LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: The Fleshtones, foto di Ferruccio Guglia]

The Fleshtones
100 Club, Londra, 11 settembre 2025
Per i newyorkesi Fleshtones utilizzare gli aggettivi “leggendari” e “mitici” è dovere: sono l’unico gruppo fuoriuscito dal calderone CBGB’s di metà anni Settanta (Ramones, Cramps, Dead Boys, Television, Blondies, Talking Heads, ecc…) che ha ininterrottamente continuato a produrre dischi (tutti almeno sopra la sufficienza) e ad esibirsi dal vivo per mezzo secolo con la formazione originaria (unico cambio Kenny Fox, che dal 1990 li accompagna al basso e alla voce). Autori di almeno due imprescindibili capolavori del genere (i primi album “Roman Gods” e “Hexbreaker!”) e protagonisti di innumerevoli, memorabili serate grazie alla contagiosa energia trasmessa al pubblico, per un periodo di tempo erano la migliore party band in circolazione. Ricordo ancora un concerto di decenni fa dove riuscirono a coinvolgere tutta la platea a creare un trenino (!) per uscire fuori dal locale (!!) schiamazzando in strada lo “sha la la la la” di Roman Gods tra gli sbigottiti e increduli passanti, per poi tranquillamente ritornare dentro il club, salire sul palco e continuare la festa con il loro “super-rock”, termine da loro stessi coniato per riassumere la personale, perfetta miscela di garage, beat, soul, surf e punk. Il fatto che questi quattro settuagenari continuino tuttora a intrattenerci divertendosi è di per sé motivo di celebrazione. Per cui, nonostante lo sciopero dei trasporti pubblici, mi avventuro per raggiungere il 100 Club in piena Oxford Street. La festa inizia col rock’n roll con tanto di coretti di New Song, a cui segue a sorpresa The Girl from Baltimore, uscito come singolo nel lontano 1980. Dal recente ultimo lavoro (It’s Getting Late) vengono proposti il rock licantropo di Say You Don’t Mind It, la rollingstoniana Empty Sky e la già classica Way of the World, con Kerry al microfono. Da quello precedente (“Face of the Screaming Werewolf”), Alex Trebek e la scatenata Manpower Debut e poi via a saccheggiare dal vasto catalogo, tra le altre citiamo I Surrender! New Song, Hard Lovin Man, l’auto celebrativa Remember the Ramones, New Scene (da “Hexbreaker!”) e la cover dei Coastliners Alright!
Keith passa tutta la serata a suonare la chitarra nel suo caratteristico e inconfondibile stile, ovvero esibendosi in continue sforbiciate e salti come a voler prendere a pedate in culo il fattore anagrafe. Non da meno il sodale Kenny (basso) che sembrerebbe voler dimostrare a Keith che in un’ipotetica gara ginnica gli darebbe filo da torcere. Il sornione Peter (voce) si limita a sculettare, shakerare, twistare, watusare e hullygullare con la sua canuta frangia floscia che ritmicamente si sposta da destra a sinistra. Il buon Bill sta dietro la batteria e vista l'età (77 compiuti) meglio così, perché gli vogliamo bene e non vorremmo che fuoriuscisse qualche ernia. Dato che sul palco ci stava pure un organetto, aspettavo trepidante I’ve Gotta Change My Life (proposta senza Farfisa durante la presentazione del nuovo album alla Rough Trade Records Shop lo scorso dicembre, in concomitanza col tour da supporto ai Damned in suolo britannico) ma purtroppo non arriva: ci pensa invece il party anthem strumentale Theme from the Vindicators a rincuorarmi concludendo la serata nel migliore dei modi con gli sbraitanti hey hey e gli sha la la la. A fine concerto chiedo al sempre affabile Peter il segreto della loro longevità e lui risponde: “siamo quattro amici a cui ancora piace suonare rock’n’ roll, non abbiamo mai fatto un soldo per cui non abbiamo nessun motivo per litigare. Basta che ci offriate vitto ed alloggio e siamo pronti a divertirci e farvi divertire”. Leggendari e mitici, come dicevamo. Ferruccio Guglia


Six Organs Of Admittance
Industrie Fluviali, Roma, 12 settembre 2025
Mai calligrafico nella sua esposizione, Ben Chasny ci fa sapere in questo suo mini-tour italiano quanto le musiche degli ‘altri’ continuino a esercitare un’enorme influenza nella sua sfera, anche mediatica. Il problematico adolescente riversa tutto il suo spleen in Fascination Street dei Cure e ci ricorda come l’esoterismo folk sia da sempre una passione (l’amicizia con David Tibet dei C93) in una trasfigurata rilettura di Fire Of Mind dei Coil, ovviamente meno cosmica e più asciutta. Come suona la chitarra di Six Organs Of Admittance oggi? È un’elettrica senza un filo di distorsione, ovviamente c’è l’eredità Takoma da stemperare, ma anche qualcosa di Richard Thompson e del culto kraut Gunter Schickert. La scaletta – apprendiamo – è diversa per ogni serata, non foss’altro per la pazza variante cover (anche un’apparentemente inoffensiva White Wedding di Billy Idol assume contorni epici). L’eclettismo dell’uomo è narrato dalla sua estesa discografia ma anche dal suo essere camaleontico on stage – temo di essere arrivato in doppia cifra senza aver mai ho visto il medesimo spettacolo. Ci sono gli inarrivabili evergreen come Shelter From The Ash e Hold But Let Go al fianco di brani assortiti da un corpus sempre più esteso, c’è tutta la grazia di un autore che in maniera verticale ha attraversato le vie della neo-psichedelia e del new weird folk senza mai dare l’impressione di adeguarsi a forme convenzionali. La capacità di sorprendere (pensiamo al disco collaborativo con Shackleton o agli affondi elettrici del power trio Rangda) rimane una prerogativa, una missione. Un ringraziamento sentito anche ad “Unplugged In Monti”, che in una cornice invidiabile ci ha riconsegnata intatta la fragranza e fragilità di Ben. Luca Collepiccolo


The Bug Club
@The MOTH Club, Londra, 10.09.2025
Lo storico conduttore radiofonico Marc Riley (alla corte del tirannico Mark E. Smith nella prima incarnazione dei Fall a cavallo tra ’70 e ’80, che ovviamente lo licenziò) qualche anno fa trasmise My Baby Loves Rock & Roll Music, un pezzo che mi svegliò dal torpore pomeridiano col suo suono alla Velvet/Modern Lovers. Annotai il nome del gruppo per future investigazioni a cui mi dedicai subito dopo l’ascolto della deliziosa It’s Art, che suonava come un inedito dei primi Pavement. Da quel momento in poi seguo con affetto il prolifico trio gallese Bug Club, che mi trasportano indietro nel tempo in un mondo familiare dove tutto era più semplice, in cui l’immaginazione era fervida e lontana anni luce dal rincoglionimento da cerebroleso causato dallo scrollamento di polpastrelli su piccoli odiosi dispositivi. Quello delle liste compilate certosinamente per scambi postali con altri appassionati al limite della morbosità maniacale, della banconota da cinquemila lire inserita nella busta affrancata per acquistare fanzine dall’impaginazione sospetta o demo direttamente dai gruppi, dell’attesa spasmodica per l’arrivo del pacco con i dischi (per lo più forati) acquistati grazie alla mensile colletta tra amici, ecc…  Sì, le accattivanti e semplicissime melodie dei Bug Club miracolosamente fanno rivivere quell’industrioso universo DIY degli anni ’80, ingenuo ma ingegnoso, che l’evoluzione tecnologica ha brutalmente spazzato via, sensazione rafforzata dalla grafica scelta dal trio per le varie uscite discografiche e merchandise (fumetto incluso). Il fatto che non si prendono sul serio (nonostante da qualche anno incidono per la Sub Pop) e che si divertono da matti aggiunge un ulteriore strato di gradevolezza al tutto che li rende ancor più simpatici. Sam Willmett (voce e chitarra) e Tilly Harris (voce e basso) suonano insieme sin da ragazzini, per cui l’interazione è perfetta e l’alchimia ben rappresentata dai continui sguardi d’intesa e sorridenti accenni che si scambiano sul palco per tutta la serata.
Nonostante l’immediatezza del suono, che su disco cerca di catturare l’energia delle loro esibizioni live con produzione volutamente lo fi, la scrittura è meticolosa con testi arguti, spiritosi, taglienti ed ironici. Tra l’iniziale Twirling in the Middle con i suoi cambi di tempo (ad un certo punto si fa rocksteady) e la conclusiva Quality Pints, due veloci minuti di energetico pop-punk di puro divertimento, la serata sciorina una raffica di potenziali alt-hit accomunati da energia grezza, ritmi serrati e incalzanti assolo mostrando un’inaspettata capacità tecnica e quella rinfrescante inventiva sbarazzina che li rende eccitanti. La riconoscibilità della proposta riporta in mente la perfetta descrizione affibbiata da John Peel al gruppo di Mark E. Smith, “Always different, always the same”. Marriage, Jealous Boy, Lonsdale Slipons e How to be Confidante vengono accolte con entusiasmo dai presenti ma per me l’highlight della serata è We Don’t Need Room for Loving, irresistibile nella sua accattivante elementarità, con Sam e Tilly che all’unisono elencano le lettere dell’alfabeto cercando di evitare che i reciproci smaglianti sorrisi si tramutino in incontrollabili risate, momento che ben esemplifica la perfetta sintonia tra i due e la sincera spontaneità e brillante e arguta semplicità del trio. Menzione d’obbligo infine per gli apripista Fruit Tones, terzetto di Manchester già apprezzato dal vivo lo scorso anno come spalla di Jon Spencer e The Nude Party, col loro rock stradaiolo tra Stones e Dolls con all’attivo due bei album e un terzo in arrivo. Ferruccio Guglia


Richard Thompson
Roma, Auditorium, 4 Settembre 2025
Gli artisti del folk inglese raramente oltrepassano le regioni del nord, dove questo genere ha da sempre maggior seguito. Il tempo, però, è galantuomo e oggi anche uno come Richard Thompson, che è davvero da considerare un capostipite, può godersi una sala quasi piena e partecipe come quella dell’Auditorium di Roma.
Thompson, per chi non lo conoscesse, ha alle spalle una fulgida e ultradecennale carriera: fondatore nella seconda metà degli anni ‘60 dei Fairport Convention, uno dei primi gruppi a tentare con successo una via “elettrica” al folk (con grande biasimo dei primi revivalisti), intraprese un’attività solista a metà del decennio successivo, lanciando una serie di album, a volte insieme alla moglie di allora, Linda Pettifer, sotto la sigla di Richard and Linda Thompson, tra i quali è doveroso ricordare almeno I Wanto to See the Bright Lights Tonight (1974). Da allora il folksinger inglese, anche dopo la separazione da Linda ha continuato a incidere regolarmente fino all’ultimo lavoro Ship to Shore (2024).
Musicista versatile, Thompson si è presentato a Roma armato solo di una chitarra acustica che ha suonato per un ora e mezza in modo magistrale, secondo i dettami della grande scuola dei chitarristi folk inglesi (Davy Graham, Bert Jansch, Martin Carthy, John Renbourn, per fare solo qualche nome), vale a dire uno stile che ha adottato le tecniche e le accordature del blues utilizzandone l’estraneità al sistema musicale eurocolto per evocare ritmi, armonie e timbri della tradizione popolare britannica (della quale, a rigore, la chitarra non fa parte). Di qui, per esempio, l’uso di abbassare la sesta corda della chitarra di un tono per ottenere la possibilità di suonare le ultime tre all’unisono, ottenendo un bordone che permette una ritmica costante mentre le altre dita si muovono su e giù per la tastiera. E, infatti, per la maggior parte del tempo del concerto l’artista ha utilizzato questa accordatura, ritmando quasi tutti i brani in questo modo e cambiando le tonalità con l’uso di un capotasto mobile: solo occasionalmente ha riaccordato la chitarra e, infatti, lì si è distratto e si è perso, sbagliando la tonalità: “dovreste applaudire quando faccio delle cose buone. Non quando sbaglio!”, ha detto ridendo al pubblico che l’incoraggiava… Al di là di questi dettagli tecnici, Thompson, ultrasettantenne, è sembrato davvero in gran forma sia come chitarrista che come cantante, producendosi in una performance notevolissima, di grande uniformità, senza cali di tensione e con l’aiuto, in alcuni brani, della voce di Zara Philips, compagna d’arte e di vita. Sono sfilati così alcuni grandi classici del suo repertorio, dai primi brani dei Fairport Convention fino, a I Want to See the Bright Lights Tonight con, ovviamente, un occhio di riguardo per l’ultimo album. Bellissima soprattutto l’esecuzione di If Love Whispers Your Name (da Dream Attic, del 2010, realizzato con Linda) e, soprattutto, di Johnny’s Far Away (da Sweet Warrior, del 2009), presentato quasi come uno “shanty”, vale a dire come uno di quei canti dei marinai delle isole britanniche che prevedono un refrain da cantare in coro (invito che la platea ha prontamente accolto). A conclusione, la commovente Wall of Death, tratto dal disco Shoot Out the Lights, ancora con Linda, del 1982. Giovanni Vacca


Tropical Fuck Storm
Electric Ballroom, Londra, 02 settembre 2025
Coincidenze e imprevisti vari mi hanno impedito di assistere in passato ai live dei TFK, per cui un liberatorio sospiro di sollievo accompagna il mio ingresso all’Electric Ballroom. Onde evitare sgradite sorprese arrivo puntuale e vengo ripagato dalla prima assoluta degli Unmarry Me!, trio di recente formazione con Chris Rowley and Jon Slade (alfieri del riot grrrl sound in terra d’Albione con gli Huggy Bear nei primi anni ‘90) e Lise Frances. Mezz’oretta di DIY electro alt pop, costruito sulle ritmiche dettate da ripetute linee groovy di basso e synth su cui si innestano le voci, la cui alternanza tra maschile e femminile, ricorda a tratti il primo Tricky. Di seguito gli O. duo londinese composto da Joe Henwood (sassofono) e Tash Keary (batteria) che propone con energia e passione la muscolosa e coraggiosa miscela di noise strumentale, jazz, punk, doom metal e ritmiche dance ben apprezzata nel debutto “WeirdOs”, uscito nel 2024 per la Speedy Wunderground. I monolitici riff di sax e la furiosa batteria suonano ancor meglio dal vivo grazie all’ineccepibile destrezza del duo.
E poi eccoli qui, gli australiani Tropical Fuck Storm, entrati di diritto nel mio circoscritto olimpo di gruppi “importanti”, un circolo esclusivo popolato da artisti che per la capacità di instaurare forti legami emotivi con l’ascoltatore trascendono la semplice dimensione sonora riuscendo a creare, se non proprio degli universi paralleli, almeno dei microcosmi abitati da fruitori accomunati da sensibilità interiore, gusti e valori. Il senso di appartenenza è tale da costituire una vera e propria comunità astratta e dai labili confini delineati dalla profonda risonanza interiore scaturita dall’ascolto. Nel mio caso, per ragioni anagrafiche e gusti personali, citerei gli Husker Du e i Fugazi, che proponevano la (grande) musica con quella giusta attitudine che ammiravo da giovincello. Ragione per cui adesso, in piena mezza età, scoprire e seguire un gruppo “importante” nel senso sopra menzionato riaccende focose passioni giovanili considerate ormai sopite.
Si parte con il contorto avant funk di Braindrops, con la maciullata narrazione nasale, irregolare e biascicata di Gareth (voce e chitarra) che mutila il lessico e sevizia sintassi su cui si innalzano i nervosi ma caldi e ariosi strilli armonici del coro greco delle divine Fiona (basso) ed Erika (chitarra e tastiere). Di seguito Irukandji Syndrome, perfetta rappresentazione dell’ormai consolidato suono TFS, miscela di experimental art noise dalle melodie storte, deformate e sinistre con implacabile giro di basso e la chitarra di Gareth spigolosa e dissonante (che per tutta la serata tira fuori strani armonici e suoni insoliti grazie all’utilizzo dei pedali).
Si continua con due pezzi avant pop mutante, l’allucinata versione in technicolour dei B52’s in pieno schizzato deliro acido della strepitosa Bloodsport, con Erika alla voce e la chitarra di Gareth figlia bastarda di Lee Renaldo e Snakefinger affetto da ADHD, e il surrealismo dada della delirante e febbrile Goon Show, dove ritroviamo la voce narrante, baritonale e rauca di Gareth ad accompagnarci fino all’inevitabile deflagrazione con folgoranti scariche di pura elettricità ustionante. L'omaggio agli Stooges Ann, con Fiona alla voce che parte in sordina per poi prendere corposità tra stridente feedback, abrasiva elettronica distorta, e diavolerie varie per autocombustire in un glorioso e solenne finale degno degli Swans con Lauren, indefesso motore propulsivo che irradia e distribuisce pura energia ai compagni di viaggio (musicisti sul palco e spettatori in platea) e che con totale abnegazione per tutto il concerto sembra impartire una lezione punitiva alla malcapitata batteria aggredendola con feroce veemenza e violenza sadica nel tentativo donchisciottesco di polverizzarla prima che la serata termini.
E poi arriva You Let My Tyre Down, emozionalmente devastante, con la voce di Gareth tormentata e straziante che necessariamente, per motivi di mera sopravvivenza, trova sfogo nel liberatorio urlo catartico a polmoni pieni. Un pezzo che ti va dentro e scava in profondità per raggiungere il cuore e spezzarlo e poi impietosamente abbandonarti stremato, affranto e logorato con gli occhi lucidi, in uno stato di euforico sconforto. Difficile riprendersi ma per fortuna siamo graziati dal lento inizio cantilenante della spettrale Moscovium, che all'improvviso ci scuote con le sue invettive strillate per poi prender forma corposa e terminare in pura cacofonia. Il robotico ed alieno tropical avant funk dal groove sfalsato ritorna con Who’s My Eugene, con Erica nuovamente al microfono per offrire la necessaria energetica linfa vitale e accompagnarci dritti dritti all’epico finale con l’efferata Two Afternoon, tesa, frenetica e maniacale e di seguito i nove minuti di Paradise, con i cori femminili che cercano di alleggerire l’insostenibile fardello trasportato dalla sofferta voce roca di Gareth tra le chitarre desintonizzate che poi esplodono in un wall of sound, un vero ciclone sonoro che ben giustifica il moniker scelto dal gruppo che spietatamente ci travolge con inaudite ondate di feedback.
Encore festoso con l’esuberante cover di Staying Alive (che alla luce della vittoria di Fiona sul cancro acquista maggior significato) che suona pressappoco come la versione dei Bee Gees se ascoltata sulla cassettina originale logorata dal tempo e quindi smagnetizzata che gira su piastra inutilizzata da decenni dalle testine luride, ovvero bella sghemba, sgommata dal riff stonato, satura di rumori statici, fruscii e sibili vari. In questa “golden age of assholes” i TFS rappresentano un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi saldamente, un fulgido bagliore di combattiva resistenza e rassicurante speranza, ben esemplificato dal “I am (still) your island when you’re washed away”. Candidato a concerto dell’anno. Lunga vita ai TFS, il gruppo “importante” di questo decennio. Ferruccio Guglia


“Jazz Em Agosto 2025”
Lisbona, Fondazione Gulbenkian, 3-8 Agosto 2025
Le circostanze hanno fatto sì che mi trovassi a Lisbona nel periodo di Jazz Em Agosto e che il mio alloggio fosse a poco più di cinque minuti dalla Fondazione Gulbenkian dove si sono tenuti i concerti, la maggior parte in uno splendido anfiteatro all’aperto, circondato da un parco lussureggiante, una specie di molto mini Central Park lisbonese. Il calendario della rassegna dal 1 al 10 agosto è stato più ampio della mia permanenza è questo ha fatto si che mi perdessi inevitabilmente i sets del primo agosto (William Parker – Cooper Moore – Hamid Drake) e del due (Rafal Toral e Kris Davis Trio), nonché del nove (Shane Parish solo acustico e Thumbscrew) e del dieci (Elias Stemeseder con Christian Lillinger e il nuovo progetto in settetto di Patricia Brennan).
Per imprevidenza (sold out) mi sono negato, il 3 pomeriggio, il trio di Mariam Rezaei, Julien Desprez Electric e Lukas König, i quali hanno messo a ferro e fuoco uno dei due auditorium del centro culturale. Pure dall’esterno, infatti, ho potuto in qualche modo percepire l’atletica rumoristica dei tre; distintamente sono arrivate le percussioni furenti e rocambolesche e gli scrocchi della chitarra, il resto si intuiva. L’ovazione guerriera del pubblico ha confermato le impressioni, un diavolerio da non mancare se vi capita.
Ho evitato per il rotto della cuffia di perdermi Darius Jones con Chris Lightcap al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. Nonostante l’annunciato sold out alla fine qualche posto residuo c’era. Da lì fino all’8 sera me la sono goduta.L’insieme (atmosfera, clima, “dove ascolto la mia musica è la mia casa” etc.) è stato forse superiore alle singole parti (faccio riferimento a quanto sentito, 6 concerti su 14 non considerando la Rezaei) ma le parti sono state assai appaganti o quanto meno molto interessanti. Il sassofonista americano ha portato all’attenzione l’ultimo suo “The Hypervigilant Eye”, declinato in una forma carnale e affabulando il pubblico con grande simpatia. All’esecuzione di We Inside Now, ad esempio, ha invitato i presenti a farsi più vicini e una ventina di spettatori sono scivolati dalla platea al palco, sedendosi attorno al trio. Potente, precisa, lirica, radicalmente blues la musica, con una sezione ritmica strepitosa - Lightcap che faceva risuonare il contrabbasso dentro lo stomaco. Anche perché, se il tono era affettuosamente da summertime, la materia era intrisa di dolore e sofferenza. Jones l’ha detto, ora vi suono No More My Lord, uno dei brani più cupi di sempre. Scritta da Henry Wallace, un detenuto della prigione di Pachman Farm nel Mississippi e raccolta da Alan Lomax, la canzone è il doppelgänger di Summertime, il velo strappato, lutto e misericordia. L’interpretazione da seduta spiritica del trio non ha spaventato la cavea, che si è stretta di più intorno al cuore d’intensità della serata. Nessun pannicello caldo di buoni sentimenti. Solo il segno che il dolore condiviso è più tollerabile e che la musica può rendere memoria e testimonianza, lasciando, chissà, un seme di cambiamento in ognuno. I presenti, tanti tanti, hanno risposto con gioia, ognuno con una propria specifica ragione.
Diversi sarebbero i rivoli da seguire per ricostruire le storie sonore e la musicologia della rassegna. La chitarra, ad esempio: da Toral a Desprez a Joachim Festas a Paris a Halvorson. Ma pure il contrabbasso.
La sera del quattro il trombettista di casa, Luís Vicente, si è accompagnato alle percussioni di Pedro Melo Alves (che frequenta anche ambienti molto sperimentali) e alle corde di Gonçalo Almeida (che, tra le tante cose, suona anche nei Tettarapadequ con il connazionale João Lobo e gli illustri nostri Daniele Martini e Giovanni di Domenico). Atmosfere latine e brasiliane e coloriture aspre; ed è stato Almeida a definire i confini dello scenario sonoro in cui la tromba cantava, mentre una batteria tellurica ha reso tutto piacevolmente instabile. Gran calore domestico negli applausi.
Avevo qualche perplessità a riguardo del quartetto di João Próspero (contrabbassista anche lui). Il suo album di debutto, “Sopros” mi piace, ho fisiologicamente bisogno anche di questi suoni più “morbidi” e il disco mi soddisfa pienamente. Ma in un ascolto privato, o in auto per allontanarmi da scorni e tristezze. Temevo che dal vivo svaporasse in sentimentalismi e venisse ferito dai continui passaggi degli aerei (uno ogni dieci minuti, forse meno). Sono stato felicemente smentito, e per ampiezza della forchetta tra (non) aspettative ed esito, mi è sembrato (un fatto di pura prospettiva) il concerto migliore. Lui insieme a Joaquim Festas (chitarra), Miguel Meirinhos (pianoforte) e Gonçalo Ribeiro (percussioni) hanno virato verso arrangiamenti più spigolosi, invenzioni semi-sperimentali (tutta la musica se “è” è sperimentale…), nelle geometrie ritmiche e pure negli sviluppi armonici. A un certo punto mi è venuto in mente Camufleur dei Gastr del Sol, non per affinità sonora ma per acerba attitudine a quell’obliquo che quasi non ti accorgi (e forse perché all’andata mi ero letto il libro di Federico Savini). Dunque un bel set, asciutto ma emotivo, classico ma nervoso come il miglior modern jazz non da scaffale. Alla faccia del look nerd (o forse proprio per quello).
Altro set molto atteso quello di MOPCUT (Audrey Chen, Julien Desprez e Lukas König) + Moor Mother + MC Dälek. Il blend di hip hop, sperimentazione free, poesia e screziature jazz ha funzionato è gradualmente cresciuto e condotto il pubblico a sintonizzarsi su groove urbano-politici dall’ensamble. Musicisti che entrano in scena singolarmente, suono che ramifica. Prima i vocalizzi e l’elettronica mutante della Chen, poi la poesia urbana di Moor Mother. Quindi le percussioni di König per batter questi tempi sconnessi. Quindi, insieme Dälek e Desprez. A questo punto la macchina sonora ha cominciato ad ingranare un passo, pure un poco kraut, di trascinante inesorabilità, dando l’abbrivio ad un interplay in cui la visione tragica del mondo fluiva attraverso le parole di Camae Ayewa– world wide web, intelligenza artificiale, entropia tecnologica. Con ritmo emotivo in levare, figurativamente almeno, di speranza.
Un concerto che lanciava la volata politica a quello che il sette di agosto è successo nell’ audiotorium della fondazione. Un palco che ha come quinta una vetrata che dà sul parco, colpo d’occhio incredibile. Gli X-Ray Hex Tet sono Billy Steiger (celesta e violino), Crystabel Riley (percussioni), Edward George (voce, registrazioni, effetti) Pat Thomas (pianoforte ed elettronica), Paul Abbott (percussioni ed elettronica), Seymour Wright (sax alto). George e Thomas agli estremi, sinistra e destra, della formazione. I due set di percussioni al centro (Riley a sinistra). Wright in piedi, dietro, tra Edward e Riley, alla sua sinistra, seduta alla celesta e dietro Abbott, la Riley. Una semi-oscurità per un teatro sonoro tanto perturbante nella sua progressione verso una specie di vuoto di coscienza dove si coglie la durezza del messaggio e ci si ritrova specchiati nella storia. È la voce di George - sembra insopportabilmente monotona e diventa persecutoria - a dare senso all’esecuzione “musicale”. Il nodo è storico, politico. Edward George attinge a documenti conservati presso l’Università di Edimburgo, dai quali emergono drammaticamente le dinamiche di coinvolgimento dello stesso ateneo nel traffico di schiavi, nelle logiche del colonialismo capitalistico, nelle teorie pseudoscientifiche (la frenologia) per legittimare la superiorità razziale dei bianchi. Durante il set, verso la metà, diverse persone sono uscite dalla sala. Sarebbe bello chiedere perché. Per via di una non-musica che radicalmente feriva di spiacevolezza l’ascoltatore? Per la requisitoria che ricordava, con toni più agghiacciati e documentati, il Pop Group dei primi due album? Le due cose mi hanno incollato alla poltroncina, spinto (con me tanti altri) ad aguzzare…l’ascolto. Ed è finito come doveva. Applausi intimiditi, un che di silente sgomento. Un buco nello stomaco. E il risuonare di quella negazione retorica, gettata là, tatuata in mente “Questo non ha niente a che fare con Gaza”.
Ho lasciato Jazz em Agosto e Lisbona con gli echi post-math, pizzicchino di “in opposition”, noise quanto basta degli Ahleuchatistas 3, continuazione di quel progetto di Shane Parish / Perlowin insieme ad un tarantolato Danny Piechocki (percussioni) e Trevor Dunn (basso). Musica che, out of the box, è il punto di contatto tra il punk e il barocco, tanto è fisica e furiosa nell’impatto sonora quanto cesellata e ricamata nelle geometrie non euclidee. Bisogna entrare nel flusso, nel toboga del power trio (altrimenti diventano noiosi gomitoli di filo spinato) e bravi i tre a tirarci dentro il pubblico. Al bis l’ineffabile chitarrista ha scherzato “abbiamo suonato musica tutta scritta e questo ci hanno detto è un festival jazz e allora facciamo un po’ di improvvisazione”. Una chiusura più in libertà, senza ansie di prese strette, magari una possibile evoluzione.
E così, accarezzato da un venticello fresco, mi sono lasciato alle spalle una delle ragioni migliori per spendere qualche giorno nella capitale portoghese. Dionisio Capuano


The Burning Hell
The MOTH Club, Londra, 26 agosto 2025
Qualche anno fa, in pieno lockdown causa Covid, misi insieme una playlist composta da brani orecchiabilissimi dai testi positivi e ottimisti, inni di speranza da cantare collettivamente in famiglia per esorcizzare le paure causate dall’incertezza di quei tempi. Posizionata tra Three Little Birds di Bob Marley e Always Look on the Bright Side of Life dei Monty Python, ci stava Everything Will Probably Be OK dei canadesi Burning Hell, progetto del geniale cantastorie Mathias Kom e della compagna Ariel Sharratt, talentuosa polistrumentista, che da quasi due decenni raccontano in maniera spensierata e divertente l’avvento dell’imminente apocalisse a cui, ahimé, la razza umana sembra ineluttabilmente avviarsi. Per cui, mentre sono ancora in tempo, mi dirigo al MOTH Club per assistere alla prima data del tour britannico (ben sedici in una ventina di giorni) per ringraziarli di aver contribuito a offrire una parvenza di necessaria tranquillità da somministrare quotidianamente ai miei figlioli (allora adolescenti) in quel tempo di assoluto bisogno.
Jon McKiel (chitarra acustica) e il fido collaboratore Jay Crocker (synth autocostruito) aprono la serata incantando con 40 minuti di ammaliante folktronica, a tratti rarefatta ed enigmatica e a tratti trasognante e ipnagogica. Li vediamo entrambi nuovamente sul palco (Jon alla batteria e Jay alla chitarra) accompagnare Mathias e Ariel per la performance dei Burning Hell, questa sera in versione quintetto grazie alla polistrumentista Maria Peddle. Da “Ghost Palace”, l’album di recente pubblicazione, vengono proposti gli indie rock Celebrities in Cemeteries e Summer Olympics, l’allegro calypso Brazil Nuts & Blue Curacao, la divertente Bottle of Chianti, Cheese and Charcuterie Board, il country klezmerato Duck vs Decorated Shed, il bubblegum pop punk Home Planet, il pop Luna FM e la title track, ballata acustica da brividi. Nella scaletta trovano posto l’indie folk da balera periferica Wallflowers, l'ironia cinica del divertente folk da protesta Never Work (amplificata dalla tuta da lavoro rossa indossata da Ariel!) le frenetiche e prolisse Birdwatching e Barbarians, l'eccezionale Bird Queen of Garbage Island che riporta alla memoria i Tom Tom Club e ovviamente il cavallo di battaglia Pass the Wine, Fuck the Government, I Love You col ritornello, a tempo di valzer, cantato a squarciagola da tutta la platea. I testi divertenti, stravaganti e originali impregnati d’umorismo nero pece e presentati con vivaci giochi di parole sono essenziali per apprezzare in pieno il genio dei nostri: puro deadpan humor, non a caso qualcuno si è scomodato a menzionare lo scrittore americano Tom Robbins, scomparso lo scorso febbraio.
Al termine della serata, tutte le nostre endorfine sono state rilasciate e usciamo dal locale radiosi, gai e giulivi a tal punto da pensare che se è vero che la migliore medicina è sorridere, allora il servizio sanitario nazionale dovrebbe obbligatoriamente prescrivere una dose giornaliera d'ascolto dei Burning Hell, con tanto di bugiardino con la traduzione dei testi per assimilare in pieno le loro magiche capacità terapeutiche apportatrici di buonumore. Ferruccio Guglia


The New Christs
FLOG on Plein Air, Firenze, 17 agosto 2025
L’asse via etere che da Detroit porta a Sidney resiste, persiste e si rilancia, anche un pochino inaspettatamente, in particolar modo grazie a due soggetti dall’età indefinita (sopra i settanta ok, ma quanto?) e che più invecchiano e più assumono i tratti di certi bislacchi personaggi usciti dalla penna di Matt Groening. Si parla di Rob Younger e Jim Dickson ovviamente, due che la pensione logora chi non la vive “on the road” ma saltando per continenti, mica la gita domenicale fuori porta, perché se niente niente hai scritto la storia dell’aussie rock, quel fuoco ce l’hai dentro finché stai al mondo. E infatti galeotta fu “The Burning of Rome: Selected Tracks”, la raccolta in due dischi curata da Younger e pubblicata giusto in tempo per imbarcarsi, loro due più Brent Williams, Dave Kettley e Paul Larsen (ex Celibate Rifles, tra gli altri), in un tour europeo tardo estivo dei New Christs, a undici anni dalla loro ultima volta e per una ventina scarsa di date suddivise tra Regno Unito, Italia, Francia e Spagna. Quella di Firenze è la seconda qui da noi, con l’eco della sera precedente in quel di Bergamo che rimbalzava di una band in splendida forma, in tutti i suoi effettivi, come gradevole eccedenza in un groviglio di buone vibrazioni. Che poi, a tu per tu con un pubblico come quello fiorentino, composto quasi interamente di over cinquanta intrappolati nelle magliette dell’impeto adolescenziale (quella dei Radio Birdman la più gettonata), sarebbe stato difficile steccare per chiunque, anche in quella che si è poi rivelata la sagra delle corde rotte. Praticamente all’inizio infatti, dalle parti di On Top Of Me, parte il “La” del Fender di Jim Dickson – rigorosamente in prestito, perché lui giustamente è partito da Sidney solo col bagaglio da turista – e in assenza di scorte si è arrangiato alla meglio per una buona mezzora, fino al cambio di strumento avvenuto per gentile disponibilità di un fan che è andato a casa a prendere il suo. E questo è molto punk. Risolto quell’inghippo, si rompe una corda anche alla “diavoletto” di Dave Kettley, più o meno intorno a The Golden Street, ma qui la soluzione è a portata di mano anche se più laboriosa del previsto… Malgrado gli intoppi il concerto però non ha avuto sussulti in negativo, anzi, tutto si è ammantato di un’aura di felliniano DIY per cui, accada quel che accada, anche con onorevoli escursioni stoogesiane in una scaletta selezionata a rappresentare la summa dei New Christs, si è continuato a sverniciare ricordi e sensazioni fino alla conclusiva Bonsoir A Vous, nella brezza notturna che ha frammentato la canicola nel patio estivo del Flog fiorentino. Lode e gloria all’inossidabile Rob Younger e compagni di viaggio, dunque, che il sacro fuoco del rock continui a bruciare con questa veemenza per l’eternità. Andrea Amadasi


CCCP – Fedeli alla Linea
Teatro Antico, Taormina ME, 30 luglio 2025
Che adesso sia davvero finita, che queste sette date del tour “Ultima chiamata” abbiano definitivamente chiuso l’imprevedibile “piano quinquennale”, in favore di una solo presunta stabilità, soltanto il tempo ce lo racconterà e di sicuro non passeranno altri quarant’anni. Di voci in direzioni sparse e contrarie ne abbiamo lette e sentite tante, da una parte ammantate di speranza proattiva e dall’altra a mo’ di esorcismo per scongiurare l’ennesimo incubo notturno dell’uomo nero e cattivo. Quisquilie che fanno arredamento e nulla più. Di fatto la data finale di Taormina, all’interno di un luogo così pregno di storia da aggiungere soggezione, ha confermato alla vista quello che i più introdotti nell’ambiente CCCP – Fedeli alla linea hanno sempre saputo, ossia che G. L. Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur hanno vissuto questi mesi e questi ultimi tre anni (che diventano quasi cinque, considerando i lavori per l’allestimento della mostra “Felicitazioni”) in totale empatia, fedeltà e onestà con sé stessi e la loro storia in primis, poi allo stesso modo con le decine di migliaia di persone complessive che da Reggio Emilia a Berlino e a seguire nelle varie città dei due tour ‘24/‘25, li hanno seguiti con affetto ed entusiasmo. Nulla in questo “piano quinquennale” è stato lasciato al caso, è ovvio, ma solo nel momento in cui ogni volta la casualità li ha messi di fronte alla scelta se assecondare sé stessi, la loro indole e la loro voglia di starci dentro (e “troppo presto o troppo tardi” ormai non importa più), oppure lasciar perdere e chi s’è visto s’è visto. Sul palco di Taormina noi abbiamo visto sì tanta stanchezza fisica e mentale da parte loro, ma anche tanta beatitudine che viene da dentro e non inganna. Occhi spesso socchiusi a custodire gelosamente le emozioni oppure sguardi a raggiera a contemplare istanti di meraviglia e sorrisi che nascono dal cuore. Lungo le varie date dell’“Ultima chiamata” avevamo visto però anche un Ferretti tirato a lucido reiterare con mistica soddisfazione l’intuizione della lode a Pier Paolo Pasolini, dopo quelle a Mishima e a Majakovskij, quasi lo intendesse come lascito definitivo all’istinto di quanti tra i più giovani che si assiepavano tra il pubblico. Abbiamo visto (e soprattutto sentito) Zamboni riuscire facilmente a incasinare accordi anche semplici e poi Annarella, con la complicità di Fatur oppure in alternanza, che con la solita incomparabile dedizione ha (ri)messo in scena la rappresentazione estetica dei CCCP “moderni”, ovvero una rappresentazione inevitabilmente meno provocatoria ma ricca di momenti significativamente simbolici. Lo stesso Fatur infine, quel bronzo di Riace che più di tutti ha patito la metamorfosi del tempo e non gli riesce più di turbare il sonno di nessuno, che per simpatia e come antagonista di sé stesso non ha rivali al mondo. Rispetto ai concerti dell’anno scorso dalla scaletta sono uscite Depressione caspica, Conviene e Kebabträume e al loro posto sono entrate Sexi Soviet, A Ja Ijublju SSSR, Trafitto, Mi ami? e Noia e pur tuttavia sono mancati ancora capisaldi come Live in Pankow e Svegliami, che in tantissimi avrebbero cantato a squarciagola sovrastando l’incompatibilità col tempo corrente ma, tornando a Taormina… La magia intrinseca del luogo in cui hanno scelto di chiudere – allo stesso modo dell’Astra Kulturhaus di Berlino, dove avevano riaperto le danze lo scorso anno – aveva inevitabilmente innalzato il livello delle aspettative ma nulla, nemmeno le difficoltà logistiche della trasferta, che ci sono state un po’ per tutti tranne i residenti, avrebbe potuto scalfire le suggestioni prefigurate da chiunque, CCCP – Fedeli alla linea inclusi. Che sulle ali della soddisfazione per essere giunti all’ultimo atto di un traguardo insperato e la leggerezza di chi sa stare sopra qualsiasi giudizio, si sono lasciati trasportare nell’inerzia abbagliante di questo lungo addio che nemmeno loro, in perfetto stile CCCP, sapranno dire oggi quanto davvero sia definitivo. Andrea Amadasi


La Niña
Mosaico Festival, Piazza Armerina, 8 agosto 2025
Nello scenario del centro storico di Piazza Armerina, a due passi dalla splendida cattedrale seicentesca, il concerto che ha visto protagonista La Niña è parso, in certi momenti, una sorta di rito pagano. Non è solo la scrittura dei brani o il modo in cui vengono arrangiati sul palco, quanto piuttosto una vibrazione tellurica - i connotati stranianti del “realismo magico” - a incrinare l’aria di quella Sicilia interna che sembra poggiare ancora sui giacimenti di zolfo e sui mosaici della Villa Romana del Casale. E proprio “Mosaico” si chiama il festival che dal sei al dieci agosto anima il paese in provincia di Enna, contraddistinto da un programma molto interessante e un’organizzazione impeccabile. Privilegiando ovviamente i brani del recente (e acclamatissimo) “Furèsta”, il live di Carola Moccia, Alfredo Maddaluno e la formazione che li accompagna in questo ultimo progetto discografico parla il linguaggio di un folk primordiale e insieme futuristico, mediterraneo e profondamente radicato in un universo che sembra molto più antico del Mediterraneo stesso. Le voci si armonizzano con le altre percuotendo la pelle dei tamburi e il legno delle chitarre, tra recuperi inaspettati (una Salomè fatta di cordame acustico) e riletture commoventi (Era de maggio), fino alla techno ancestrale di Tremm’, alle schegge affilatissime di Guapparìa e all’esplosione della platea su Figlia d' 'a tempesta. Una presenza scenica incredibile, insieme alla bravura di tutte le musiciste e i musicisti coinvolti, rendono l’esperienza così intensa che non c’è bisogno di aggiungere altro. Anzi, un’ultima cosa ci sarebbe: date un occhio alle altre date del tour e correte a prendere i biglietti. Carlo Babando


Dead Ghosts
The MOTH Club, Londra, 05.08.2025
Il MOTH Club, nato come tradizionale circolo per ex militari nei primi anni ‘70 (il nome è l’acronimo di Memorable Order of Tin Hats) è un popolare locale situato ad Hackney, nordest di Londra, dal caratteristico soffitto dorato e dall’intelligente programmazione musicale (grazie ancora per aver organizzato la serata da headliner dei Brainiac un paio di anni fa, a seguito della richiesta dei Mogwai di riformarsi per accompagnarli in tour). La serata propone l’immarcescibile, imperituro, intramontabile garage rock con apertura per i Trip Westerns, interessante quintetto di Brighton le cui radici, ci informa Bandcamp, “affondano nel rock e R&B di metà ventesimo secolo, intrecciate con sferzate di surf e psichedelia e le note twangy tipiche delle colonne sonore degli spaghetti western”. In effetti, ascoltando quanto è attualmente disponibile, la definizione calza a pennello ed è rassicurante sapere che nell’attuale capitale del post-punk inglese (Idles, Ditz, Lambrini Girls, Squid, ecc...) ci sia spazio anche per altre sonorità. Tra gli inediti proposti da “Post-Hunk”, l’album d’esordio atteso per ottobre, spicca la robusta Chiken, che ricorda le memorabili call(s) of the west dei Wall of Voodoo con bell’assolo di armonica del cantante dalla notevole presenza scenica. Le già ben note Free Mind e soprattutto i due personali classici Showdown Shadow e Blame Charlie azzerano ogni concetto di spazio/luogo rimpiazzando le natie spiagge di Brighton con le desertiche dune del Far West, dimostrando come il gruppo abbia ben assimilato la lezione appresa dai fantastici Nude Party, gruppo con cui sono andati in giro per l’Europa nel 2023.
Dopodiché ecco i Dead Ghosts da Vancouver, da quindici anni in giro a predicare il verbo del più sanguigno, delinquenziale e spassoso garage rock (non a caso son considerati la risposta canadese ai Black Lips). Il classico quartetto dei fratelli Wilkinson (Michael alla batteria ed Andrew alla chitarra), Bryan Nicol (voce e chitarra) e Maurizio Chiumento (basso) per l’occasione diviene sestetto con l’aggiunta di tastiera e sax per riproporre al meglio il suono di “Hippie Flippin”, ultimo lavoro uscito l’anno scorso. Il disco, euforico e psichedelico come da titolo programmatico (che si riferisce all’utilizzo contemporaneo di MDMA e funghetti) sembrerebbe aprire nuovi orizzonti musicali alla band: le accattivanti melodie e i testi evocativi, da sempre marchi di fabbrica del gruppo, sono ancora ben presenti ma è evidente la significativa evoluzione del suono che adesso ha una trama ricca, densa e corposa. Le sensazioni positive in arrivo dai dischi vengono pienamente confermate dal vivo tra l’iniziale doorsiana Flower Pot, il medley The Man/Jimmy’s Haze (che dal vivo fa scintille), il soul psichedelico di Headed Home, la rilassata Chill Goover e le notturne Night Fishing e Nice One, entrambe non dissimili dalle atmosfere create dai citati Nude Party. Ovviamente non possono mancare i classici del loro quindicennale repertorio, per cui ecco spensierati rock’n’roll (Hanging in the Alley, Girls across the street, Merle), numeri garage beat sixties (Get back, Cold stare, Summer with Phil) goliardici lo-fi bubblegum pop (When it comes to you) e accenni di rock classico inghiottiti tra riverbero e distorsione (Turn it around e Swiping Hubcaps). La classica Roky Said omaggia il padre putativo Roky Erickson, Tea Swamp Rumble Link Wray e il connazionale Neil Young viene celebrato con la cover di “World on a string”. Il picco arriva grazie al micidiale uno-due al vetriolo, servito spietatamente e senza respiro: l’innodica On Your Own e l'accelerata pietra rotolante (gli Stones sono il gruppo preferito di Bryan) I Can’t Get No, illecitamente sfacciata sin dal titolo, con gli incontenibili eccitati sbuffi del sax che aggiungono ulteriore frenesia invitandoci, qualora ce ne fosse bisogno, ad abbandonarci a contorsioni cercando di convincerci, anche solo per qualche minuto, che i Dead Ghosts sono attualmente il migliore gruppo rock’n’roll del pianeta. Ferruccio Guglia


ESTATE ROMANA NELLE ARENE 2025
Liberato

Circo Massimo, 31 maggio 2025
Fontaines D.C. + Shame
Rock in Roma, 18 giugno 2025
Jamie xx
Auditorium Parco della Musica, 12 luglio 2025
Bill Callahan
Teatro di Ostia Antica, 14 luglio 2025
The Black Keys + Jet
Rock in Roma, 16 luglio 2025
The Smashing Pumpkins
Rock in Roma, 1 agosto 2025
Kendrick Lamar + SZA
Stadio Olimpico, 2 agosto 2025
Tra esplosioni di pompe di benzina, incendi vari e invasioni di scarafaggi volanti (tutto vero), la sonnacchiosa estate concertistica romana, mai così sotto tono come quest’anno forse (per qualità, non tanto per quantità) tra un Lazza e un Nino D’Angelo qualsiasi (e tra una polemica di caro biglietti e l’altra), ha saputo comunque regalare a noi alt-indie-wavers-incalliti qualche perla che non ci siamo lasciati sfuggire.
Anche se siamo sempre stati un po’ diffidenti e cauti sull’operazione commerciale costruita al dettaglio (più che sulla bontà musicale intrinseca), non ci siamo fatti mancare il mega-concertone di Liberato al Circo Massimo (sola e unica data dell’artista napoletano sull’italico suolo nel 2025, poi toccherà a Londra, Parigi e Barcellona) a una sola settimana di distanza dallo scudetto vinto dal Napoli. Se in platea era un giubilo di magliette cerulee griffate McTominay, sul palco Liberato, che dismette la storica felpa nera per mascherarsi in total oro, ha inaspettatamente nicchiato sulla storica vittoria pensando solamente a portare a casa, seriosamente, uno show visivamente coloratissimo e psichedelico (le videoproiezioni, tra AI trashotte e cose più ardite, erano opera del vj dei Chemical Brothers), internazionale diremmo nel suo apparato produttivo, che ovviamente premeva molto sul versante electro-dance, vedendo impegnati anche diversi ballerini sul palco vestiti da sabbipodi. Risultati kitsch-chic che premiano una bella botta sonora e un discreto colpo d’occhio (eravamo in 50.000 circa).
A Capannelle, al Rock in Roma, qualche settimana dopo, ci attendono gli Shame (di solito bravissimi dal vivo) che purtroppo paiono degli scappati di casa (sul palco si dimenano come gli ossessi non capendo la situazione in platea) per demerito di un fonico (non abbiamo capito se il proprio oppure uno trovato lì per lì) che fa di tutto per rendere il suono il peggiore che abbiamo mai sentito ad un concerto (forse insieme a quello dei Modest Mouse a Bologna nel 2010 prima degli Arcade Fire): si sente un po’ di batteria (poco anche quella) e sotto tutto il resto. Per fortuna i Fontaines D.C., gli headliner della serata, danno sfoggio a una grandeur sonora che ormai li sta certificando come i padrini del ‘Rock da Arena’ 3.0. Ovviamente tanta pulizia musicale (che non è un demerito a priori) spazza via del tutto quell’inatteso che dovrebbe essere il sale delle esibizioni dal vivo ma va anche detto che i ragazzi irlandesi palesano in sede live una bontà di scrittura (pop, va detto senza nessuna stimmate) che in pochi hanno nel rock alternativo di questo secondo decennio dei duemila (gli Idles?) e che quindi è un piacere rituale cantare dal vivo, tutti insieme pacificati, gli anthem nati dalla penna di Grian Chatten e soci.
Tre settimane dopo, nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, alle ore 21,30 (posto e orario sbagliatissimo per un party Uk garage, NDA), Jamie xx si fa trovare dietro la consolle e apre le danze (nel vero senso della parola) con i due brani posti anche in apertura del suo ultimo “In Waves”. Jamie spiatta e spippola dietro i piatti per un pubblico hipsterissimo e, coadiuvato da delle videoproiezioni che mostrano in diretta le immagini di noi astanti - filmati in campi medi e lunghi (salvo qualche rara figura intera) - montate sul beat, passa in rassegna quasi tutto il nuovo disco con qualche concessione al primo “In Colour” e nel frattempo (re-)mixa brani altrui (piacionissima Amore Disperato di Nada) non lesinando momenti altamente coatti (come l’imbastardimento techno della sua favolosa Gosh). Tra le perle da segnalare un bel missaggio che dal Micalizzi di Sambamba passa al Tullio de Piscopo di Stop Bajon. Suona bene ma poco (neanche un’ora e mezzo) e la gente (60/70 euro a biglietto) non è proprio contentissima.
Tutt’altro scenario, azzeccatissimo questa volta, per il mostro sacro Bill Callahan che si esibisce nella stupenda cornice del teatro di Ostia antica (la venue più bella di tutta la provincia di Roma), armato della sola telecaster leggermente distorta, di un charleston e di una grancassa a pedale. Una versione ‘monobanda’ di Bill che riesce a schivare il suono degli aerei in atterraggio (siamo a pochi metri dall’aeroporto di Fiumicino), scherzandoci anche su, con la potenza di una logorrea vocale unica, profonda e perentoria, che a tratti fa rizzare i peli creando una magia spaziale (il cielo stellato, gli aerei che passano, le rovine di Ostia,...) e senza tempo (nel senso che Bill è proprio scoordinato e non riesce a tenere il tempo con la sua mini batteria e neanche gli interessa) che è puro tempo mentale e memoriale, acuito dal frinire delle cicale che rendono totalizzante l’esperienza (qualcuno dice che sono loro a dettare il ritmo a Bill). Grande scaletta (da Cold Blooded Old Times a Natural Information) con pezzi spesso stravolti che riconosciamo solo alla fine (Coyote), stile Dylan, e gente adorante in religioso silenzio. Diretto, sporco, anarchico, a suo modo punk (più Smog che Callahan), in una sola parola: poesia.
Torniamo al Rock in Roma, all’ippodromo delle Capannelle, per assaporarci (“finalmente!” direbbero i detrattori del Festival) del sano rock and roll: aprono gli australiani Jet, una tra le one-hit-wonder degli anni 2000 per antonomasia, che dal vivo ci fanno capire che in realtà c’è vita oltre Are You Gonna Be My Girl. Solida, energica e molto garage, la band capitanata da Nic Cester (perfetto italiano viste le origini familiari e visto il fatto che ormai è diventato milanese) passa in rassegna “Get Born” che li consacrò nel 2003 rinverdendo a suon di riff belli tosti delle signore canzoni che si erano perse nella nostra memoria (Cold Hard Bitch o Rollover DJ). Si chiude col Battisti di Un’avventura. Pubblico caldo (c’è pure Lillo prodigo di selfie tra il pubblico, NDA) per accogliere al meglio i Black Keys che esibiscono le prime tre canzoni in duo - tre hit provenienti dai primi album esibite in modo grezzo, rozzo, quasi da rock primordiale - per poi farsi coadiuvare da altri quattro musicisti (basso-chitarra-percussioni-tastiere) per aprire e distendere il loro sound (verso il mainstream massimalista diremmo noi). Che dire? I ragazzi suonano potenti, non si risparmiano, la voce di Ben dal vivo risplende in tutta la sua carica del midwest e la sua chitarra s’infervora in assoli ‘sentiti’ ma non affettati: il blues del delta non è mai stato così infuocato. E poi è festa, una gran festa, quando in chiusura parte quella Lonely Boy che fa cantare anche le staccionate dell’Ippodromo.
Purtroppo, ahinoi, problemi tecnici (con la babysitter) non ci hanno permesso di assistere ai live, al Monk, di Arab Strap e King Hannah (che sono venuti in macchina con noi a vedere Bill Callahan, estasiati, #truestory da raccontare ai nipoti) e soprattutto quello all’Eur Social Park dei Melvins insieme ai Redd Kross,... mentre non ci siamo fatti sfuggire l’operazione alt-nostalgia dell’estate, ovvero il live degli Smashing Pumpkins che, ancora all’Ippodromo di Capannelle per il Rock in Roma, hanno dato vita ad una straordinaria performance all’insegna del volemose bene, ovviamente tra noi alternativi-generici degli anni ‘90. Insieme agli storici James Iha e Jimmy Chamberlin (coadiuvati da una chitarrista e da un bassista supplementari) Billy Corgan è apparso solare e sbarazzino (ovviamente con la consueta tunica nera) come neanche a vent'anni (dove invece si comportava da grunger-maudit) e tra battutine (“portate bene i vostri anni grazie al vino e alle cannette che vi siete fatti!”), zompettare varie, scudisciate varie (Zero, Bullet with Butterfly Wings e Cherub Rock su tutte), momenti da lacrime vere (1979, anche se iniziata stonicchiando) e mirabolanti cover di Take My Breath Away dei Berlin da “what the fuck!”, ha(nno) portato a casa, per la nostra gioia, una scaletta molto Mellon-Collie-centrica (a 30 anni esatti dalla pubblicazione!) che ci ha fatto cantare a squarciagola anche se gli acuti di Billy non erano esattamente più quelli di un tempo (ma quando fa il crooner di razza fa rizzare ancora i capelli col suo tono unico). Emozionante.
Se a vedere Billy e compagni è stato appannaggio quasi totalmente (purtroppo) della generazione x (con piccoli strascichi millennial), la sera dopo all’Olimpico i Millennials si sono allegramente abbracciati alla gen Z grazie all’artista che li ha messi tutti d’accordo: vale a dire quel Kendrick Lamar che Roma brama sin dal 2020, l’anno in cui il suo (primo) live nella capitale fu (ovviamente) cancellato. Kendrick è (più che) accompagnato per la serata da SZA, la regina del trap-pop-r’n’b più massimalista che ci sia, e i due si alternano al microfono ogni quattro/cinque pezzi cantati per uno, per poi unirsi spesso e volentieri in molti brani. Nello show ovviamente hanno regnato i fuochi d’artificio (veri e propri), balletti ammiccanti e pirotecnici allestiti da una ventina di ballerini, automobili che salivano e scendevano dal “palcoscenico” (che definire tale è riduttivo), scalinate enormi che si aprivano dietro a dei mega led wall, luci in cielo in stile batman, videoproiezioni che dire cinematografiche è dire poco e tanto altro ancora che neanche ci ricordiamo. Trashata epica? Americanata senza fine? Cringiata dalle dimensioni bibliche? Dite quello che vi pare, ma una cosa così in Italia è più unica che rara. La musica? Protagonista o meno che sia stata della serata poco importa (N.B.: ovviamente erano tutte ‘basi’ musicali che Kendrick è bravissimo a gestire al microfono - anche se la scaletta per noi poco amanti dell’ultimo disco e dei pezzi del dissing non ci è venuta incontro - mentre SZA, brava eh, ammorba se non amate il camp-pop più becero): quello che conta alla fine è che abbiamo assistito ad un “Halftime-Show” da Super Bowl di quasi 3 (!) ore che, molto probabilmente, non vedremo mai più nella nostra vita. Per intenderci - se ci siete stati - è un po’ come la sensazione che si prova visitando Las Vegas. Marco Giappichini


Jorja Smith
Sequoie Music Park, Bologna, 6 luglio 2025
Il concerto di Jorja Smith è stata una bella sorpresa nel cartellone estivo della rassegna Sequoie Music Park di Bologna, che anche questa estate ha messo insieme un mucchio di date interessanti spaziando tra generi e nomi molti diversi. La location, bucolica ma non troppo lontana dal centro cittadino, ha dalla sua una gestione degli spazi e un’accoglienza che la rendono ormai un punto di riferimento della programmazione musicale bolognese. Certo, per un sold out annunciato come nel caso dei Fontaines D.C. o di Lucio Corsi, ci sono inevitabilmente anche appuntamenti meno affollati, ma probabilmente è proprio questo “equilibrio” che ha permesso di portare in Italia un nome interessante (e non così famoso dalle nostre parti) come Jorja. Scenografia sul palco identica a quella usata per la recente performance a Glastonbury, l’intero live si è sviluppato mostrando quanto la sua cifra stilistica sia impossibile da incasellare in un genere che vada oltre la definizione – troppo vaga – di contemporary r&b. L’approccio autoriale con il quale soul e pop incrociano suggestioni clubbing e strizzate d’occhio alla storia dell’house e del cosiddetto “UK Garage”, negli ultimi anni sono diventate le coordinate principali di un percorso che ha visto l’artista inglese smarcarsi dalle derive troppo commerciali in cui rischiava di finire. Da tutto ciò ne risulta circa un’ora e mezzo di concerto durante il quale, senza troppi fuochi d’artificio ma con una sincerità e una voce incredibili, si susseguono classici come Blue Lights, Teenage Fantasy e Falling Or Flying, insieme a versioni altrettanto ammalianti di Burn, Addicted e GO GO GO. Chiusura, sotto una pioggia leggera, con un set più danzereccio introdotto da Be Honest, dopo cui non poteva mancare una Little Things che fa letteralmente esplodere tutta la platea. Carlo Babando


MeShell Ndegeocello
Casa Del Jazz, Roma, 10 luglio 2025
L’ascesa, lo stardom – le collaborazioni diffuse con Madonna, suo mentore originario – la caduta ed infine una nuova vi(t)a artistica. Una resurrezione griffata Don Was (oggi presidente della Blue Note), che ha voluto fortemente la bassista/compositrice tra i suoi ranghi, portando la stessa MeShell a conquistare due Grammy consecutivi con gli album “The Omnichord Real Book” e il più recente tributo ad uno dei più grandi poeti della tradizione afro-americana in “James Baldwin No More Water: The Gospel Of James Baldwin”. Proprio quest’ultimo lavoro rappresenta il corpo della sua performance romana, parzialmente aggiornata rispetto all’uscita dello scorso anno nella medesima location. La formazione è più stringata, solo 5 elementi in campo, con il sodale vocalist Justin Hicks e il fenomenale batterista e percussionista Abraham Rounds (che in duo con l’organista Jake Sherman avrebbe aperto il concerto con una corroborante salsa neo-soul) a tenere le redini del gioco. È un’esibizione quasi in punta di piedi, una sofisticata ricostruzione dei canoni jazz/r&b contemporanei con il pathos di chi ha sfiorato il baratro per poi risorgere, ancor più forte dei suoi stessi demoni. Tra originali pazzeschi – l’ammiccante Trouble, vero e proprio manifesto di un nuovo intellettualismo black, le numerose incarnazioni del Baldwin Manifesto e la dichiarazione d’intenti suffragata da Another Country – e una mirabolante cover (tradizione conclamata nei loro live) di Uhuru Sasa a firma Gary Bartz, il concerto scorre miracolosamente con l’intento di unificare corpo e mente, nei giorni bui dell’amministrazione Trump. Musica benefica, tonificante per l’anima. Luca Collepiccolo


Neil Young & the Chrome Hearts
SparkassenPark, Mönchengladbach, 4 luglio 2025
L’attesa durata anni e anni si consuma in un afoso pomeriggio tedesco. Lo SparkassenPark è un’arena multifunzionale a due passi dallo stadio del Borussia Mönchengladbach, pensata appositamente per i concerti e gli eventi sportivi. Qui alle otto di sera in punto, con il sole ancora alto nel cielo, si presenta Neil Young con la sua nuova formazione, i Chrome Hearts, con cui quest’anno ha pubblicato “Talkin To The Trees”, l’ennesimo album di una carriera infinita. Un disco dal quale non verrà riproposta neppure una canzone. Non so cosa aspettarmi dal vecchio Neil, ottanta primavere il prossimo novembre. Mi basta soltanto essere qui, di fronte al Mito. Un mito inossidabile. L’attacco è con “Ambulance Blues”, da “On The Beach”, e ogni dubbio viene dissipato all’istante. Segue un brano ancor più leggendario, “Cowgirl In The Sand”. La voce, quella voce, è ancora intatta, le chitarre bruciano e si intuisce subito il motivo per cui il rocker canadese abbia deciso di farsi accompagnare da una band di musicisti più giovani che ricordano in tutto e per tutto i Crazy Horse degli anni ruggenti. Precisi, potenti, senza fronzoli, seguono Young con versioni torrenziali di brani di per sé lunghissimi su disco. Un occhio all’orologio: venticinque minuti sono già volati via e la band ha eseguito solo due pezzi. Sarà così per tutto il concerto. Rock elettrico ed elettrizzante con le chitarre al limite della saturazione in primissimo piano. La magia di “Cinnamon Girl” è ancora lì, così come la potenza di “Fuckin’ Up”. Poi, quando i Chrome Hearts si defilano per un attimo, la scena è solo per Young e per la sua chitarra acustica. Quando attacca “The Needle And The Damage Done&
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