Samuel Beckett
Samuel Beckett
di Maurizio Bianchini

Tra gli più scrittori più influenti del Novecento, Samuel Beckett è anche uno dei più studiati e fraintesi, e sicuramente il meno letto. Al di là di Aspettando Godot, le sue pubblicazioni hanno incassato cifre che il pudore impedisce di riportare. Nonostante ciò, la letteratura critica su di lui non ha mai smesso di crescere, a differenza di Musil, un ‘desaparecido’, Kafka o lo stesso Joyce. Si dice, di alcuni scrittori, che ‘piacciono agli altri scrittori’, Beckett è invece uno scrittore ‘che piace ai critici’. Il suo stile indefinibile e fuorviante, oscuro e al limite dell’incomprensibile, è terreno di coltura ideale per le diatribe consumate all’ombra autoreferenziale dell’Accademia. Quanto a me, confesso di essere appartenuto, fino a pochi mesi fa, alla numerosa famiglia dei suoi non lettori, al netto di Aspettando Godot, un must, quando la letteratura ‘seria’ contava ancora. Ho fatto un primo tentativo di leggere la trilogia, tanti anni fa, al liceo, ma la sua prosa mi ha stoppato dopo una manciata di pagine. Non ero ancora pronto per il mio viaggio al limite della scrittura; e quanto al nichilismo con cui ci si pavoneggia da giovani, era una casella già occuata, e su sponde opposte, eroica e romantica, da Camus e da Pavese. Ma qualche tempo fa, l’incontro con una lunga citazione de l’Innominabile mi ha spinto a riprendere in mano il libro, e poi, contagiato, il resto della Trilogia, Molloy e Malone muore. Non è stata una lettura agevole neppure stavolta, ma ora, dietro l’impegno e la fatica, è apparso il premio, la ricompensa. Più avanzavo nelle pagine, come un esploratore che si fa largo nella foresta, grondante di sudore e con il machete in mano, e più provavo la sensazione di essere incappato in uno dei rari libri capaci di parlare del nostro tempo da dentro la sua (del tempo) anima nera; con la stessa afasia che, come un rumore di fondo tra le pagine, dava voce all’insignificanza attuale, e non invece alla moltiplicazione euforica e normalizzante della stessa, portata dal profluvio di libri figli delle scuole di scrittura in cui volenterosi autori mettono a punto in vitro l’arte di raccontare il proprio ombelico o anche ombelichi altrui, purché emblematici di qualcosa, oppure di (contribuire a) risolvere i problemi di un pianeta ormai fuori controllo. Prodotti tutti in cui l’inconsistenza del presente avvertita solo come sintomo di un malessere vago seppur profondo, si deposita su lettori formati dalla realtà fantasmatica della pubblicità (mondo alternativo che riprocessa quello vero in un habitat incantato), del consumismo onnivoro e alienante (causa e al stesso tempo palliativo del malessere), del dominio dell’economia attraverso un benessere ansiogeno e alla lunga depauperante, come la nuvola mefitica di Rumore bianco. Ma come è possibile che libri scritti agli inizi degli anni ’50, quando il digitale, l’informatica, i social, la dittatura delle immagini, l’eclissi della scrittura, la volatilità del reale, il populismo e le democrazie autoritarie erano di là da venire, possano apparire contemporanei di un mondo venuto settant’anni dopo? È la domanda a cui provo a rispondere nelle pagine seguenti. […]

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