Slowdive
Slowdive
di Beppe Recchia

[nell'immagine: Slowdive,foto di Ingridpop]

Pochi generi come lo shoegaze hanno conosciuto un’inaspettata, quanto opportuna, rivalutazione dopo anni di irrisione, spesso per ragioni del tutto estranee al valore e al significato della musica. Che si sia trattato dell’indole schiva dei protagonisti (lo stesso termine shoegazing, coniato originariamente dalla stampa britannica per descrivere la necessità di fissare sul palco le proprie scarpe per destreggiarsi tra la gran quantità di pedali per la chitarra, divenne presto un modo per ironizzare sull’assenza di presenza scenica e su interviste condotte a monosillabi) o del (presunto) peccato originale dell’appartenenza al ceto medio (il rock, si sa, è anche questione di classe, e il di poco antecedente C86 ne aveva già pagato il conto), il genere è stato a lungo frainteso come l’anti-punk, tutto suono (sbiadito e introspettivo) e nessun messaggio.
Tra i gruppi del periodo “classico” dello shoegaze (più o meno tra il 1988 e il 1993), gli Slowdive sono quelli che hanno più sofferto il ruolo di archetipo, e dunque di perfetto capro espiatorio, di un movimento bollato come “senza volto” e “autoindulgente”: se nessuno mette in discussione che l’avvento del grunge prima, e del britpop poi, abbia vinto per K.O. l’assalto alle onde radiofoniche, è stata la stessa incapacità della critica e del pubblico di leggere l’ecletticità delle diverse traiettorie degli shoegazers che ne ha segnato il declino. A conti fatti, la pubblicazione di “Loveless” dei My Bloody Valentine nel 1991 e la sua consacrazione come disco definitivo ha reso apparentemente irrilevante tutto il resto, la favoleggiata bancarotta della Creation per il conto da un quarto di milione di sterline delle registrazioni dell’album è stato l’assist ideale per liquidare gli Slowdive come “i My Bloody Valentine che la Creation si può permettere”. […]

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