RPM: Philip Jeck "An Ark For The Listener"
RPM: Philip Jeck "An Ark For The Listener"
di Girolamo Dal Maso

“Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorni un “esercizio spirituale”, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prude come un male cronico). Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si immergono nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni.”
(G. Friedman, La Puissance et la Sagesse, Paris, 1970, p. 359 in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, 2005, p. 29)

Ascoltare dischi a volta diventa un “esercizio spirituale” e quando un disco fa nascere pensieri (che non sono solo pensieri) si ritaglia un posto nel cuore oltre che nella mente. È il caso di “An Ark for the Listener” di Philip Jeck.
Un’arca per chi ascolta. C’è un’arca? C’è qualcuno che sappia ancora ascoltare? An ark for the listener di Philip Jeck è – a quanto lo stesso artista scrive nelle note sul cartoncino copertina-libretto del cd – una meditazione su una delle ultime strofe di una delle più famose poesie del gesuita inglese G. M. Hopkins, Il naufragio della Deutschland, composta nel 1986 a qualche mese dal naufragio di una nave (la Deutschland, appunto) e dedicata “alla memoria beata di cinque suore francescane, costrette all’esilio dalle leggi Falck, affogate tra la mezzanotte e il mattino del 7 dicembre” che su quella nave erano state costrette a imbarcarsi. An ark for the listener è una citazione da un verso di questa poesia. Ad un primo ascolto – che i successivi confermano, come pure le affermazioni di Jeck a riguardo – troviamo ben poco del fervido lirismo di Hopkins nella musica di Jeck, come pure non vi troviamo alcun afflato religioso-confessionale. C’è una distonia fra la scrittura poetica del gesuita, infocata e vibrante di immagini, con una lingua incisiva (come il potente, terrifico – in senso biblico – incipit: “Thou mastering me / God!”) e la scrittura musicale di Jeck che mai come questa volta si esprime con un andamento lineare e quasi pacificato. Da una parte il turbine squassante di un uragano, dall’altra la quiete dopo la tempesta, con due corrispettivi e diversi registri lirici e linguistici. Cosa ha trovato il musicista nei versi di Hopkins a ispirarlo? A livello contenutistico l’immagine dell’arca per chi ascolti, a livello performativo l’azione poetica come pratica di meditazione. Proviamo, quindi, ad esplorare ermeneuticamente queste due intuizioni attraverso due sondaggi, certo non esaustivi e parziali. Lo faremo insinuandoci – speriamo discretamente – in alcune crepe del discorso artistico di Jeck, alcune sue apparenti contraddizioni, come le foto del booklet (che hanno in comune una installazione artistica di acciaio in un museo di Londra e un campo arato?) e il rifarsi, lui laico, a una pratica religiosa, quale la meditazione, come è veicolata da un poeta cattolico quale Hopkins. […]

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