Scott Morgan
Scott Morgan
di Roberto Calabṛ

Sarebbe potuto diventare uno dei nomi più influenti del panorama rock mondiale, invece di restare confinato in una dimensione da cult hero per tutta la vita. Ma la storia ha voluto diversamente. Il suo non è un caso unico, non è il primo e non sarà l’ultimo, ma è un peccato che un talento immenso come quello di Scott Morgan rimanga per sempre appannaggio di un piccolo seguito di fan sparsi in ogni angolo del pianeta. La pensa così anche il critico americano Ken Shimamoto che, nel libretto allegato al box di tre CD “Three Chords And A Cloud Of Dust” (Easy Action, 2013), scrive: “In un universo giusto, Morgan sarebbe stato grande come Springsteen o Mellencamp. È nella stessa categoria di Ryder, Seger, Tyner e Iggy (per non parlare di Marriot, Stewart e Rodgers), non così appariscente come alcuni, ma ricco di sincerità d’animo come ognuno di loro. È un artista autentico perché rappresenta un’estetica basata sulla performance che include una conoscenza diretta dei progenitori dell’R&B e capisce le connessioni esistenti tra John Lee Hooker, Hank Ballard, i gruppi della Motown, i Funkadelic e gli Stooges”.
Raccontare la vicenda artistica di Scott Morgan vuol dire fare un viaggio nella musica del Michigan degli ultimi sessant’anni, a partire dagli incandescenti Sixties in cui Detroit era la capitale mondiale dell’industria automobilistica e contemporaneamente una delle più effervescenti città musicali degli Stati Uniti, sede della Motown e di una miriade di altre piccole etichette che sfornavano di continuo singoli, molti dei quali finivano per diventare delle hit. Ma era tutto lo Stato a essere terreno fertile per band di teenager influenzati tanto dalla British Invasion quanto dal soul di casa Motown, e anche dal blues e dal R&B in voga in quel periodo. […]

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