SPACEMEN 3
SPACEMEN 3
di Stefano I. Bianchi

ALLA SCOPERTA DELLO SPAZIO INTERIORE
Pochi gruppi incarnano, in questi anni, l’idea di band di culto quanto gli Spacemen 3. Sottovalutata in vita, ampiamente riscoperta post mortem e conseguentemente trasformata in vera e propria fonte d’ispirazione per decine e decine di band sparse per il pianeta, la formazione inglese precorse quasi tutti i trend sotterranei che avrebbero attraversato il rock più vitale degli anni Novanta. Seppe inventare un nuovo concetto di psichedelia ottundente e reiterativa sulla quale molti hanno costruito e costruiscono piccole fortune (dai Flying Saucer Attack ai Bardo Pond alla famiglia Kranky), recuperò, in epoca non sospetta, monumenti alternativi come i Red Crayola, intuì il ritorno del kraut rock, immaginò i percorsi di certo isolazionismo e coniugò ricerca colta con musica delle radici come a nessun altro era riuscito, prima e dopo. La considerazione e il rispetto di cui godono ancora ai giorni nostri - paradossalmente soprattutto negli USA, cosa che ne fa una delle band inglesi più amate di sempre nell’underground di quel paese - è praticamente sconfinata e trova un unico possibile rivale, in quanto a ‘reverenza’, solo negli Slint. Per tutto questo - e molto altro - possiamo dire con tranquillità che gli Spacemen 3 sono stati una delle band più importanti e influenti di tutta la storia del rock.
E dire che in fondo incisero, in vita, solo quattro album e una manciata di singoli. La misura della loro importanza ve la potrebbe dare però la lunga teoria di pubblicazioni postume che ogni paio d’anni le diverse etichette si sono impegnate a diffondere tra live, ripescaggi, inediti e ristampe (date un’occhiata alla discografia).
     I tre astronauti responsabili della navicella erano in realtà solo due: Pete “Sonic Boom” Kember e Jason “Spaceman” Pierce. Il terzo posto, oltre che diversamente occupato da più d’uno negli anni, ha sempre contato ben poco nell’economia sonora della sigla. L’unico che vale la pena di ricordare è Pete “Bassman” Bain, il più longevo e rilevante dal punto di vista compositivo.
     La band esordì discograficamente nell’86, immediatamente inserita dalla critica nella pletora di gruppi che si rifacevano al bruto noise tenuto a battesimo poco prima dai Jesus & Mary Chain. Rispetto a quelli però gli Spacemen ebbero almeno un paio di intuizioni che ne allargavano fortemente lo spettro musicale, riscattandoli da quell’angustia di orizzonti che avrebbe condotto rapidamente i fratelli Reid nel cul de sac compositivo che sappiamo: la lentezza del feedback e la sua seguente dissoluzione in trame armoniche ambientali tanto sottili da diventare infine veramente estatiche e liberatorie. In seguito, poi, le esperienze dei due Spacemen - partiti dai canoni classici del rock - sono approdate talvolta a sperimentazioni molto vicine all’avanguardia ‘colta’.
     La complessità testuale dei pezzi che hanno inciso, sia nella band madre che nei progetti successivi, non ha probabilmente paragone negli ultimi venti anni. Le moltissime cover, le continue citazioni di brani che appartengono alla memoria del rock - spesso inglobate nei propri pezzi - e i mood dichiaratamente rubati alle diverse band a cui di volta in volta hanno fatto riferimento, rendono il suono di Sonic Boom e Jason Pierce un punto d’incontro dove cozzano e trovano terreno comune buona parte delle migliori esperienze che il rock abbia mai offerto: tra le pieghe dei loro dischi troverete cover ed omaggi a Velvet Underground, Stooges, Silver Apples, Troggs, Thirteen Floor Elevators, Bo Diddley, J.J. Cale, Mudhoney, Sun Ra, Doc Pomus, Suicide, Nitty Gritty Dirt Band, Beat Happening, Daniel Johnston, Jan & Dean, Jimi Hendrix e Laurie Anderson, oltre a traditional blues e country, tutto frullato e reso con immenso amore e sincera devozione, peraltro sempre ammessi.
Se poi a tutto questo aggiungiamo la continua ripresa e revisione che i due hanno attuato sui loro stessi pezzi spesso stravolgendoli completamente, la serie infinitissima di più o meno dotati cloni che hanno partorito e continuano a partorire in ogni dove, e completiamo poi il quadro con la messe di ristampe, bootleg, collaborazioni incrociate che hanno caratterizzato la loro storia, ci accorgiamo che siamo di fronte a una band di dimensioni assolutamente rilevanti per l’intera storia del rock.

SOUND OF CONFUSION (****)
     Formati a Rugby nel 1982 dai soli Pete e Jason, gli Spacemen si guadagnarono immediatamente fama di band stonata oltre ogni limite, capace di concerti di impressionante violenza sonora, carichi di feedback e solitamente allungati ben oltre la media dell’epoca (in Inghilterra si masticavano dark, synthpop e hardcore punk), esibizioni che, nei ricordi di chi le ha viste, sono restate memorabili. I due però stentarono non poco a trovare un’etichetta disposta a stamparli - troppo desueto e pesante il materiale prodotto, troppo poco cool, per i tempi, l’impatto scenico -, tanto che fu solo nel giugno dell’86 che vide la luce il primo album, Sound Of Confusion, pubblicato, ancora fuori da ogni logica, senza alcun singolo a spianarne la strada.
     Oltre a Jason Pierce e Pete Kember (che non usa ancora lo pseudonimo di Sonic Boom ma è indicato come Peter Gunn) della band fanno parte il bassista Pete ‘Bassman’ Bain e il batterista Natty Brooker. Visto che quella era l’epoca in cui più di ogni altro faceva sensazione il pop-rock distorto ai limiti dell’udibile dei Jesus & Mary Chain, l’album degli Spacemen 3, che in origine doveva intitolarsi Taking Drugs (titolo poi ripreso nella pubblicazione postuma dei primi demo), venne immediatamente bollato come poco più che epigonico rispetto alla band dei fratelli Reid, riconoscendogli delle rituali bontà ma niente di più. In verità il punto di contatto con i Mary Chain stava esclusivamente nell’uso della distorsione chitarristica; l’atmosfera drogata e monocromatica del canto e la reiterazione delle parti di chitarra sull’effettistica del feedback più che su stratificazioni di rumore erano invece una completa novità, almeno per i tempi. Era come se di una stessa medaglia - il feedback - i Jesus & Mary Chain dessero un’interpretazione perfettamente discendente dal pop mentre gli Spacemen 3 ne introducevano i canoni più intimamente dentro il rock, ricollegandosi idealmente al garage degli anni Sessanta come al krautrock tedesco.
     Riascoltato oggi, l’album appare naturalmente molto meno estremo di quanto ci sembrò allora; il noise e le catatoniche evoluzioni della psichedelia successiva hanno spostato l’ago delle distorsioni molto in avanti e quello che può restare all’ascoltatore odierno è ‘semplicemente’ una raccolta di bellissime canzoni, dalla classica Losing touch with my mind a Hey man, dal blues 2:35 a quel tripudio di distorsioni che è O.D. catastrophe, dalla cover di Rollercoaster dei Thirteen Floor Elevators a quelle di Mary Anne (veramente splendida, nel repertorio dei Juicy Lucy col titolo originale di Just one time) e Little Doll degli Stooges, tutte riproposte secondo una cifra stilistica già solida e personale.
Nel novembre dell’86 uscì il primo 12” del gruppo, Walkin’ with Jesus, che conteneva tre brani. Walkin’ with Jesus (sound of confusion) era un curioso rock’n’roll che accostava al ritmo vivace uno stranito cantato al ralenti; la lunga versione live di Rollercoaster psichedelizzava oltremodo l’originale e lasciava intravedere bene quello che sarebbe stato il futuro svolgimento della loro musica (ad esempio nella chitarra pulita e minimale che esce dal frastuono sullo sfondo), poi meglio esemplificato dalla delicata nenia alla Velvet Underground che chiude l’EP (Feel so good). Con questo singolo si chiude la prima parte dell’avventura degli Spacemen 3, quella più legata al feedback e alle ‘radici’ del rock.

THE PERFECT PRESCRIPTION (*****)
     A partire dal seguente EP, pubblicato nel luglio dell’87 e chiamato Transparent Radiation, le coordinate sonore cambiano infatti radicalmente. Il garage degli inizi scompare definitivamente - lo ritroveremo solo in episodi saltuari - per lasciar spazio ad una psichedelia soffice e dilatata che mette d’accordo rock e sperimentazione colta, affondando le radici sia nel minimalismo storico (poche note reiterate e ripercorse come in un labirinto caleidoscopico) che nella tradizione consolidata che fa capo ai Velvet Underground, per non dire naturalmente del rock cosmico tedesco, in questo caso soprattutto quello dei Faust, la cui storica Krautrock fornisce la base essenziale da cui partirà tutta la seconda fase della loro avventura. Anche quando farà capolino l’abituale muro chitarristico la parola di riferimento sarà ‘noise’ piuttosto che garage: un ronzio ininterrotto che si definisce come trance piuttosto che attacco frontale.
     Da ora in avanti le esecuzioni stesse cominciano a confondersi in una nebbia eroinomane almeno quanto i musicisti stessi, tossici dichiarati: le riprese, gli allungamenti e le alternate versions dei pezzi si sprecano e diventa impossibile citare ogni come, dove e quando. Se poi consideriamo che le recenti ristampe dei loro album - fatte a più riprese e da diverse etichette - aggiungono sempre brani inediti rispetto agli originali e per giunta sempre in modi differenti, capirete che ogni tentazione catalografica dovrà lasciar spazio ad una più umana definizione di stile.
     E’ questo infatti che interessa. Le seguenti uscite, l’EP Transparent Radiation (EP solo per modo di dire: sebbene i pezzi siano solo 5, il minutaggio indica ben 38 minuti) e il secondo album The Perfect Prescription (che seguì a distanza di un mese) fanno corpo unico e segnano l’inizio di uno starordinario periodo di creatività.
     I due lavori presentano anche il primo avvicendamento nella formazione, con Stewart ‘Rosco’ Roswell che subentra alla batteria al posto di Natty Brooker. Compaiono anche i primi ospiti ufficiali: Al Green al sax, Mick Manning alla tromba e Owen John al violino. E’ proprio quest’ultimo che regala straordinari e incorporei arrangiamenti alla lunghissima cover di Transparent radiation dei Red Crayola e alla collegata Ecstasy symphony, uno dei primi esperimenti a potersi definire ‘ambient-isolazionisti’ tra i molti che di lì a poco sarebbero stati indagati in terra d’Albione. Poi la bella ripresa di Walking with Jesus, purgata delle distorsioni e rimessa in vendita in veste country psichedelica, l’omaggio a Lou Reed di Ode to Street Hassle (basata sullo stesso accordo della celebre suite), il nuovo arrangiamento di Feel so good - con una stupenda parte di tromba - e i due blues finali Come down easy e Call the doctor. Sul versante ‘feedback’ fanno bella mostra di sé Take me to the other side (immaginate le pennate degli Who rivisitate nel loro stile), Things’ll never be the same e l’incredibile cover di Starship degli MC5 (basata su una composizione di Sun Ra). Praticamente tutto il noise psichedelico degli anni seguenti è già qui per intero.
     Nel novembre dello stesso anno arrivò il terzo dei singoli Glass, Take me to the other side, in cui uno dei due inediti mostra l’ennesima faccia delle loro ispirazioni: il soul (Soul 1), che Jason Pierce avrebbe poi ampiamente sviluppato nei successivi Spiritualized.

PLAYING WITH FIRE (*****)
     La notorietà della band si allarga (nasce anche un’effimera fanzine a loro dedicata, The Outer Limits) e con essa i problemi di droga del gruppo, mai nascosti ma non per questo meno difficili da gestire. La band si prende un periodo di pausa e sfrutta l’improvviso successo pubblicando un album live nel luglio dell’88.
     Performance, registrato ad Amsterdam l’8 febbraio dello stesso anno, propone la faccia più rocciosa della loro musica (cosa che resterà abitudinaria dal vivo, dove raramente si abbandoneranno alle dilatazioni proposte in studio), e quindi i pezzi straripano di feedback e distorsioni. Menzione speciale per l’ennesima cover aggiunta al loro repertorio, Come together degli MC5.
     Preceduto nel novembre ‘88 dal singolo Revolution, il terzo album in studio, Playing With Fire, esce nel febbraio dell’89 e presenta importanti cambiamenti negli equilibri interni del gruppo. Oltre a Bassman (che se n’è andato lasciando il posto a Will Carruthers) e a Rosco (che suona con loro per l’ultima volta comparendo nei credits ma non nella line up) che se ne vanno, c’è da notare che i pezzi stavolta portano ora la firma di Kember ora quella di Pierce, e solo in un caso quella comune; qualcosa si stava evidentemente incrinando. La copertina riprende il logo della compagnia di management degli MC5, TransLove Energies. L’album raggiunge il primo posto nelle classifiche indipendenti inglesi.
     Le cover proposte - ambedue sul singolo Revolution e non nell’album - stavolta sono dei Suicide (un’irriconoscibile Che) e nientemeno che della Nitty Gritty Dirt Band (May the circle be unbroken, un traditional reso famoso dalla versione che ne dette quel gruppo, qui in veste fin troppo rispettosa). Per il resto, l’album è interamente farina del loro sacco ed è probabilmente l’apice della loro carriera.
In assenza quasi totale di batteria ma con l’aggiunta di tastiere misuratissime, i brani si susseguono in una sorta di sottile e mistica trance, galleggianti in un’atmosfera crepuscolare e quieta a dispetto - o magari proprio per questo - del dramma interiore che consuma i due leader. Honey, le splendide Come down softly to my soul e So hot parlano ormai la lingua di classici assoluti del rock, così come quella preghiera soul chiamata Lord can you hear me?, supplica a un dio introvabile se mai ce n’è stata una (“Dio, puoi sentirmi quando ti chiamo?”). Minimalismo, Velvet Underground, Suicide e psichedelia convivono in un miscuglio che diventa infine del tutto originale e rappresenterà il futuro punto di partenza per una miriade di band oggi spesso definite ‘ambient-isolazioniste’, come accade per i movimenti circolari di How does it feel?, all’epoca assolutamente inediti in ambito rock.
Unici episodi dissonanti sul resto sono Revolution (forse il capolavoro della loro intera carriera, una dilatazione a ritmo country’n’roll sfregiata da distorsioni chitarristiche e da un recitato velvettiano come non mai) e Suicide, strumentale space guidato da tastiere ottundenti. Se dovete iniziare la vostra ricognizione nel loro mondo, iniziate senz’altro da qui.

RECURRING (***)
     Ancora un singolo (Hypnotized) al n. 1 delle charts inglesi ed è la volta dell’ultimo album della loro storia, Recurring, uscito nel marzo del ‘90. Oltre a Sonic, Jason e Will Carruthers, nel disco suonano il chitarrista Mark Refoy e il batterista Jon Mattock, oltre agli ospiti Pat Fish (Jazz Butcher) e Al Green al sassofono, John Owen al violino e Richard Formby alla chitarra.
     Recurring mostra chiaramente la cesura che si era ormai definitivamente consumata tra Sonic Boom e Jason. Le due facciate sono infatti composte per metà dal primo e per metà dal secondo, e così le registrazioni, effettuate in studi differenti sebbene con lo stesso gruppo di musicisti. Nonostante questo però non esistono grosse differenze tra le due parti. La prima - di Sonic Boom - espone magari una verve pop mai così forte; fa bella mostra di sé anche una batteria elettronica, che trasforma quelle impalpabili melodie in curiosi esperimenti elettro-ambientientali. Big City e I love you, ad esempio, diventano dei ballabili soffici e lievi, a tratti attraversati da tastiere parasinfoniche ma sempre costruiti con assoluta semplicità. Tutto è immerso in una quiete irreale ed evocatrice (come nella fiabesca parentesi Just to see you smile) e anche quando si intuirebbe il vecchio andamento rock (ad esempio in Set me free) scopriamo che gli arrangiamenti zuccherano e assorbono ogni latente credudezza.
     La facciata di Jason - nel complesso più riuscita della precedente - è percorsa da un afflato quasi mistico ed è ancora più impalpabile, spesso in linea con quanto sarebbe stata poi la sua carriera futura (che avrebbe amplificato oltremodo le stesse linee melodiche e strutturali), vedi l’enfasi un po’ pomposa di Hypnotized, la psichedelia di Sometimes, l’ottimo blues Billy whizz/blue 1 e le diradazioni estatiche di Feelin’ just fine. Da notare, nella versione CD, la presenza della cover di When tomorrow hits dei Mudhoney (in verità né carne né pesce) e di tre inediti di buon livello.

DREAMWEAPON (****)
     Nel corso dello stesso ‘90 esce anche il CD Dreamweapon: An Evening of Contemporay Sitar Music, contenente tre lunghissimi brani realizzati dai due leader con la partecipazione di Steve Evans alla terza chitarra, Will Carruthers al basso e senza ombra di batteria. Registrato tra l’87 e l’88 e in parte già uscito in un flexi dell’epoca, Dreamweapon è certamente l’episodio più estremo realizzato dalla band e insieme il più coraggioso e preveggente. Già il titolo (che proviene da un progetto multimediale del giro newyorkese pre-Velvet Underground chiamato The Launching Of The Dream Weapon, realizzato nel 1965) dichiara l’intenzione psichedelica dell’operazione: i tre pezzi sono fascinose escogitazioni prevalentemente chitarristiche, estremamante dilatate sia per il minutaggio (quasi 70 minuti complessivi) che per la dimensione oniricolisergica che ne costituisce i presupposti e ne qualifica il risultato finale.
     Presumibilmente fatti come cavalli, i tre (coadiuvati dall’essenziale Pat Fish in sede di ‘rollaggio canne’, come puntualmente riportano i credits dei musicisti: si vede che è uno strumento anche quello) si dilungano su poche note reiterandole con sprezzo della noia e insieme insperata varietà di accenti, citando di tanto in tanto parti del loro repertorio e lasciando tremolare delicatamente gli strumenti, che fluttuano - sul serio - quasi in assenza di spazio. Il primo brano (titolato proprio An evening of contemporary sitar music), infatti, non è altro che un’ininterrotta variazione sul tema di Honey, mentre Ecstasy in slow motion, eseguita dal solo Sonic, è costruita solo attorno a soffi di ‘noise cosmico’ e lo splendido duetto titolato la Spacemen jam intona un accorato, malinconico e minimalissimo blues.
     Preludio all’esperienza E.A.R. di Sonic Boom, prolungamento e amplificazione di quanto già facevano gli Spacemen, omaggio definitivo alla cultura psycho-junkie di cui erano devoti sostenitori, Dreamweapon è episodio essenziale e nodale di tutta la loro vicenda. Assaporatelo tranquillamente e considerate la sua uscita nient’altro che un atto d’amore.

IL CULTO
     Magari un atto d’amore sui generis nei confronti del gruppo, visto che Dreamweapon sembra proprio esser la prima delle ‘speculazioni’ discografiche - beninteso, quasi sempre ottime per intenti e materiale proposto - che mirarono a ripescare il loro materiale d’archivio all’alba dello scioglimento.
Il sodalizio tra Pete e Jason si ruppe infatti definitivamente proprio nel 1990, addirittura prima della pubblicazione di Recurring, portandosi dietro uno strascico di litigi e rancori che ancora oggi non sono sopiti. Da lì in avanti è stato un fiorire di ristampe, live, inediti e recuperi di nastri perduti che non ha conosciuto sosta. Il culto vero e proprio però, come già detto, si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti, dove non si contano più le band che si rifanno al loro suono, anzi non solo e semplicemente al loro suono ma alla struttura stessa delle loro composizioni, fino ad arrivare a una miriade di personaggi che appaiono poco più che plagi, a dire il vero quasi sempre mal riusciti. Districarsi tra i molti album arrivati post mortem quindi è impresa non facile. Vi segnaleremo pertanto solo quelli che rivestono una certa importanza nello svolgimento della loro vicenda artistica.
     Per primo - anche se non in senso cronologico di uscita - l’illuminante For All The Fucked-Up Children Of This World, We Give You Spacemen 3, vale a dire la trasposizione del primissimo demotape registrato da Jason, Sonic Boom (qui The Mainliner) e Natty Brooker nel 1984. Illuminante, perché si capisce bene da dove arrivasse il gruppo: in due parole, il blues.
     Che la band amasse la musica nera non era un mistero neppure ascoltando le uscite ufficiali, all’interno delle quali era sempre possibile rintracciare non solo fascinazioni - e pezzi interi - chiaramente blues ma anche, con l’andare del tempo, rarefatte e trasfigurate interpretazioni soul e gospel, peraltro successivo trip sia degli Spiritualized che - più parzialmente - di Sonic Boom. Sentire il gruppo alle prime armi è però un’esperienza quasi commovente. Ci sono già alcuni loro classici futuri (Things’ll never be the same, Walking with Jesus, 2:35) ma in veste grezzissima e molto diversa dalle versioni definitive, qui ancora tutte impastate e pregne di blues. Oh, intendiamoci: blues scheletrico e spettrale, senza assolo e ammenicoli, spoglio, minimale e con poco feedback. Ci sono anche la classica Fixin’ to die sulle cui basi avrebbero costruito Hey man e una T.V. catastrophe (poi O.D. catastrophe) a lasciar intendere che è sui decibel e sulle distorsioni che la band avrebbe poi fatto le prime scommesse. Un disco consigliato? Certamente, ma solo dopo che avrete fatto vostri tutti gli altri, o almeno i primi tre. L’amore arriverà poi, e vi costringerà a capire meglio ritornando alle origini.
     Anche Taking Drugs To Make Music To Take Drugs To è un’altra ottima uscita. Si tratta di una serie di demo registrati a Northampton nel gennaio dell’86, con parecchie curiosità dentro. Tutti i pezzi sono in pratica versioni originali di brani poi apparsi a diverse riprese su album o singolo. Le cose più interessanti sono una Walkin’ with Jesus - qui col titolo originale di Sound of confusion, visto che doveva essere inserita nel primo album - indubbiamente più brillante e scattante delle due poi pubblicate, una Amen - poi diventata Hey man - che non nasconde più le basi rubate dal classico blues Fixin’ to die, una lunga e veramente splendida versione di That’s just fine completa di tutta la parte vocale (la versione strumentale era comparsa sul retro del singolo Take me to the other side) e infine l’inedita cover di It’s alright di Bo Diddley, poi ripresa da Sonic Boom durante la carriera solista. La pubblicazione originale di Taking Drugs data 1990; la versione in CD pubblicata nel 1994 dalla Bomp! è, oltre che l’unica reperibile oggi, ampiamente preferibile perché contiene diversi altri brani tratti da session seguenti.
     Il live Spacemen Are Go!, registrato in Germania nell’89 e pubblicato solo nel 1995 mi sembra ancora una volta imprescindibile. Le versioni dei pezzi sono spesso ottime, ad esempio quelle di Mary Anne, 2:35, Revolution, Starship (che parte con un gustoso accenno di Third stone from the sun di Jimi Hendrix) e Suicide, vero e proprio sabba infernale. Alcune sono vere chicche (Lord can you hear me e I believe it, raramente proposte in concerto) e c’è anche un breve inedito, la strumentale Bo Diddley jam. Questo è certamente il migliore (anche rispetto a Performance), tra i tanti live legali e illegali che circolano oggi, se non altro perché mette in luce ogni diversa sfaccettatura della loro musica.


SPACEMEN 3
Singoli / EP
Walkin’ with Jesus (Sound of confusion) / Rollercoaster / Feel so good (1st version) (12”, Glass - nov.1986) (nelle prime 1250 copie erano inclusi i testi)
Transparent radiation / Ecstasy symphony / Transparent radiation (Flashback) / Things’ll never be the same / Starship (12” EP, Glass - lug.1987)
Take me to the other side / Soul 1 / That’s just fine (12”, Glass - nov.1987)
Extract from An evening of contemporary sitar music (flexi 7”, Cheree - ago.1988) (contiene anche due pezzi di Bark Psychosis e Fury Things)
Revolution / Che (7”, Fire - nov.1988)
Revolution / Che / May the circle be unbroken (12”, Fire - nov.1988) (rist. Fire 1991)
Sometimes (flexi 7” allegato alla rivista Catalogue, feb.1989)
Hypnotized / Just to see you smile (Honey pt.2) / The world is dying (7” con allegato un poster in ed. lim., Fire - lug.1989) (rist. Fire 1991)
Transparent radiation (demo) / Honey (demo) (7” regalato a chi si abbonava a Forced Exposure nell’89)
When Tomorrow Hits / Revolution (7”, Sniffin’ Rock) (bootleg; nel retro ci sono i Mudhoney che coverizzano Revolution)
Big city (edit) / Drive (7”, Fire - gen.1991)
Big city (Everybody I know can be found here) / Big city (Waves of joy Demo / Drive (Demo) (12”, Fire - gen.1991)
Big city (remix) / I love you (remix) (12”, Fire - gen.1991) (12” promo stampato in 50 copie, Fire - Gen. 1991)
Take Me To The Other Side (Demo) / Set me free (Spectrum version) / I love you (Remix) (7", Moroccan Mayhem Records 1995) (bootleg)
Come Down Easy (demo) / Transparent Radiation (demo) (7", 1995) (bootleg)
Forged Prescription (10”, Bomp 1995) (contiene materiale inciso dal vivo)

Albums
Sound Of Confusion (LP/Cassetta, Glass - giu.1986) (rist. LP/Cassetta/CD Fire 1989, LP/CD Genius e CD Taang! 1995)
The Perfect Prescription (LP/Cassetta, Glass - ago.1987) (rist. Fire 1989,  Genius 1991 con aggiunte Rollercoaster e Starship e Taang! 1996)
Performance (live) (LP/CD, Glass - lug.1988) (rist. Fire 1989, Genius 1991 e Taang! 1996)
Playing With Fire (LP/Cassetta/CD, Fire/Bomp!/Walkabout - feb.1989) (le prime 2.000 copie contenevano una cartolina per ordinare per posta l’EP live Threebie 3, che conteneva: Starship, Revolution, Suicide, Repeater e Live into theme (Xtacy) (l’edizione CD contiene due pezzi in più: Suicide (live) e Repeater) (rist. 2x10”/CD, Taang! 1994)
Recurring (Fire - mar.1990) (la versione CD contiene cinque pezzi in più registrati dal vivo: When tomorrow hits, Why couldn’t I see, Just to see you smile (instrum.), Feel so sad (demo) e Drive) (rist. Dedicated/RCA 1991, con pezzi differenti)
Dreamweapon (Fierce - 1990) (la versione LP contiene il 7” An Evening of contemporary sitar music e la registrazione capovolta (!) di Ecstasy (in slow motion) che suona dal centro del disco verso l’esterno) (la versione CD contiene tutta intera An evening of contemporary sitar music, Ecstasy in slow motion e l’inedita Spacemen Jam) (rist. Sympathy 1993 e Space Age 1996)
Taking Drugs To Make Music To Take Drugs To (CD, uscito originariamente come bootleg con etichetta Father Yod nel ‘90 e ufficializzato con rist. Bomp 1994, raccoglie dei demo che risalgno all’86)
Losing Touch With Your Mind (live, DLM/Outer Limits 1991) (bootleg)
Walkin' With Jesus/Transparent Radiation (CD, Oblivious Participant Production 1993) (bootleg che raccoglie i primi due 12”)
Spacemen Are Go! - Live in Europe 1989 (CD, Bomp/Space Age 1995) (l’edizione Bomp! s’intitola Spacemen Are Go!, quella Space Age Live In Europe 1989, ma si tratta dello stesso album)
For All The Fucked-Up Childern Of This World We Give You Spacemen 3 : First Ever Recording Session, 1984 (CD, Sympathy 1995) (raccoglie i primi demo registrati dagli Spacemen nel 1984)
Transparent Flashbacks - The Singles (CD, Fire/Taang 1995) (raccoglie i primi tre EP su Glass) (l’edizione Fire s’intitola Transparent Flashbacks, quella Taang! The Singles, ma si tratta dello stesso album)
Revolution Or Heroin (live 1986) (CD, Fierce Records 1995) (bootleg)

Pezzi su Compilations:
Take Me To The Other Side (demo), su un 7" inciso in solo lato incluso in The Munster Dance Hall Favourites Volume 1, allegato alla fanzine spagnola La Herencia de los Munster (Munster Records 1987)
2:35 su 50,000 Glass Fans Can’t Be Wrong (Glass 1987)
My Cheree Amour (Cheree 1989)
Shelter Compilation (Shelter 1989)
Big City (Hypnobeat) su Dance Hall Favorites Vol.3 (Munster 1990)
15 Flaming Groovies (Fire 1991)
Destination: Bomp! (Bomp! 1994)
A Taste Of... Vol.1 (3rd Stone 1995)
X.Tacy (Live intro theme) / Transparent radiation (demo) / Repeater (demo) , su The New Atlantis (Space Age 1996)

Video:
Revolution + Hypnotized + Big City

Nota: nella discografia abbiamo incluso anche alcuni dei molti bootleg pubblicati negli ultimi anni, un po’ perché quelli segnalati sono circolati quasi come album normali e sono ancora piuttosto facili da rintracciare, un po’ perché complessivamente buoni o più che buoni. Segnalarli tutti era impossibile, anche perché ne stanno uscendo e presumibilmente ne usciranno ancora parecchi.


[pubblicato su Blow Up #3, Novembre-Dicembre 1997]
© Tuttle Edizioni 2008

Tag: SPACEMEN 3
©2024 Blow Up magazine all rights reserved
TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000