Otomo Yoshihide
Otomo Yoshihide
di Alberto Pezzotta

John Zorn e Otomo Yoshihide (chiamatelo Otomo, per favore, che è il cognome; lo scrive anche lui sul suo sito, chiamare un giapponese per nome richiede un alto grado di prossimità) sono stati probabilmente gli ultimi grandi creatori di suoni del ventesimo secolo. Punto. Entrambi sono usciti da sperimentazioni rumoristiche giovanili, eredi del free più free; entrambi hanno sconfinato in altri ambiti (il teatro underground per Zorn, le installazioni per Otomo) molto prima che fosse di moda; entrambi sono stati iniziatori e artefici di un postmoderno musicale che cita, riproduce e tritura secoli di musica e memoria di tutti i tempi e di tutti i Paesi (anche se Zorn l’ha fatto più da compositore mentre Otomo, per un lungo periodo, è stato un manipolatore di dischi e giradischi, e ha affrontato il campionamento da un punto di vista opposto a quello di Zorn, dal basso); entrambi hanno sdoganato presso il pubblico dell’avanguardia colta generi malfamati, mescolando alto e basso, mettendo sullo stesso palco urlatori, batteristi thrash e heavy metal, musicisti jazz, classici e tradizionali; con band come i Naked City e i Ground Zero hanno ridefinito il concetto di collettivo musicale e di concept album, modificandosi di continuo; entrambi sono enciclopedie musicali viventi, e hanno scritto decine di colonne sonore per il cinema, anche se Zorn ha una formazione quasi classica e Otomo è più autodidatta (anche se quest’ultimo ha avuto più di un contatto con l’avanguardia accademica: dal remix di Persepolis di Iannis Xenakis su Asphodel [2002] al CD condiviso con Luc Ferrari, Les Archives sauvées des eaux [2008], bellissimo: cose che lo Zorn si sogna); entrambi sono stati formidabili organizzatori culturali e catalizzatori musicali, simili e sodali in questo con Bill Laswell; in più hanno saputo anche teorizzare e riflettere sul senso più ampio di quello che facevano. Vi vengono in mente altri musicisti con orizzonti così ampi, in qualunque ambito, negli ultimi trent’anni? Per favore non citatemi Brian Eno, che ha smesso di fare cose interessanti quando, appunto, spuntavano i tre citati. Poi noi occidentali, ovviamente, abbiamo conosciuto e seguito meglio la scena del Lower East Side newyorkese rispetto a quella giapponese. Ma tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli Novanta, anche se succedevano molte altre cose in altri campi (l’elettronica, per esempio), l’impressione è che con Zorn e con Otomo stesse nascendo davvero qualcosa di nuovo. E soprattutto c’era quella fusione di pubblici, linguaggi e ambiti diversi che nessuno da allora ha saputo ricreare. I fan di Bill Frisell che si ritrovavano Yamatsuka Eye o Mike Patton che urlavano, e viceversa. […]

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