio Guglia
Il Teatro degli Orrori
Vox Club – Nonantola (MO), 20 febbraio 2025
Per capire che è un periodo propizio per le reunion basta guardarsi intorno. Spesso ci sono anniversari da cavalcare ma a volte no e in ogni caso si mettano l’animo in pace i bastian contrari di professione, la logica del “mai dire mai” è eterna e universale e, nello specifico, si spalma sulla voglia di tornare a suonare insieme parimenti a quelle cose là, innominabili perché fa brutto ma se lo chiedete a Gionata Mirai ve le chiama per nome senza problemi e c’è da fidarsi… Perciò questo è il momento del Teatro Degli Orrori – fino a qui, probabilmente la migliore e più importante band italiana di questo secolo – e la data zero di Nonantola del tour “Mai Dire Mai”, lo diciamo subito, ha decretato una band in buona salute, che probabilmente non ha nemmeno dovuto fare un gran rodaggio per ritrovare l’armonia giusta a nove anni dall’ultimo concerto insieme. A differenza del passato, Pierpaolo Capovilla è il primo a salire sul palco: con la calcolata indolenza tipica della sua teatralità raggiunge il microfono e vi si congela accanto per qualche secondo, quanto necessario a Gionata Mirai, Giulio Favero e Francesco Valente di predisporsi al proprio rango. E subito dopo, sono le nove e un quarto, si compie il ritorno del Teatro Degli Orrori, da quel “possiamo incominciare” che è l’incipit di Vita mia, alla quale seguiranno in sequenza Dio mio e Lei venne per completare un trittico romantico e formale allo stesso tempo, dato che ricalca in toto l’inizio di “Dell’impero delle tenebre”. E sarà proprio il disco da cui tutto ebbe inizio, insieme al successivo “A sangue freddo” (di cui è freschissima la ristampa a cura di Overdrive Records) che risulterà il più saccheggiato di un concerto che nelle due ore di durata dimostra che quando si ha qualcosa da dire e da dare non servono effetti particolarmente speciali, è sufficiente saper maneggiare la giusta quantità di energia intervallando con qualche articolata introduzione, soprattutto se è di Capovilla. In questo caso per recuperare la confidenza lasciata scivolare via, nell’acqua sotto i ponti del tempo, quella inevitabilmente commovente su La canzone di Tom, quella allegra ma non troppo su Majakovskij e quella amaramente disillusa su Il lungo sonno (Lettera aperta al Partito Democratico). Poi è rimasto nervoso, potente, robusto e indisciplinato a seconda dei momenti,
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