"Psychobilly"
"Psychobilly"
Stefano I. Bianchi

[ROCKABILLY SPECIAL parte 2] - Con l’avvento del punk, alla metà degli anni ‘70, ci fu un rigurgito di popolarità per il rockabilly, la più basilare ed essenziale forma di rock. In questa seconda parte dello speciale iniziato nel numero scorso vi raccontiamo le band che da allora a oggi hanno rivitalizzato il genere con robuste iniezioni di sporcizia e follia dando vita a quello che viene chiamato PSYCHOBILLY.

[nella foto: i Cramps]


I matti sono fuori
In principio furono i matti. Quando tutti chiusero le porte al rockabilly, loro gliele aprirono. Furono pochissimi ma buonissimi: il primo Hasil Adkins, che già negli anni ‘50 proponeva il suo goffo ballo chiamato the hunch, e il secondo, dieci anni più tardi, il Legendary Stardust Cowboy; abbiamo scritto del primo a ottobre e del secondo a novembre, naturalmente nella rubrica dedicata agli outsiders. Adkins e il Ledge accesero la fiaccola di un rockabilly deragliato e delirante che partiva dalle stesse coordinate della miriade di sconosciuti nati sull’onda di Elvis esaltandone all’ennesima potenza le caratteristiche più eccentriche e dissonanti: la scarsa capacità strumentale, la ripetitività, i rumorismi di ogni sorta, in una parola il primitivismo. Con Adkins e il Ledge il rockabilly prese una strada sconnessa e dissestata che sul momento non fece altri proseliti di rilievo ma nel tempo ne avrebbe raccolti una quantità impensabile.
Nella realtà delle cose, col cambio di decennio e l’ingresso degli anni ‘60 il rockabilly scomparve dai riflettori di riferimento dell’underground e i suoni e i gusti giovanili presero mille diverse direzioni: beat, mod, neofolk, psichedelia, garage, hard, progressive. Poi, all’alba dei ‘70, col venir meno delle spinte innovative del decennio appena trascorso, la dissoluzione degli ideali controculturali e la cooptazione di quel che restava di entrambi nello stardom-mainstream, l’underground rock-giovanile più ruspante e istintivo si trovò spiazzato: da un lato c’era un mare di droga, dall’altro l’illusione glamourosa di sfondare a ogni costo, nel mezzo le pretenziosità più o meno motivate e ispirate di quanti presero strade indubbiamente alternative ma eccessivamente ricercate e intellettuali. Insomma, il rock proletario perse tutti i propri punti di appoggio.
Fu a quel punto che qualcosa tornò a muoversi. All’inizio fu il pub rock, poi il rockabilly iniziò a farsi sentire di nuovo, anche se ancora in sordina, tra le pieghe di quanti giravano nei circuiti del r’n’r revival e con la complicità del vento nostalgico che tirava nei media più importanti (American Graffiti, Happy Days); quindi, dalla seconda metà del decennio, con sempre maggior visibilità. Un ruolo importante nel rilancio l’ebbero due oscuri singoli come Ubangi Stomp di Carl Mann (1960) e Jungle Rock di Hank Mizell (1958), che, ristampati entrambi in Inghilterra nel 1976, riscossero un gran successo e riportarono nelle classifiche una musica che era divertente, semplice da suonare e abbastanza misteriosa e dimenticata da funzionare come novità. E difatti fu proprio l’Inghilterra la patria del revival; lì continuatori della tradizione rock’n’roll-pop come Dave Edmunds e Nick Lowe coi Rockpile (l’anello di congiunzione tra r’n’r e pub rock), Shakin’ Stevens e i Matchbox erano attivi fin dai primi ‘70, sempre lì gli americani Robert Gordon, Stray Cats e Cramps ebbero maggior successo, e ancora lì, negli anni 80, lo psychobilly trovò il terreno adatto per espandersi a macchia d’olio.
I motivi per cui il revival sia nato ed esploso proprio in UK e non in patria sono stati spesso indagati trovando risposte più o meno vaghe e convincenti… […]

…segue per 14 pagine nel numero 176 di Blow Up, in edicola nel mese di Gennaio 2013 al costo di 6 euro.

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