Pharoah Sanders
Pharoah Sanders
di Enrico Bettinello

Intro
Quando, alla metà degli anni Novanta, la Impulse! inizia a ristampare sistematicamente in cd i gioielli del suo catalogo, compresi i dischi di Pharoah Sanders, ne chiacchieriamo con un amico che mi racconta questo episodio. Signore raffinato, ormai in pensione, collezionista e appassionato che ha vissuto alcuni momenti anche in prima persona, l’amico in questione mi riferisce di avere comprato da poco la ristampa di un disco di Sanders (più sotto vi svelo quale) e, dopo averlo messo nel lettore ed essersi rilassato sul divano, alle prime note vede entrare la moglie con gli occhi spalancati che gli dice: “ancora questa? eh, no, bastaaa!” Il brano/tormentone in questione era stato ascoltato in gioventù talmente tante volte che la, immagino al tempo più paziente, fidanzata non ne aveva più voluto sentire una sola nota per il resto dei suoi giorni.
Mi è tornato più volte in mente questo buffo aneddoto di economia acustica familiare negli ultimi anni, specialmente in relazione con il successo di Kamasi Washington, musicista che a quel tipo di esperienza musicale non ha mai fatto mistero di riferirsi e che suscita alternativamente – grazie anche a una felicissima congiuntura di marketing – ammirazioni quasi messianiche e sdegnati ridimensionamenti, in un contrapporsi quasi zoroastriano di giovani entusiasti versus vecchi intenditori che “hanno già sentito queste cose quando erano nuove e fatte meglio, signora mia”. Lasciando a dopo un tentativo di riflessione più puntuale e articolato su questo tema che, ripeto, asciugato dei risvolti puramente hipster si ridimensiona un po’ già da sé, è forse interessante approfittare del cinquantesimo anniversario di tre incisioni importanti nella discografia di Pharoah Sanders per provare a inquadrare la sua musica, un po’ di zeitgeist e di idee che ciclicamente si riaffacciano sia a orecchie nuove, che a quelle che, in un modo o nell’altro, “hanno già dato”. […]

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