Stiv Bators
Stiv Bators
di Federico Guglielmi

DA QUANDO Stiv Bators ci ha lasciati è passato molto tempo, oltre trentadue anni. Il 3 giugno 1990 venne investito da un taxi nella Parigi in cui viveva già da un po’ assieme alla compagna Caroline Warren, ma dato che l’incidente sembrava non aver causato danni seri, il musicista americano ritenne superfluo recarsi in ospedale e rientrò a casa. Morì nella notte a causa di un’emorragia interna: un addio paradossale per un artista che aveva sempre vissuto in modo spericolato e non solo sui quei palchi che gli avevano fatto guadagnare la fama di potenziale erede di Iggy Pop, al quale era certo affine per struttura fisica e comportamenti. La qualifica di erede viene però di norma attribuita a epigoni sensibilmente più giovani, mentre in questo caso lo scarto di età tra il maestro e quello che non è comunque improprio considerare l’allievo era irrisoria: appena due anni e mezzo separavano l’ex Stooges dall’uomo nato il 22 ottobre 1949 a Youngstown, Ohio, iscritto all’anagrafe come Steven John Bator. L’errata percezione, che tuttora rimane viva, si spiega con facilità: Iggy aveva debuttato “ufficialmente” con la sua band nei (tardi) Sixties a ventidue anni, contro i ventotto compiuti da Stiv all’epoca di un esordio su disco giunto già nella seconda metà dei Seventies. Quanto basta, insomma, per credere che i due appartenessero a generazioni differenti mentre in pratica erano coetanei.
Al di là delle attitudini innate, va da sé che Bators aveva subito l’influenza degli Stooges e del suo frontman, assieme a quelle di Rolling Stones, Sonics, Alice Cooper e di tanti altri; influenze sviluppate dai primi anni ’70 in un gruppo chiamato Mother Goose, dedito a un r’n’r piuttosto fuori dalle righe nel quale il Nostro liberava la sua natura ribelle e selvaggia - ovvia conseguenza della frequentazione della scuola cattolica - con canto, testi e atti piuttosto oltraggiosi. Di questa pur duratura vicenda non esiste documentazione in vinile o CD, proprio come non ce n’è della successiva, più breve avventura - di orientamento filo-glam - dei Rockin’ Tomatoes. Alla continua ricerca di qualcosa di importante, l’irrequieto Stiv lasciò quindi Youngstown a favore di Cleveland, dove strinse amicizia con i membri di un ensemble molto singolare che aveva da poco stabilizzato la line-up con David Thomas alla voce, Peter Laughner e Gene O’Connor alle chitarre, Craig Bell al basso e John Madansky alla batteria. I cinque, che operavano come Rocket From The Tombs, cercarono di trovare spazio a Bators nel ruolo di (secondo) cantante, ma durante il processo tra i fondatori emersero divergenze sulla linea stilistica che sfociarono nella separazione: Thomas e Laughner diedero vita ai Pere Ubu, Bell si trasferì in Connecticut e O’Connor e Madansky - poi ribattezzatisi Cheetah Chrome e Johnny Blitz - misero su i Frankenstein, completati dal bassista Jeff Halmagy (Jeff Magnum), dal chitarrista William James Wilden (Jimmy Zero) e naturalmente da Bators. […]

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