RIPESCHIAMOLI: The Shaggs
RIPESCHIAMOLI: The Shaggs
di Stefano I. Bianchi

“Uno dei miei tre dischi preferiti di sempre” (Frank Zappa in un’intervista a Playboy, 1976)
“Tra i 100 dischi più influenti della storia del rock alternativo” (Rolling Stone)
“Le Shaggs sono le più fiche di tutti” (Jonathan Richman)
“Costringono il mio cervello a uno stop assoluto” (Carla Bley)
“La loro musica ha una sua personale struttura e una sua logica interna da poter essere paragonata a quella del primo Ornette Coleman” (Terry Adams degli NRBQ)
“Un nuovo linguaggio del rock’n’roll” (Byron Coley sul New York Rocker)
“Il suono della chitarra di Dorothy Wiggin è come quello di 14 minuscoli pettini passati sul dorso di un alce, mentre la batteria di Helen pare quello di una gamba di legno che incespica su un campo pieno di pneumatici Uniroyals completamente lisci” (Lester Bangs sul Village Voice).
“Se dovessimo giudicare sulle basi della sua onestà, originalità e impatto si tratterebbe del più grande album mai registrato nella storia universale della musica”
(Bruce D. Rhodewalt sul LA Weekly)

“Il peggior disco mai registrato nella storia della musica” (chiunque altro)


Negli anni Sessanta i coniugi Austin e Annie Wiggin vivevano a Fremont, New Hampshire, ed erano poverissimi. Avevano sei figli da sfamare, quattro femmine e due maschi. Il buon Austin un giorno decise che le tre sorelle maggiori, Dorothy, Betty e Helen, avrebbero fatto le musiciste. Comprò due chitarre e una batteria, le mise loro in mano e ordinò di suonare. Era un padre di quelli all’antica ed era difficile dirgli di no. Quindi, del tutto incapaci e incolpevoli, le tre sorelle cercarono di fare del proprio meglio. Il padre riuscì a far avere loro un contrattino con il locale davanti casa e così, per quanto i concerti terminassero spesso con un rituale lancio di rape e pomodori sul palco, le tre Shaggs (le ‘pelose’, da un taglio di capelli al tempo alla moda – vedi foto di copertina del disco) resistettero per qualche mese prima di diventare l’attrazione settimanale della sala comunale (!). Nel ’69 Austin decise che era tempo di registrare un disco e riuscì a mettere insieme i soldi per stamparne mille copie con un’etichetta che dire effimera è poco. Le session durarono mezza giornata; novecento copie del vinile scomparvero non si dove e come; cento furono effettivamente vendute. Per qualche altro anno le Shaggs continuarono a suonare, fino a che, nel ’75, Austin pensò bene di togliere il disturbo da quella valle di lacrime e le tre sorelle si liberarono da qualsiasi impegno. Non avrebbero mai più suonato insieme.
Nel ’76 Frank Zappa rilasciò un’intervista a Playboy dove diceva che quello delle Shaggs era il suo terzo album preferito di tutti i tempi. Apriti cielo: iniziarono a circolare cassette e qualcuno riuscì a trovare una copia originale, così che la Rounder riuscì a ristampare il prezioso vinile, nel 1980, con la cura degli NRBQ. Da lì in avanti la riscoperta, fino a che Irwin Cushid non immortalò il nome delle Shaggs inserendole nella prima delle due compilation “Songs In The Key Of Z”, dedicando loro il primo capitolo del libro omonimo e infine curando una filologica ristampa in CD del disco stesso per la RCA Victor.
“Philosophy Of The World” è quanto di più indegno possiate immaginare. Le tre povere sorelle suonano come se fossero in luoghi diversi, non c’è un minimo di tenuta ritmica, di senso armonico condiviso, di capacità tecnica. La voce sbaglia le entrate e stona, le melodie sono ridicole e tutte uguali, la chitarra strimpella perennemente la stessa corda e la batteria sgambetta senza sapere minimamente cosa fare. Il basso per fortuna è presente in un solo pezzo - ed è la quarta sorella, Rachel, a prenderlo in mano con immaginabili risultati. Per quanto riguarda la musica prodotta, diciamo che si tratta di una specie di beat melodico e infantile, anche se è veramente difficile trovargli dei paragoni.
Eppure è vero: può essere uno dei più grandi album della storia. L’ingenuità e la forza che sprigiona sono immense. È il suono di una miriade di esistenze inesistenti, la colonna sonora di tutti noi. Austin presumibilmente avrà ascoltato le mille band che passavano per radio e si sarà detto: se riescono loro possiamo riuscire anche noi. Proviamo - e provò. Se non il progenitore del suono punk, certo questo disco è il padre della sua estetica e il primo artefatto degli amanuensi del rock, dagli Half Japanese ai Beat Happening a tutto il lo fi dei ‘90. Non li avrà direttamente influenzati, dacché pochissimi lo avranno sentito, ma è primo il sintomo di una malattia che nel tempo si sarebbe espansa a macchia d’olio: il sogno del fai-da-te, del non-musicista che ce la fa, del ‘proviamoci comunque vada’, della bruttura che si fa magia, persino l’epitome del(la fine ingloriosa del) sogno americano. E poi porta con sé una filosofia di vita rara e illuminante, perfettamente riassunta in una title track che è la recensione definitiva non solo del disco stesso ma di quasiasi altro album sia mai stato inciso in qualsiasi posto e qualsiasi tempo:

“I ricchi vogliono quello che hanno i poveri
e i poveri vogliono quello che hanno i ricchi
I magri vogliono quello che hanno i grassi
e i grassi vogliono quello che hanno i magri
Non si riesce mai a piacere a tutti
In questo mondo”

(pubblicato su Blow Up #69 - Febbraio 2004)

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