Ohio Wave 3: Columbus e Cincinnati
Ohio Wave 3: Columbus e Cincinnati
di Federico Guglielmi

COLUMBUS si trova pressoché al centro dell’Ohio, poco a sud di un ipotetico meridiano che dividerebbe in due il Buckeye State; Cincinnati, invece, è all’estremo sud-ovest, proprio al confine con il Kentucky. Le separano appena centosessanta chilometri di strada e sono quasi equidistanti da una terza città di una certa rilevanza, Dayton. Per quanto concerne le faccende musicali degli ultimi anni ’70 non sono menzionate di frequente come accade con Cleveland e Akron perché non hanno prodotto band di importanza tale da “costringere” ad approfondimenti: Pere Ubu e Devo, per limitarsi alle due più osannate. Il che, logicamente, non significa che nelle loro cantine non maturassero realtà meritevoli di attenzione, alle quali il fatto di essere in larga misura misteriose potrebbe perfino conferire un pizzico di fascino in più.

Situata nel punto in cui si incontrano i fiumi Olentangy e Scioto, Columbus è la capitale dell’Ohio e nei ’70 contava 550.000 abitanti (più del doppio con il vasto hinterland). Il suo nome è un omaggio a Cristoforo Colombo e, per quanto assurdo possa sembrare, c’è chi fa pressioni per cambiarlo, in quanto l’esploratore genovese è ritenuto colpevole della conquista dell’America da parte degli europei, con relative prevaricazioni ai danni dei nativi; alcuni hanno suggerito di ribattezzarla Flavortown in onore di un celebre figlio della città, lo chef nonché volto televisivo Guy Fieri, e la cosa si commenta da sé. Follie dei nostri tempi di “cancel culture” e revisionismi? Chissà come la pensa al proposito il prime mover della nuova onda locale, Michael Hummel in arte Mike Rep, che attorno alla metà dei ’70 registrava con modalità artigianali e senza alcuna ambizione di diffonderle le bizzarre canzoni che gli frullavano per la testa. Queste rimasero un segreto molto ben custodito fino al 1978, quando la Moxie, una piccola etichetta di Los Angeles consacrata al garage e ai Sixties ma ricettiva alle stranezze underground, ne volle presentare due in un singolo dalla tiratura minima (duecento copie, metà delle quali senza copertina). A dir la verità, sul retro Quasar non c’è esattamente una canzone, ma cinque minuti di rarefatte cacofonie a base di feedback; i 3:21 del lato A, Rocket To Nowhere, sono invece un furioso, caustico delirio lo-fi di chitarra distorta e voce filo-demenziale, una sorta di inno nichilista di rara potenza che lascia a bocca aperta. Accreditato a Mike Rep And The Quotas, il 45 giri venne con tutta probabilità classificato dai pochi che lo ascoltarono come una freakerie di chissà quale flippato, e cadde nel dimenticatoio. Nel 1989, però, i Boys From Nowhere - formazione neo-garage di Columbus che in qualche modo l’aveva scovato - pubblicò una cover di Rocket To Nowhere; l’imprevedibile sviluppo di un minuscolo culto spronò così Rep a ritornare in pista e perfino a realizzare nuovi lavori. Da lì a riesumare quanto fissato su nastro e accantonato tra il 1975 e il 1979 il passo fu breve: oltre alla ristampa su Mighty Mouth del dischetto Moxie (2012), arrivarono così i singoli Mama Was A Schitzo Daddy Was A Vegetable Man/Rocket Music On (Old Age/Sverige Age, 2001) - una seconda, acida gemma proto-punk, con il titolo del primo brano che è già programmatico - e It’s My Movie/Gloria (Hard To Beat, 2013), più gli LP “Stupor Hiatus Vol.2” (Siltbreeze, 1992), “A Tree Stump Named Desire” (Siltbreeze, 1996), “Stupor Hiatus” (Siltbreeze, 2009; doppio) ed “Hellbender” (HoZac, 2016). Orientarsi precisamente è difficile, perché talvolta alle incisioni d’epoca se ne affiancano di più recenti e spesso le date delle session non sono indicate; la sicurezza di avere a che fare solo con recuperi dai ’70 c’è, comunque, con i tre suddetti singoli e con “Hellbender”, raccolta di reperti 1975-1978 nella quale sfilano altre schegge brutali come Rockstar e Black Hole ’78 o ballate un po’ stranianti quali You’re So Decadent/Sad e Cowboy Gone Straight. In quel periodo, Hummel faceva per lo più tutto da sé destreggiandosi con un multitraccia, ma non disdegnava di coinvolgere cari amici come Tommy Jay alla batteria e il di lui fratello The General al basso. I tre, occasionalmente con l’aggiunta del chitarrista Alfred John Martin (in arte Nudge Squidfish) divennero nel 1979 i True Believers, un gruppo vero che, se capitava, si esibiva nei club più gettonati come il Mr. Brown’s o il Crazy Mama’s, entrambi sulla North High Street; nel 1979 registrarono pure tre pezzi all’insegna di un rock ruvido e precario - ma meno urticante di quello dei Quotas - poi immortalati nel 7”EP Accept It!, che fu la prima uscita della New Age, etichetta fondata da Rep, Jay, Martin e da Chuck Kubat, proprietario di un negozio di dischi chiamato Magnolia Thunder Pussy (incredibilmente tuttora in attività, sebbene in una sede diversa da quella originaria). […]

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