LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nelle immagini: sopra Snapped Ankles]

Snapped Ankles
The Boileroom, Guildford, 10 maggio 2025
A guardarsi intorno sembrerebbe che il processo di “de-evoluzione” teorizzato mezzo secolo fa ad Akron in Ohio dalla geniale doppia coppia Mothersbaugh-Casale, sembrerebbe esser arrivato a pieno compimento. Sebbene frutto di uno scherzo giovanile durante gli anni universitari, la teoria della regressione dell’umanità causata dalla disfunzione e dalla mentalità da gregge della società è un’oggettiva constatazione dei tempi in cui viviamo. Ma non avviliamoci, come sempre la musica ci viene in aiuto. Dal punto di vista strettamente musicale la de-evoluzione ha partorito una delle mutazioni più interessanti sulle rive del Tamigi tra i capannoni industriali abbandonati dell’East End londinese post-Brexit che prendono vita grazie all’agguerrita flotta di ravers finesettimanali e le foreste che resistono all’urbanizzazione più selvaggia da dove, narra la mitologia, provengono i nostri, ragion per cui eccoli presentarsi addobbati nella loro tipica tuta mimetica ghillie ricoperta da fogliame pesante con tanto di maschera e lucette sulla fronte in stile Orbital. La serata fa parte del tour promozionale dell’ultimo lavoro recentemente pubblicato “Hard Time Furious Dancing” (gran bel titolo, ispirato dalla raccolta di poemi della poetessa, scrittrice ed attivista Alice Walker, l’autrice del romanzo “Il colore viola” che Spielberg portò sugli schermi negli anni ottanta). Partenza con intro mini sinfonico kraftwerkiano ad alto minutaggio che si tramuta nella classica Jonny Guitar Calling Costa Berlin dal loro primo lavoro “Come Play the Trees” del 2017. Ogni pezzo proposto è un esercizio architettonico: l’iniziale riff di sequencer/sintetizzatore costituisce la base su cui i quattro erigono le loro composizioni semplicemente aggiungendo multipli strati ritmici fino ad edificare la loro poliritmica cattedrale sonora ed invitarci, come da titolo programmatico ad un rituale liberatorio e catartico per affrontare questi tempi ardui: danzare furiosamente. Sette delle dieci tracce in scaletta sono tratte dall’ultimo lavoro e l’impressione avuta ascoltando il disco è confermata dal vivo: il suono geneticamente MARKettaro, nel senso della triade Mark Mothersbaugh (Devo) Mark E Smith (The Fall, nelle inflessioni vocali) e Mark Stewart (Pop Group, per la critica/polemica sociale) si è (de)evoluto e suona come una versione post-punk dei Chemical Brothers. E ben venga, dato che suona molto meglio di tanto attuale ma già datato post punk musone pseudo esistenzialista per ragazzini che hanno appena scoperto “La nausea” di Sartre. L'innodica Pay The Rent, le spietate e incessanti percussioni metalliche di Bail Lan, l’inarrestabile groove di Raoul con tanto di ululato da lupo notturno e la travolgente Dancing in Transit suonano alla grande, ma Personal Responsibilities e Where’s the Caganer in effetti un po' meno e fanno rimpiangere le non eseguite Delivery Man (con l’inizio wave alla Gaznevada di “Sick Soundtrack”) o l’electro inno alla gioia Drink and Glide giusto per citarne un paio. Ma per fortuna c’è la danza robotica da automa mentecatto di Rhythm is our Business (mai titolo fu più azzeccato), con Austin che da buon sciamano scende tra il pubblico armato di sintetizzatore legato a un tronco (!) e inizia a percuoterlo come un indemoniato aggiungendo un ulteriore tocco di surreale teatralità al tutto. Gran finale con I Want My Minutes Back che suonerà pure come un vecchio brano dei Palais Schaumburg (vi ricordate la Neue Deutsche Welle primi anni Ottanta?) ma è un gran bel sentire, e poi le arpeggiate linee di synth che si riciclano nell’irresistibile ed esilarante assalto adrenalinico di Smart World che conclude la serata rassicurandoci che la de-evoluzione è ancora ben viva e vegeta(le). Ferruccio Guglia


Mai Mai Mai
Antica Falegnameria Martino, Oppido Lucano PZ, 26 aprile 2025
A Bad Day
Officine Macondo, Potenza, 30 aprile 2025
Succedono a volte cose inaspettate e molto piacevoli, come scoprire che due concerti che avevo puntato da tempo si svolgono non solo a pochi giorni di distanza ma anche a due passi da casa in un territorio dove fra l'altro il cartellone musicale non è poi così ricco come altrove.
Quando uscì Rimorso di Mai Mai Mai rimasi molto colpito. L'album entrò subito nell'elenco delle mie uscite favorite dell'anno. Riusciva a trasformare sonorità tipiche della mia infanzia, di quelle ascoltate nelle sagre con i nonni in atmosfere dark electro a tratti industrial senza perdere quella sorta di misticismo tipico di certi canti. Un po’ come dei Coil in residenza al Sud. È stata una vera sorpresa trovarlo in programmazione ad Oppido Lucano un piccolo paese dell'entroterra Lucano a pochi (difficili) chilometri dal capoluogo. E ancora più sorprendente quello che l'organizzazione è riuscita a creare: inserito nella programmazione culturale del progetto Disfusioni, il concerto si tiene in una vecchia falegnameria stile anni 60, ancora attrezzata, con legnami, cornici e macchinari intorno. La location è fenomenale ed è affascinante che tutto sia reale e così fuori dal tempo. Prima del concerto c'è la presentazione di Plume, una rivista quadrimestrale che esce su carta, autoprodotta e ben elaborata dalla grafica agli interventi. Il numero che presentano ha come tema i linguaggi di Comunità. È entusiasmante vedere che dei ragazzi decidano di fondare una rivista di spessore e pubblicarla su carta con estrema cura, autoproducendola. Un attivismo d'altri tempi che fa ben sperare.
Mai Mai Mai inizia a suonare intorno alle 23 in un silenzio devozionale. Perché quello che si sta profilando sembra quasi un rito pagano. Toni Cutrone sale in postazione con la sua classica tunica che lo copre e lo nasconde. Intorno a lui legni, segatura e manufatti di falegname. Dietro, video elaborati di maschere e paesaggi...siamo in una dimensione atemporale. Il set è ben dosato. Parte con un intro di suoni leggeri, lenti ma caratterizzati da una periodicità flemmatica e costante, come un respiro. Si sta preparando il campo. È come inoltrarsi in un bosco per invocare un’entità. Infatti quando tra i vari suoni inizia a percepirsi da lontano il fischiare alterato del Secondo Coro delle Lavandaie e partono le percussioni non siamo più ad Oppido (uh marò che bellu suonno). Mai Mai Mai ci porta in giro tra ricordi del passato che affiorano all'improvviso, sonorità contemporanee, luoghi e sensazioni non facendo abbassare mai l'attenzione e la tensione. Tra synth che si rincorrono con percussioni metalliche è introdotta la voce (campionata) di Vera di Lecce che ci porta in altro ambiente (Fimmene Fimmene). Ed è così con tutto il concerto giocato su suggestioni che in questo territorio sono ancestrali per tutti trasportate in dimensioni altre. Complimenti davvero, dai presenti, che a fine concerto intrecciando gli sguardi comunicano un senso di meraviglia.
Passano pochi giori e questa volta a Potenza siamo di nuovo sotto un palco per qualcosa di fantastico. Egle Sommacal e Sara Ardizzoni con il loro progetto A Bad Day. Li avevo già intercettati ed ammirati nei loro rispettivi progetti solisti e incontrati con i Massimo Volume ma mi incuriosiva capire come avrebbero reso dal vivo “Flawed”, un album in cui le due chitarre si fanno altro (la prima impressione ascoltando l'album è stata di ambient fatta con chitarre). Sara ed Egle sono due persone delicate e gentili, profonde e sorridenti. E la loro musica rispecchia alla perfezione la loro personalità, sentirli suonare è un intimo dialogo con loro attraverso altri mezzi espressivi. Alle Officine Macondo si presentano circondati da pedalini e chitarre con cui ci parlano, raccontano ed emozionano. Fantastici gli intrecci di arpeggi come in Non in the light, not in the darkness, o le parti in cui Sara trasforma la sua chitarra in un synth come nel finale di in Death of a drum (che dal vivo mi ha trasportato in ambienti Caterina Barbieri). Timanafaya, se su disco incuriosisce, dal vivo sorprende: una chitarra che si fa clarinetto synth. “Flawed” nelle intenzioni degli autori sta per "imperfezione", con l'idea di fare un album che integri tutto anche le imperfezioni che in musica possono essere vita. Ma nella serata alle Officine Macondo abbiamo assistito invece ad una perfezione rara, come detto da molti a fine serata, il miglior concerto che si sia visto da tempo da queste parti. Massimo Lovisco


Kamasi Washington
Estragon, Bologna, 24 aprile 2025
Il recupero della data inizialmente prevista dal “Fearless Movement Tour” per lo scorso autunno è avvenuto, sempre nell’ambito del Bologna Jazz Festival, all’interno di un Estragon particolarmente eterogeneo. Il pubblico dello storico club bolognese era infatti composto da una tale varietà di generazioni differenti, ognuna con gusti e aspettative altrettanto diverse, che forse sarebbe stato impossibile accontentare davvero tutti. Kamasi, a dispetto dell’infortunio alla schiena che lo ha costretto a posticipare la tranche europea, ci ha provato. Eppure, lo anticipiamo subito, l’impressione è che non avesse alcuna pretesa di riuscirci davvero. Questo per dire che forse non bisognerebbe approcciare un live di Kamasi Washington con l’intenzione di chi sta andando a un concerto jazz, nel bene o nel male. La proposta del sassofonista californiano, infatti, mira dichiaratamente a mescolare le carte sul tavolo di una black music totale, in cui Funkadelic, Marvin Gaye e John Coltrane si muovono insieme agli scratch sui giradischi di DJ Battlecat, strizzando l’occhio a una fascinosa amalgama di spiritual r&b guidato dalla voce di Patrice Quinn. Il rischio di rendere tutto piacevolmente innocuo è sempre dietro l’angolo, se non fosse che il leader ci crede così tanto da accendere il palco per più di due ore senza fare sconti a nessuno. Qualche momento poco ispirato c’è, soprattutto nei tentativi di mettere in risalto la bravura della band su riff e melodie un po’ banali, in cui si passa dal tributo all’improvvisazione senza riuscire a risultare granché incisivi. Ma sono parentesi tutto sommato brevi, anche perché la presenza del padre (impegnato al sax soprano e al flauto) – nonché di un intero collettivo che spalleggia il leader meticolosamente – e, non ultimo, dei racconti di amore e amicizia che il nostro eroe condivide con il pubblico, rende l’esperienza quasi un affare di famiglia. E cosa c’è di più bello che essere invitato nel salotto di casa Washington? Carlo Babando


Jim Jones All Stars
Oslo, London, 19 aprile 2025
Per gli amanti di certe sonorità, da queste parti la festività pasquale è sinomimo di Le Beat Bespoke, annuale kermesse di tre giorni dedicata a garage, soul, psych, freakbeat, ecc. che in passato ha regalato momenti davvero memorabili (per il sottoscritto su tutti King Khan & The Shrines e The Mummies).
La seconda serata inizia con il piacevole garage beat dei Baron Four capitanati dal veterano Matthew Lambert (già con i Mystreated e gli Embrooks) e Mike Whittaker (The Jack Cades e The Capellas con la compagna Elsa), che ci trasportano indietro nel tempo col loro accattivante R&B annata doc 1965 che invita a muovere i fianchi. D’accordo, revival puro, ma suona alla grande e per gli appassionati del genere “Outlying”, uscito per l’anno scorso per la danese Beluga Records, è imperdibile. E poi tocca a lui, Jim Jones ovvero l’impersonificazione in carne ed ossa del neilyoungiano “rock’n roll can never die”. In giro da ben 4 decenni, tra gli incendiari trascorsi giovanili, inevitabilmente terminati in autocombustione, con Thee Hypnotics ovvero la massima espressione del Detroit sound in terra britannica di sempre (inarrivabile e irraggiungibile), le frenetiche rivisitazioni rock ‘n’ roll anni cinquanta amfetaminizzate del Jim Jones Revue, l’omaggio al triumvirato putativo Iggy/Cave/Waits con i Righteous Mind e adesso in pista con la Jim Jones All Stars, supergruppo nato durante la pandemia con i sodali Gavin Jay al basso, Elliot Mortimer al piano (entrambi ex Revue), Carlton Mounsher (The Swamp) alla chitarra, Chris Ellul (The Heavy) alla batteria e i due sax di Stuart Dace e Tom Hodges (rispettivamente tenore e baritono). Jim, autentico purosangue, da grande showman qual è conquista il pubblico immediatamente anche perché la serata inizia con Cement Mixer, cavallo di battaglia del JJ Revue col suo incedere stomp, chitarra sporca, voce rauca e intermezzo corale sing-along squarciagola “here we go, nice and slow”. Segue l’interpretazione di When You See Me Hurt, classico numero soul di Carl Lester che suona come un selvaggio James Brown con i fiati che all’unisono spadroneggiano sul ritmo incalzante. In una parola, irresistibile. Sulla stessa scia l'inarrestabile originale Gimme the Grease, che con ritmica da paura mantiene i sassofoni in ben spolvero. La serata si alterna tra rivisitazioni/omaggi e classici originali composti da Jim nelle sue diverse incarnazioni. Tra le prime figurano Parchman Farm di Mose Allison con gran lavorio di piano, incandescente riff di sax e finale quasi jam, il northern soul addolorato di Lover’s Prayer dei Wallace Brothers, il funk grezzo e primitivo di Troglodyte di Jimmy Castor Bunch e lo swamp blues It’s Your Voodoo Working di Charles Sheffield. Tra le seconde, le pietre miliari del suono rock psichedelico fine ottanta targate Thee Hypnotics Soul Trader e Shakedown (che è ancora minacciosamente seducente dopo quasi quattro decenni), il super classico gospel blues Satan’s Got His Heart Set On You dei Righteous Minds, la frenetica Rock’n’Roll Psychosis dei JJ Revue, la recente I Want You (Anyway I Can) e alcuni nuovi pezzi dell’album in uscita fra qualche mese con la produzione di Chris Robinson dei Black Crowes, tra i quali il grintoso singolo appena pubblicato Goin’ Higher, spavalda miscela di soul, garage e rock’n’roll. Tre bis per il finale: la rampante cover di Big Bird di Eddie Floyd, l’energetica e raggiante Everybody’s Got Something to Hide Except Me and My Monkey dei Beatles e lo scatenato e viscerale rock’n’roll del classico 512 targato JJ Revue, dove le poche energie rimaste sia sul palco che in sala vengono consumate in un collettivo tripudio di festoso sudore. Neil ci aveva azzeccato: Rock’n roll is here to stay almeno fino a quando Jim è in giro. Ferruccio Guglia


“Rewire”
Den Haag, varie location, 3-6 Aprile 2025
L’Olanda detiene oggi - senza alcun possibile contradditorio – la leadership del circuito festivaliero continentale, offrendo le esperienze più complete nell’ambito della ricerca, delle musiche estreme e di quelle adiacenti al più virtuoso indie. Giunta alla sua 14sima edizione, la rassegna primaverile meglio nota come Rewire, oltre ad avvicinarsi a un traguardo storico, propone un calendario di eventi succulento come non mai, potendo contare su nomi di caratura internazionale e sulla disponibilità di ben 25 location tra centri d’arte, auditorium, chiese, storici club, teatri e scenari naturali. Immolatosi sin da principio alla ricerca in ambito elettronico con numerose concessioni all’avanguardia tout court, il festival è oggi un poliedrico contenitore capace di iniettare ancora linfa vitale in un circuito altrimenti stantio. Rispettando un equilibrio niente affatto scontato tra ciò che è contemporaneo e quanto è stato rivoluzionario nel secolo scorso, Rewire conta su un programma impreziosito da numerose prime, offrendo altresì l’omaggio a figure iconiche come Joan La Barbara, Alvin Curran e Laurie Anderson, che chiuderà con un concerto esauritissimo questa edizione.
Nella preview del giovedì Curran ripropone quanto visto anni fa nel pittoresco laghetto di Villa Borghese a Roma, ovvero “Maritime Rites”, una performance sviluppata con un corpo di musicisti che sfilano su diversi battelli in seno all’Hofvijver. Tra sacralità classica e vezzo collagista, l’intento dell’autore è chiaro, in un sintomatico affronto alle cure accademiche. La performance audio-video di Alessandro Cortini raggiunge nella seconda parte momenti di pura estasi analogica, riproponendo i cinque movimenti del disco “Nati infiniti”. Si entra propriamente nel vivo il venerdì con alcuni dei momenti più nevralgici dell’intera manifestazione. Il nu jazz immerso nel poliedrico live sampling pervade la bellissima session improvvisata degli SML, al secolo Small Medium Large, collettivo di base a Los Angeles che vede in Jeremiah Chiu (ai modulari) un leader carismatico. Uno degli apici astrali è toccato da Nala Sinephro, che ancora non ha dato alle stampe quel capolavoro da studio che sarebbe lecito attendersi. Ma godiamo del suo monumentale live in quartetto – in una delle location più importanti dell’intero festival, il modernissimo gioiello architettonico che è l’Auditorium Amare - un viscerale tributo ad Alice Coltrane tradotto in un moto perpetuo che porta di diritto ai cancelli della musica cosmica tedesca. Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly ripropongono con immutato entusiasmo i contenuti del loro debutto per International Anthem, “Mestizx”, sunto di tropicalismo e spiritual jazz nello storico club Korzo. Sui Seefeel, eccezionalmente in trio nella storica cornice della chiesa Lutherse Kerk, vince purtroppo la stanchezza, ma i dosaggi ambient dub di questi pionieri del nuovo esoterismo inglese rimangono pur sempre una rotta arguta.
Il sabato è all’insegna dell’azione, o quanto meno è questo il percorso scelto dal sottoscritto. Il duo di casa Able Noise – autore di un lodevole debutto in vinile per la label culto londinese World Of Echo – incanta tra memorie post Louisville/Chicago, abbozzando però improvvisazioni tout court e un meticciato mediterraneo (incantevole la chitarrista Alex Andropouolos quando imbraccia la balalaika). Sismica è la danza inscenata dagli Holy Tongue di Valentina Magaletti e Susumu Mukai con lo zampino di Shackleton, la struttura di un club piuttosto allenato a techno e affini come il Paard vacilla, dubedelia intrisa di attitudine industriale per scoperchiare la tassa toracica. Più immersivo il set del trio di Olivia Block, con uno stellare Jon Mueller alla batteria e il supporto alle elettroniche di Paige Naylor. Onirica contemporanea che si risolve in stati di stasi apparente per poi esplodere in senzienti rituali percussivi. Un’altra esclusiva di disarmante bellezza è di scena con il trio egiziano The Handover; lanciati da Sublime Frequencies, i nostri muovono tra droni, mediterraneo e Morricone western. Anche qui si tocca il cielo con un dito. A riportarci rovinosamente a terra ci pensano i Body Meπa, un’infernale macchina da guerra (post)metal con in sella il batterista Greg Fox e due colonne della downtown newyorkese come il bassista Melvin Gibbs ed il chitarrista Sasha Frere-Jones.
Arriviamo alla domenica con una serie di certezze che iniziano a scricchiolare e un residuo energetico tutto da provare. Intriga l’alternative country di Wendy Eisenberg – che tradisce le sue frequentazioni adiacenti al jazz di ricerca – mentre faccio onestamente fatica a perdermi nel wall of noise dei pionieri americani Yellow Swans. Avrei visto volentieri la ripresa di “Canti Illuminati” di Alvin Curran, ma un improvviso malore porterà alla cancellazione della pièce (una volta ristabilitosi, Alvin avrebbe fatto ritorno a Roma). Dei Caroline ho apprezzato più la forma che la sostanza: un originale ottetto londinese fulminato sulla strada di Canterbury che non mancherà di tornare sulla scena del delitto. Discorso analogo per la sound art di FUJI||||||||||TA, mirabile sulla carta ma un pizzico autoreferenziale nel format live. Chi vince a mani basse è invece il contrabbassista e leader Nick Dunston, che con la band Skultura schiaffeggia anche le più coerenti istituzioni free jazz. Menzione d’onore a una ritrovata Laurie Anderson, che chiude il festival con un concerto politico, parte reading e parte memorie esistenziali, corredato dal violino e dalle scarne elettroniche della collaboratrice Martha Mooke. Certamente arrivederci. Luca Collepiccolo


Steve Wynn & Rodrigo D’Erasmo: “Make it right”
Napoli, Rockalvi Main Out Auditorium Novecento, 8 aprile 2025
Fai anche tu parte del club? Quale club? Quello degli appassionati di musica (musicisti e fruitori) che si scelgono, quelli che non cercano qualcosa che vada bene per tutti (“tutti” intesi nel senso di mainstream, la corrente che trascina tutti indistintamente), quelli che – insomma – preferiscono cercarsela e trovarsela la musica con cui riempire la propria vita. Perché, in fondo, di malati di musica si tratta, di gente che vive di una “certa” musica. Tutto questo Steve Wynn (e molti di noi con lui) l’ha capito subito quando, mentre si stava avviando a essere musicista, ha ascoltato il primo disco dei Velvet. Se non fai parte del club, no problem, puoi rivolgerti altrove, c’è posto per tutti. Ma se entri nel club – beh – la tua vita cambia. Sunday morning è stata una delle prime canzoni suonate da Wynn in questo tour un po’ anomalo perché quello da promuovere stavolta non è un disco (c’è pure quello, a dire il vero), ma un libro. Si tratta della sua raccolta di memorie “Non te lo direi se non fosse vero. Memorie di musica, vita e Dream Syndicate” recensito dal nostro grande capo su Blow Up con parole che potrebbero andare benissimo per questo concerto che ha seguito, fondamentalmente, la trama del libro. Un percorso chiaro, spesso in dialogo con un pubblico preparatissimo, in cui si è apprezzata la bontà dell’uomo e del comunicatore. Frontman e songwriter sono per Wynn qualcosa di sostanza, qualcosa che parte dalla vita e arriva alla vita. Lou Reed e Alex Chilton (soprattutto lui) sono stati i numi tutelari che hanno avviato un percorso che con i Dream Syndicate ha trovato la sua entusiasmante espressione e che è stata, nel concerto, l’occasione per ripercorrere una buona fetta di storia di certo rock americano. Il concerto, come il libro, si conclude con lo scioglimento della band al finire degli anni 80. Il libro è stato scritto in 5 anni ed è stata l’occasione non solo per ricordare ma anche per riflettere sulle scelte fatte e quelle non fatte, come lui stesso ha ricordato. Grande uomo, Steve Wynn. Non a caso, alla fine del concerto, mentre chiacchieravamo tra “addetti ai lavori” con Peppe Guarino (organizzatore della serata), si respirava questa passione per la vita, per la musica, per consumarsi per qualcosa di bello, da comunicare e trasmettere e come la musica possa dare molto, con un senso della generosità e della gentilezza che Wynn aiuta a risvegliare. Rockalvi di Peppe Guarino è nata per aiutare una organizzazione (Camilla la stella che brilla) che sostiene bambini malati. E, per certe battaglie, ci vuole molta energia positiva. Come quella che Wynn ha trasmesso. Fondamentale, in questo, la presenza di Rodrigo D’Erasmo che con il suo violino ha accompagnato e dialogato con altrettanta passione i pezzi suonati, con un brio ora più leggero ora più intenso. Molto bella l’intesa tra i due musicisti che ha dato un vestito sempre fresco e nuovo alle canzoni. A me, per qualità e modalità ha ricordato il tour fatto da Nick Cave con Ellis per presentare il suo secondo romanzo. Girolamo Dal Maso


Kamasi Washington
Docks, Losanna, 31 marzo 2025
Programmato in origine a ottobre 2024, nel cartellone del 37o JazzOnze+ Festival, il live di Kamasi Washington era stato riportato in avanti in ragione di un problema alla schiena dell’artista (identico il motivo per cui la data milanese di JazzMi all’Alcatraz è diventata il 22 aprile; in Italia lo si vedrà anche a Roma il 23 e a Bologna il 24). Tutti contenti che il sassofonista si sia rimesso in piedi per il nuovo e lungo tour europeo, a cominciare dagli organizzatori, e il cartello davanti all’ingresso dei Docks lo dimostrava, perché sopra c’era scritto “complet”. Allora come oggi si trattava di far conoscere l’ultimo “Fearless Movement”, sinora il più danceable del lotto pur se nell’accezione di “esprimere lo spirito attraverso il corpo” (dice lui). Avanti dunque con Lesanu, all’inizio intonata nell’antica lingua etiope ge’ez, e poi Asha the First preceduta dal raccontino che la melodia gliel’ha suggerita la giovanissima figlia, e ancora subito dopo Lines In The Sand, un trittico punteggiato nell’ordine dai solo di Washington, del padre Rickey (flauto e soprano) e del bassista Joshua Crumbly. L’ora di DJ Battlecat, anche percussionista aggiunto, e dei suoi scratch pimpanti viene con la Get Lit in cui ci ha messo lo zampino George Clinton, mentre Kamasi si traveste un attimo, non di più, da Coltrane versione mistico-cosmica per The Garden Path. In scaletta non possono mancare nemmeno Together, con uno spazio riservato al trombonista Ryan Porter, invero non troppo considerato nell’arco dell’intero concerto, e la bizzarria Prologue, perché non ci si aspetterebbe la cover di un pezzo di Astor Piazzolla (a ripensarci, è forse questo il culmine della serata). Quel che non si comprende troppo è perché una band di otto elementi a cui non manca certo la tecnica finisca per suonare molto poco davvero di gruppo, con i rari momenti d’insieme riservati all’esposizione e poi al richiamo del tema, a ricalcare dinamiche da vetusto bebop. Non riusciamo a ricordarci dialoghi spontanei e scambi serrati tra i componenti, che finiscono per esprimersi in lunghi e pure un po’ scontati assolo a chiamata da parte del leader, al grido di “e adesso l’incredibile…”. Saranno sicuramente scelte ponderate, ma per ampi tratti il set pare scorrere forzato, con i singoli ridotti a eseguire parti mandate a memoria. All’esordio considerato il nuovo profeta del jazz, con “Fearless Movement” Washington sembra essersi tolto definitivamente la maschera, perché a lui del jazz e dell’improvvisazione (qualunque definizione si voglia dare ai due termini) importa poco o nulla, se non per qualche citazione funzionale al suo discorso. Ha deciso di giocare a un altro sport, quello che indubbiamente manda in sollucchero il suo folto ed entusiasta pubblico. Piercarlo Poggio



Little Barrie & Malcom Catto
The Garage, London, 5 aprile 2025
Nonostante innumerevoli esibizioni davanti a platee oceaniche offrendo la sua magistrale tecnica e inventiva a Paul Weller, Morrissey, Primal Scream, The The, i fratelli Gallagher ecc., solo un ristretto ma fedelissimo gruppo di adepti conosce e segue il percorso artistico individuale di Barrie Cadogan, the best kept secret chitarrista del Regno Unito. Tra l’esordio discografico (“Shrug off love” dei Little Barrie del 2000, groove infettivo e fantastica produzione vintage) e il criminalmente sottovalutato “Instafuzz” del 2024 a nome Ultrasonic Grand Prix (divertentissimo progetto estemporaneo con il polistrumentista e produttore Shawn Lee) il buon Barrie ci delizia le orecchie da ben 25 anni, la maggior parte dei quali trascorsi sotto la sigla Little Barrie (trio con all’attivo 5 album) fino alla prematura e tragica scomparsa del batterista Virgil Howe (figlio del chitarrista degli Yes) nel 2017. Dopodiché nel 2020 Barrie e il sodale Lewis Wharton al basso ritornarono con la sigla storica accompagnati dal ta-lentuoso batterista e produttore Malcom Catto (ben noto con gli Heliocentrics in “Quatermass Seven”): fra qualche giorno esce la seconda fatica, “Electric War” per la Easy Eye Sound di Dan Auerbach dei Black Keys.
Il rigenerato trio ha deciso di non rivisitare il catalogo dei tempi che furono, per cui tutta la scaletta della serata verte sui due lavori sopra citati. La title track del nuovo album apre la serata con ritmica kraut e tagliente chitarra assassina: per 80 minuti abbandoniamo ogni cognizione spaziotemporale per essere catapultati in un universo parallelo accompagnati dal suono emesso da una creatura musicale mutante, ibrida figlia meticcia dei Can e dei Meters e cresciuta a suon di (heavy) blues e tecniche jazz. Tra l’incessante, forsennata poliritmica al cardiopalma di Trabs e gli otto minuti dell’ipnogena cerebrale psych jam After After trovano spazio le più terrestri e rassicuranti Repeated #2, col suo incedere notturno e twang riverberato, e You’re Only You, che parte con ritmica alla Jaki Liebezeit e si trasforma in un numero psych funk blues con tanto di feedback conclusivo e lussureggianti tessiture wah wah. L’heavy blues di Old Role suona come una versione moderna dei Cream e l'irresistibile psych funk groove danzereccio di Zero Sun trasporta miracolosamente i Meters nella Madchester di qualche decennio fa. My Now lascia allibiti per l’immacolata perfezione dell'interplay, la mutazione ha partorito una mostruosa creatura dalle tre teste con batterista tentacolare, bassista omicida e chitarra che condensa in un brano ansiogeno tutta la storia (di un certo) rock tra accenni spagnoleggianti, schegge di surf alla Link Wray, riff alla Eddie Hazel, decenni di blues e quant’altro. Quindi arriva l’incedere lento ma inesorabile di Creaky, con ospite Danny Keane al violoncello (felicissimo connubio che riporta in mente Tom Cora con gli olandesi Ex di decenni orsono): un vero blues del deserto, etnico, ipnotico, tribale, con ripetute folate di acida sabbia wah-wah che con accanimento che scortica la pelle. Il salvifico psych rock di Spektator ci corre in aiuto offrendoci il necessario ossigeno per arrivare al finale bipolare di Count of Four ma soltanto per lasciarci totalmente liquefatti.
Neanche l’utilizzo di un breve frammento della genialità di Barrie inserito come intro nella (fantastica) serie televisiva “Better Call Saul” (spin-off di “Breaking Bad”) ha conferito al trio quella notorietà che gli spetterebbe di diritto; ma meglio così, almeno per noi che abbiamo avuto la fortuna di assistere a un’esibizione a dir poco stellare di tre grandi musicisti nell'intimità del Garage senza nessun annacquamento/mitigamento da stadio. Ferruccio Guglia


Paul Collins Beat
Sonic Ballroom, Colonia, 2 aprile 2025
Era da parecchio tempo che Paul Collins non si vedeva da queste parti, di mezzo si erano messi il Covid e un po’ di stanchezza dopo una vita spesa a scrivere canzoni e portarle in giro per il mondo. Rivitalizzato dagli ottimi riscontri critici di “Stand Back & Take A Good Look”, l’album dello scorso anno, il “re del power pop” si è rimesso in marcia e per questo tour europeo ha deciso di farsi accompagnare dagli svedesi Manikins. Scelta quanto mai azzeccata, visto che l’esperto gruppo di Nyköping è affiatatissimo e ne conosce a memoria il repertorio. La line-up a tre chitarre restituisce forza e brillantezza ai brani di Beat e Nerves, l’approccio ramonesiamo – tutti i brani suonati di fila, senza interruzioni o chiacchiere inutili– fa il resto, assieme a una setlist costruita alla perfezione.
L’atmosfera del Sonic Ballroom si fa subito incandescente, sin dall’attacco di “Rock’n’Roll Girl”, primo brano in scaletta e gancio da ko piazzato a un pubblico che dall’inizio alla fine si lancerà nel singalong. Del resto, Paul Collins ha fatto dello scrivere la canzone (power) pop perfetta la sua missione di vita e ancora oggi c’è da stupirsi di come l’omonimo debutto dei Beat, A.D. 1979, non abbia venduto milioni di copie e lo abbia reso ricco e famoso.
Proprio da quel classico che rasenta la perfezione il gruppo attinge a piene mani, suonandolo quasi nella sua interezza: “Let Me Into Your Life”, “Don’t Wait Up For Me”, “I Don’t Fit In”, “U.S.A.”, “Work-A-Day World”, fino a quella “Walking Out Of Love”, ripresa tante volte dal vivo dai Green Day. Un paio di pezzi dal secondo album “The Kids Are The Same”, tra cui la title-track cantata a squarciagola dagli astanti, precedono una manciata di brani dai recenti album da solista, prima che questa nuova incarnazione dei Beat si lanci nei classici dei Nerves, inclusa la celeberrima “Hanging On The Telephone” che tutto il mondo conosce nella versione dei Blondie. I bis sono quattro: una “Many Roads To Follow” a due voci e senza sezione ritmica, cantata quasi a cappella, seguita dalla tranquilla “You & I”, prima che l’elettricità innervi due pezzi innodici come “Different Kind Of Girl” e “Letter to G”. Applausi scroscianti e urla di approvazione per un Paul Collins in grandissima forma. Roberto Calabrò


“Chiasso Means Noise”
Magazzino II, Chiasso (Svizzera), 27-29 marzo 2025
Il calembour che abbina il concetto di rumore al contesto geografico è un colpo perfettamente assestato per il nome di un festival musicale, ma da fuori quel concetto bisogna saperlo recepire nella giusta ampiezza e varietà di sfumature, il rumore, quindi non solo tumultuoso o totalmente privo di caratteristiche musicali. Da dentro, i ragazzi dell’Associazione Grande Velocità/Spazio Lampo ce l’hanno messa tutta per fare sì che questa seconda edizione del “Chiasso Means Noise” fosse la più impattante ma anche eterogenea possibile, mettendo insieme un ricco programma di proposte e linguaggi espressivi differenti col presupposto altamente simbolico di provare ad abbattere quelle barriere che inibiscono qualsiasi potenziale interazione umana. Lo spazio fisico del “Chiasso Means Noise” è quello di un piccolo magazzino allestito al minimo indispensabile: due palchi contrapposti con in mezzo lo spazio per il pubblico. In questo scenario si è partiti il giovedì – ma c’era già stata un’anteprima domenica 23 marzo al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto con Aquiles Navarro, trombettista e compositore degli Irreversible Entanglements – con il concerto di Patrick Kessler e Dieb13, pseudonimo di Dieter Kovačič. Entrambi fanno parte della Chuchchepati Orchestra, un collettivo di musicisti a configurazione variabile (ne fa parte anche il sassofonista e compositore svedese Mats Gustafsson) che dal 2018 si esibisce al Palace di San Gallo regolarmente una volta al mese. Al “Chiasso Means Noise” presentano il Markograph, un enorme giradischi presumibilmente autocostruito che tramite un lettore ottico al posto della puntina traduce in suono le superfici di dischi di circa 83 cm di diametro, che a loro volta possono essere realizzati con materiali e finiture molto diversi. Ma le curiose peculiarità non finiscono qui perché Chuchchepati è la traduzione nepalese di “orizzonte” ed è anche un distretto di Kathmandu, il luogo da cui hanno origine gli otto altoparlanti conici che sono stati dislocati intorno alla postazione (che peraltro comprende anche un contrabbasso, due giradischi tradizionali e un ricco armamentario di arnesi digitali). La performance prende il via dopo che sul Markograph è stato posizionato il disco con rilievi topografici scelto dal pubblico per acclamazione, ed è subito reminiscenza di idee e filosofie: l’ambiente si ravviva di singulti ruvidi e articolati che si sviluppano in una matassa improvvisata e imperfetta, ricca di dettagli che si stratificano in un flusso avvolgente che va progressivamente adombrando le fonti da cui essi stessi sono generati. Alla fine resta quasi il rammarico perché una tale imponente configurazione avrebbe dovuto e potuto esprimere assai più del percepito, ma l’impatto è stato comunque notevole.
Così come, per saltare di palo in frasca lungo il flusso torrenziale di suoni delle tre serate e arrivare direttamente quasi in chiusura, notevole è stata anche la partecipazione di Valentina Magaletti, al cui estro creativo, unito all’abilità tecnica nello srotolare complesse partiture ritmiche, è mancato giusto solo un po’ di luce che ne illuminasse a dovere la naturalezza dei particolari esecutivi. O ancora la coppia tutta al femminile composta da Natalie Peters e Laure Federiconi, che qui erano alla loro prima collaborazione assoluta, frutto di una residenza artistica offerta per l’occasione. Il poco tempo a disposizione per trovare il feeling giusto avrebbe potuto metterle in difficoltà ma a vederle così empatiche, la Peters coi suoi gorgheggi esistenziali alti ed acuti e la Federiconi coi suoi pattern scuri ed ossessivi, si è percepita una comunione stilistica ben più profonda di quanto ci si potesse aspettare. Sempre in quota femminile, il trio composto da Vanessà Heer, Caroline Ann Baur e Carmen Oswald si è disimpegnato all’esterno tra parapetti e cortile, con un “Naturjodel” ipnotico e straniante, pur con tutta la dolcezza che poteva derivare dal fatto che la Baur avesse il proprio neonato adagiato al petto. Altra coppia tutta al femminile era quella composta da Marie Delprat e Masha Ten, in arte Marytronics: la loro ambient-wave sostenuta da ibridi ritmici ai confini con la techno è stata tra le più coinvolgenti dell’intera rassegna. E poi ancora il tellurico free jazz contaminato di Tapiwa Svosve (insieme a Richard Scott alla viola e Xaver Rüegg al contrabbasso), il minimalismo tantrico di Golem Mecanique, con la sua ghironda motorizzata stabilmente sulla stessa nota e una grande inquietudine pasoliniana tutta intorno, le colorate primavere sintetiche di Ciro Vitiello e via di questo passo. Variegato, imprevedibile, in ogni caso sempre sorprendente. Andrea Amadasi


Alvin Curran, Mike Cooper
Roma, Zazie nel Metrò, 23 marzo 2025
Un incontro straordinario, per di più in un inedito bar di ‘periferia’. Transavanguardie e mixologia, con imprevisto dietro l’angolo. Un invito spontaneo tramutatosi in evento unico e irripetibile, quasi un’eco del secolo scorso. Di giganti parliamo, ma se di messaggio ed espressione vogliamo discorrere, l’umiltà con cui i nostri si affacciano alla materia musicale è encomiabile. L’entusiasmo di due post-adolescenti tradotto in composizione istantanea, trionfo di libertà, un dedalo di citazioni che sfiorano massimalismo e hyper-pop. Curran armato del suo primitivo campionatore con interfaccia digitale, una banca di suoni praticamente infinita, e Cooper con fida pedal steel e decine di ammennicoli tra chaos pad e filtri, tanto basta a generare un vortice che sa di pura indipendenza psico-fisica. La performance è dettata da urgenza, piccoli sguardi d’intesa e grande trasmissione telepatica, non c’è canovaccio da (in)seguire, i temi e le intuizioni vengono demolite sul nascere, è un portale aperto su un’idea di musica autenticamente globale, scevra da compromessi e soprattutto frutto dei viaggi – non solo virtuali – di ambo i protagonisti. Stato emergenziale dell’avanguardia o tracollo della musica popolare? La velocità d’esecuzione e la pratica infinita rendono questa performance eccelsa, nonostante le infinite declinazioni del suono. Che sia una citazione exotica, un passaggio di broken r&b o addirittura un’improvvisa impennata guitar-noise, tutto è consentito, purché la fuga sia istantanea, l’accenno perso (e ritrovato) tra mille rivoli. Tutto nasce e tutto si decompone, secondo una logica per nulla marziale, in un gioioso rincorrersi che è fotografia sovrana del loro spirito. Innovatori e guastatori negli ambiti accademici e dell’impro tout court, un concerto che è stato puro inno alla vita. Luca Collepiccolo


Bergamo Jazz 2025 “Sounds Of Joy”
[Direzione artistica di Joe Lovano]
Bergamo, vari luoghi, dal 20 al 23 marzo 2025
Ce n’è stato per tutti i gusti al Bergamo Jazz 2025, quarantaseiesima edizione di uno dei festival più longevi e importanti della penisola. All’insegna del “sound of joy” a cui s’è ispirato il direttore artistico e grande sassofonista Joe Lovano (da tempo la rassegna bergamasca affida a noti jazzisti la direzione artistica, coadiuvati da Roberto Valentino) si è passati dal mainstream allo sperimentale, dal rock progressive (gli Stick Men di Tony Levin) all’ambient (Tania Giannouli & Nik Bartsch Duo) e al folk classicheggiante (Sara Calvanelli e Virginia Sutera), da jazzisti maturi che hanno fatto la storia a giovani talenti, dalle esibizioni in solitaria a quelle di più o meno nutriti gruppi, dallo strumentale al canto (e in diversi luoghi: il Teatro Donizetti - acustica superlativa - nella Città Bassa e il Teatro Sociale nella Città Alta; poi l’Auditorium, l’Accademia Carrara, il Teatro S. Andrea, la Sala Piatti, il Circolino e i locali NXT, Daste e Legami).
Il gruppo che raccoglie in sé un po’ tutte le diverse caratteristiche del cartellone, e che quindi potrebbe assurgere a emblema di questa edizione, è il Fearless Five di Enrico Rava: l’ottantacinquenne trombettista, che ha raggiunto da tempo una sua smagliante classicità, guida da un paio d’anni un gruppo di giovani (a parte il contrabbassista Francesco Ponticelli, pure lui impostato classicamente con cavata energica e agile bounce) dediti a ricerca e sperimentazione: Francesco Diodati per l’ispidezza materica dei suoni metallici e distorti della chitarra; Matteo Paggi per un’emancipata spavalderia coniugata con perizia, sicurezza, intensità e confidenza negli stilemi del passato classico, mescolando Roswell Rudd con Trummy Young; ed Evita Polidoro per l’abile e policromo drumming pieno di guizzi inaspettati. Rava, che mantiene le sue storiche peculiarità, cioè la liricità, la splendida sonorità e il fraseggio che spazia dal disegno di semplici e distese linee melodiche a quello di intricati arzigogoli (comprese le mitragliate sui sovracuti con cui costruisce episodi simil-free), dirige i compagni, ma anche si fa dirigere, ognuno portando la propria idea di musica inserendosi negli altrui costrutti, contemporaneamente aperto a farsi condizionare, in questa maniera integrandosi vicendevolmente alla perfezione. In un brano il direttore artistico Joe Lovano ha affiancato con estrema efficacia il gruppo: a differenza dell’edizione dello scorso anno, quando pure era direttore artistico, il sassofonista non ha lesinato a partecipare come ospite alle esibizioni di diversi altre compagini in rassegna, sempre al soprano: con i gruppi di Danilo Pérez, Marc Ribot e Dianee Reeves.
Di indirizzo modern mainstream, due sono stati i gruppi principali: il trio del pianista Antonio Faraò e The Cookers.
Faraò, accompagnato da Ameen Saleem al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria, ha presentato brani quasi tutti da lui composti presi dal suo recente disco “Tributes” (dove John Patitucci è al posto di Saleem), attraverso i quali rende omaggio ai pianisti che più lo hanno influenzato: Herbie Hancock, Chick Corea e McCoy Tyner. Ne scaturisce un pianismo a tratti spettacolare per l’articolato e fitto fraseggiare senza pause, ricco di inventiva e incessante propulsione, dove risuonano gli echi di tutti i suoi modelli, catalizzatori per la creazione di un tumultuoso e virtuosistico stile personale.
The Cookers, settetto che riunisce alcuni dei più rappresentativi esponenti dell’hard bop degli anni Sessanta e Settanta, una all-star con Eddie Henderson e David Weiss alle trombe, Azar Lawrence al sax tenore, Donald Harrison al sax alto, George Cables al pianoforte, Cecil McBee al contrabbasso e Billy Hart alla batteria, non si sono discostati dal jazz che ognuno produceva negli anni d’oro, mantenendo la stessa verve e gli stessi suoni pieni e robusti, che non di rado mancano ai musicisti delle nuove generazioni. I brani, perlopiù composti da loro (McBee e Cables) e da Freddie Hubbard, ben strutturati in arrangiamenti efficaci, hanno il compito di lanciare gli assoli che i vari componenti prendono di volta in volta con cipiglio bop e swingante vigore (l’ottantaquattrenne Hart, che alla batteria fu anche con McCoy Tyner e Wayne Shorter, è ammirevole per la forza e la spinta incessantemente prodotte).
Ancora sulla falsariga mainstream sono stati due dei concerti inseriti all’interno del festival sotto l’insegna Scintille di Jazz, una mini rassegna nella rassegna, volta a presentare musicisti italiani, perlopiù nuovi talenti, con la direzione artistica di Tino Tracanna: il Maniscalco Trio con Pietro Tonolo special guest, e il quartetto di Nicholas Lecchi (gli unici due che abbiamo potuto ascoltare della mini rassegna, per l’accavallarsi degli eventi in programma).
Bella commistione, di intenti e di poetica, quella fra il trio del pianista Emanuele Maniscalco (con Francesco Bordignon al contrabbasso e Oliver Laumann alla batteria) e l’ospite tenor sassofonista Tonolo, entrambi sviluppando assoli dall’architettura complessa e sghemba sui solchi della tradizione moderna, di Herbie Nichols e Thelonious Monk da una parte e di Joe Henderson e Sonny Rollins dall’altra (eseguiti alcuni original, incorniciati dal brano d’apertura di Nichols “Change Of Season” e da quello di chiusura di Mingus “Reincanation of a Lovebird”).
Un’incontenibile energia e traboccante espressività, quelle espresse dal tenor sassofonista Nicholas Lecchi, che con il suo quartetto s’è esibito nelle ore notturne con un hard bop estroso ed esuberante.
Per la sezione che si potrebbe definire di jazz contemporaneo sono stati presentati il Dialect Quintet di Alexander Hawkins, il quartetto Via del ferro, il quartetto Lux (che ha sostituito all’ultimo momento il preannunciato duo Dave Holland/Lionel Loueke che ha cancellato il tour europeo a causa di problemi di salute occorsi al contrabbassista inglese), il quartetto di Danilo Pérez, il duo Barry Guy/Jordina Millà e Aruan Ortiz al piano solo (Marc Ribot è un discorso a parte, più spostato verso l’hard rock e il blues protestatario).
La produzione originale Dialect Quintet ha visto Alexander Hawkins al piano, Camila Nebbia al sax tenore, Giacomo Zanus alla chitarra, Ferdinando Romano al contrabbasso e Francesca Remigi alla batteria, che si sono espressi in tumultuosi e densi interventi free diversamente strutturati, sia inserendo parti composte sia lasciando libero sfogo alla creatività estemporanea, il tutto costellato da abrasivi assoli individuali ben incasellati nell’insieme (apparentemente) caotico.
Il gruppo Via del ferro (The Iron Way) è meno densamente burrascoso rispetto al Dialect Quintet, è più incentrato sulle individualità solistiche di Alex Hitchcock al sax tenore e di Maria Chiara Argirò al pianoforte e synth, accompagnati con ampia libertà espressiva da Michelangelo Scandroglio al basso elettrico e Myele Manzanza alla batteria: c’è più marcata e maggiore alternanza fra momenti di free e altri più pacati e distesi, a volte cantabili; ci sono più reiterazioni melodiche e crescite e decrescite d’intensità, il tutto esternato con groove energico, paesaggi sonori elettronici e terrose linee di basso.
Pochi invece i momenti free nella performance del Lux Quartet, co-diretto dalla pianista Myra Melford e dalla batterista Allison Miller e completata dal sassofonista Dayna Stephens e dal contrabbassista Nick Dunston, dove tutto quello che è composto viene eseguito con pesata esattezza e quello che viene improvvisato è studiato per essere inserito in un insieme pensato e strutturato, anche se ogni musicista si muove dentro e fuori dalle composizioni con grande libertà. È avant-jazz di pregio, che tocca via via composizioni atonali, brani modali, intricati metri dispari, swing strascicati che ricordano il Braxton dei primi anni Settanta, assoli, anche lunghi, di Stephens e della Melford, la quale passa da furori ritmico/melodici meticolosamente debordanti a momenti rarefatti e intimisti, e una sezione ritmica che si ritrova un uragano d’energia nel drumming della Allison: è stata una delle punte artisticamente più alte del festival.
Il trio di Danilo Pérez al piano, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria, che era quartetto quando lo guidava Wayne Shorter, lo torna ad essere ora con l’aggiunta del tenor sassofonista Ravi Coltrane per onorare proprio la figura del grande musicista di Newark scomparso nel 2023 attraverso il progetto Legacy Of Wayne Shorter. I tre, cimentandosi con brani di Shorter tipo “Sanctuary”, “Miyako” e “Footprints”, utilizzati come un canovaccio intorno al quale intrecciare una musica continuamente cangiante, si intendono a meraviglia con un senso telepatico che ha del sorprendente, rispondendosi e commentandosi a vicenda con prontezza felina, tanto che l’ospite Coltrane, figlio di tanto padre, pur eccellente e pieno di pathos, è sembrato leggermente scollato dal gruppo. Anche in questa occasione si è unito con efficacia Joe Lovano nel brano “Which Hunt”.
Con il duo formato dalla pianista Jordina Millà e dal contrabbassista (a cinque corde) Barry Guy, uno dei padri della musica improvvisata europea, si piomba dentro alla poetica della musica astratta, dada e rumoristica, liberamente improvvisata attraverso grande varietà di suoni e rumori prodotti sia insieme che separatamente su un’ampia gamma dinamica.
Il pianista Aruan Ortiz s’è esibito in solitudine, ripercorrendo le strade del suo recente disco “Cub(an)ism”, idealmente il cubismo applicato alla musica cubana. Considerato il titolo e il pedigree di Ortiz, l’influenza cubana è però meno palese di quanto ci si potrebbe aspettare: la musica in un unico flusso di coscienza senza interruzioni viene di continuo smantellata e riformulata con le figure che cadono e si riorganizzano in un qualcos'altro di diverso e con i vari componenti che sembrano slegati o inappropriati, ma che alla fine, inseriti nel contesto generale, svelano compattezza e un proprio conseguente equilibrio formale.
Con il quartetto di Marc Ribot Hurry Red Telephone (citazione dalla poesia di Richard Siken “Several Tremendous”) si scivola verso sonorità hard rock e post punk, soprattutto per la presenza dell’altra chitarrista Ava Mendoza, oltre al contrabbassista Sebastian Steinberg e al batterista Chad Taylor. Il gruppo ha regalato una performance da potersi considerare, pure questa, una delle vette artistiche del festival. Ribot le ha conferito un’impronta fortemente politicizzata, tanto profondamente sentita da apportare alla musica un forte sincero pathos e una struggente emozione: “So che siete qui per la musica e non per discorsi politici”, ha detto il chitarrista, “ma questi ultimi due mesi sono stati molto difficili per noi: un dittatore fascista sta prendendo il controllo del nostro Paese”. Inoltre, come bis, ha dato una interpretazione struggente e sui generis di “Bella Ciao”, cantata da lui in inglese e che già aveva cantato e suonato in un recente disco con Tom Waits: la sua cruda interpretazione vocale è piena di angoscia e tormento, l’assolo di chitarra colmo di rabbia e sdegno, sublime chiusa a un concerto in cui aleggia costantemente nell’aria lo spirito di Albert Ayler in un flusso musicale lancinante e esacerbato.
Per finire due cantanti fra le più apprezzate della scena odierna: Lizz Wright e Dianne Reeves. La prima, accompagnata da un quartetto professionalmente ineccepibile (Kenny Banks Sr al piano e all’organo, Adam Levy alla chitarra, Ben Zwerin al contrabbasso e Marlon Patton alla batteria) ha cantato canzoni gospelizzanti, blues e pop-folk prese in parte dal suo ultimo album “Shadow”, ma anche spaziando in altri lidi, per esempio con un’avvincente interpretazione di “Old Man” di Neil Young. La sua voce da contralto è scura, possente, a tratti sensuale, nel gospel ricorda Mahalia Jackson, pur se non con il medesimo profondo pathos, nel folk-jazz Nina Simone annacquata con Joan Armatrading.
Dianne Reeves è invece la tipica jazz singer il cui stile, nella fattispecie, deriva da Sarah Vaughan e Betty Carter, caratterizandola con una voce profonda e inflessioni hot, con un uso canonico dello scat e un senso di libertà e giocosità sul palco che ha coinvolto gli spettatori (Donizzetti all sold out, come lo sono stati tutti i concerti della rassegna). Accompagnata da John Beasley all piano, Romero Lubambo alla chitarra, Reuben Rogers al contrabbasso e Terreon Gully alla batteria ha interpretato con maestria e forte espressività canzoni di diversa provenienza, dalle davisiane “What’s New” e “All Blues”, a “Minuano” di Pat Metheny, da “Peace” di Horace Silver a “Dreams” dei Fleetwood Mac, con la mccoytyneriana “You Taught My Heart To Sing” come bis, accompagnata dal solo Lubambo alla chitarra. Pubblico in visibilio. Meritata chiusura per una riuscitissima edizione del festival. Aldo Gianolio


CCCP - FEDELI ALLA LINEA: Gran Galà Punkettone 2025
Teatro Valli – Reggio Emilia, 21 marzo 2025
Un anno e mezzo è trascorso da quel Gran Galà Punkettone, quando Annarella Giudici e Giovanni L. Ferretti entravano la prima volta in teatro dalla porta principale a fondo platea, accompagnati dalle note di Annarella suonate alla chitarra da Massimo Zamboni, che li attendeva da un lato del palco mentre dall’altro un sornione Danilo Fatur assisteva a tutta la scena. Da quel momento così intensamente sceneggiato il risveglio della cellula dormiente è diventato di dominio pubblico e da lì in poi, come tutti sappiamo, il corso degli eventi ha superato di gran lunga ogni più rosea aspettativa. Un anno e mezzo dopo – in un parallelo funzionale con quel “Le idi di marzo” che era il nome del festival di Melpignano che portò i CCCP a suonare a Mosca e Leningrado nel 1989 e poi l’anno successivo, allo scioglimento degli stessi CCCP dopo la caduta del muro di Berlino e quasi in concomitanza con la dissoluzione dell’impero sovietico – la scena si ripete ma al contrario. Annarella e Ferretti ora scendono dal palco e si avviano verso l’uscita, lentamente, con la stessa enfasi di allora indugiando, per dirottare sguardi verso il pubblico intorno prima di essere inghiottiti dal bagliore di luce accecante dilatato dalla spessa coltre di fumo. Dunque siamo di nuovo all’epilogo ma questa volta con una cerimonia di commiato, in esclusiva per la città di Reggio Emilia e in concomitanza con la pubblicazione del cofanetto che contiene il riassunto audio e video dei primi due Gran Galà, a mitigare per quel che può l’attesa per i sette concerti finali fissati per l’estate. Una cerimonia fortemente voluta che ovviamente raggiunge la sua massima esaltazione nel secondo atto, quello del commiato vero e proprio, quando si alza il sipario sulle gigantografie iconografiche dei leader politici di un est europeo che può fare persino nostalgia, allo stato attuale delle cose. Fatur le strattona verso terra una ad una sotto lo sguardo attento di Annarella e al loro posto scende un caleidoscopio di vessilli a simboleggiare la frammentazione e l’oblio dopo il crollo di una distopia dogmatica. All’ombra di quei vessilli, poi, altri piccoli gesti ugualmente simbolici da parte di ognuno dei CCCP, ritornati per l’occasione ad essere solo loro quattro, col comunicato letto da Zamboni che riecheggia soprattutto in quel “non ci sarà un altro episodio: l’epica dei CCCP termina qui”, e questa volta c’è da credere che sarà così. Annarella si sfila gli zoccoli e li rimette nel baule, Ferretti declama “…All'erta sto come un russo nel Donbass come un armeno del Nagorno-Karabakh…”, Zamboni si occupa della ritmica con basso e batteria elettronica e Fatur, come sempre, armeggia coi suoi “gingilli”. Poco più di una ventina di minuti in tutto, prima dell’epica finale sulle note di Annarella e una parabola che dopo quaranta e passa anni si avvia solennemente alla sua dissolvenza definitiva. Andrea Amadasi


Nana Bang
Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp
Teatro Borsoni, Brescia, 23 marzo 2025
Non sarà come ai “vecchi tempi” – che tanto vecchi poi non sono: parliamo di circa tre lustri fa – in cui Brescia respirava brezze una tantum non inquinate dalle industrie ma creative, ciò nonostante è un gran bel segnale che una delle colonne della scena cittadina torni in pista tastando il polso al qui e ora. Marco Obertini (promoter, DJ e svariate altre cose: lui, comunque, preferisce definirsi “agitatore”) conferma uno sguardo da sempre focalizzato sull’attualità nella rassegna curata al Teatro Borsoni intitolata “Café Tassili”: il nome, infatti, mette in risalto l’idea di un luogo di incontro e una concezione del viaggio sonoro come esperienza (multi) culturale, sottolineando quanto confini e barriere siano concetti insensati. Anche se il mondo occidentale spinge in direzione contraria, per fortuna c’è chi ancora si affida alla curiosità, all’apertura mentale e al crossover e, dopo il concerto di Bombino nell’ottobre 2024, invita sul palco Massimo Siviero, Sarathy Korwar e per l’appunto la Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, alla quale è spettato il compito di inaugurare la rassegna con un’entusiasmante musica “totale” che scavalca i generi e le categorie perché sa da dove proviene e dove è diretta.
Con la contaminazione e la trasfigurazione del passato lavorano anche Andrea Fusari e Beppe Mondini alias Nana Bang, progetto scaturito dai Gurubanana che ha preceduto gli svizzeri in una scelta molto azzeccata, poiché il loro minimale, surreale folk elettroacustico percorso da ricordi blues, tecnologia garagista, finestre melodiche d’autore e stralunate filastrocche incarna l’anello di congiunzione tra Kevin Ayers, i Violent Femmes e dei Suicide con la gioia di vivere. Se per alcuni saranno una sorpresa (cercate i loro dischi: ne vale la pena), l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp può essere annoverata senza alcun dubbio tra i classici contemporanei. Seria però mai seriosa, la folta banda elvetica vanta il dono dell’originalità e da tempo porta avanti una concezione di suono “progressista” che, assecondando istinto e ragione, trasporta in una fertile terra di nessuno dove carezze folk, obliquità new wave, tiro afrofunk, archi torti e ritorti, ottoni che sferzano e voci che si intrecciano sono magnifica cosa sola e, sì, unica. Decollando da album di eccellente fattura, nel loro caso la dimensione concertistica costituisce uno spazio ideale per sprigionare l’intesa ineffabile che sul serio appartiene a un’orchestra onnipotente: ovvero, al collettivo capace di costruire solidi ponti tra ipotesi di The Ex color pastello e di una Penguin Cafè Orchestra punkettosa, di travolgere con un misto di gioia e introspezione e, attingendo da un post che è prima attitudine e poi stile, di disegnare panorami in cui ti smarrisci. Dopo bis invocati con entusiasmo ti scopri felice e carico di energia. Di più, da una fresca domenica sera di inizio primavera non avresti potuto desiderare. Giancarlo Turra


Thus Love/Dream Nails
Covo Club, Bologna, 15 marzo 2025
I Thus Love si sono trovati appena prima della pandemia in un fienile in mezzo a un bosco nei pressi di Brattleboro, nel Vermont, l’hanno chiamato “Hobbit Hole” e ne hanno fatto il quartier generale dove scrivere e registrare le loro canzoni. Non hanno alcuna attinenza apparente con Joseph Rudyard Kipling, che pure a Brattleboro trovò dimora sul finire del 1800 e vi scrisse, tra gli altri, “Il libro della giungla”, e nemmeno con H.P. Lovecraft, che in quella cittadina ha ambientato parte del racconto “Colui che sussurrava nelle tenebre”. Piuttosto, vanno in giro con un’attitudine dichiaratamente queer – si fanno chiamare con pronomi tipo they/them (aka Echo Mars, voce e chitarra), he/they (il batterista Lu Racine), she/they (la bassista Ally Juleen) ed infine he/him (Shane Blanck, chitarra e synth) – e da quel fienile in mezzo al bosco sono poi usciti con due dischi che, questione di tempo e opportunità, li faranno famosi. Nel frattempo arrivano in Italia di soppiatto per un paio di date (Milano sold out e Bologna quasi) inserite in un fugace tour europeo che a loro fa curriculum mentre noi che siamo diversamente giovani e nostalgici, apprezziamo anche per la situazione contingente (l’intimità del piccolo club, i gruppi tutti da scoprire, vecchi e nuovi amici che si incontrano…) che un tempo era la normalità e oggi fa venire la pelle d’oca per quanto fosse romantica e ancora non lo sapevamo.
Ad aprire la serata sono le Dream Nails, un terzetto al femminile (o riot girl, o transgender che dir si voglia) proveniente da Londra, che ama definirsi una via di mezzo tra Ramones e Bikini Kill ma, pur non difettando in simpatia, con una personalità che al momento sembra ancora compressa al livello delle intenzioni. Anche per loro due soli dischi all’attivo e quindi una manciata di canzoni che incuriosiscono più per le tematiche dei testi che non per il g
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