Sulla fine del mondo
Sulla fine del mondo
di Maurizio Bianchini

TEMO CHE i nomi di Cipriano, Orosio, Zosimo, Porfirio o Claudiano dicano poco al lettore. È un peccato, perché hanno avuto un ruolo importante nella creazione di uno dei topoi più importanti e duraturi della storia occidentale (o dovremmo dire universale, ormai?): la decadenza e la fine dell’impero romano.
L’idea che il mondo in cui viviamo debba un giorno finire ha una storia lunga, che affonda nei precordi dell’immaginario collettivo. I testi più antichi la frequentano già, per prime le Scritture, col racconto di una fine esemplare come la cacciata dal Paradiso Terrestre dei nostri progenitori e l’esilio del genere umano sulla terra – che da allora nes-suna generazione si è mai spogliata del privilegio di considerare come il peggior posto possibile, e la sua fine come un castigo ineluttabile. Il corpo umano, da parte sua, col ciclo vitale di infanzia, maturità, vecchiaia e morte, ha fornito una perfetta allegoria del destino che incombe sui quegli organismi più grandi, composti da grandi masse di esseri umani, che sono gli stati – soprattutto quelli che finiscono per determinare il corso della storia, diventando oggetto di ‘narrazioni’ epiche – e soprattutto la più longeva di esse, quella di Roma e del suo impero, non a caso fra le più studiate nelle facoltà umanistiche americane (l’America si sente erede dell’Urbe, non della Gran Britannia). Tre libri, assai diversi fra loro, ci consentono di fare scoperte interessanti, in questo tempo che pure, sulla ‘fine’, è tornato a interrogarsi.

Uscito nel lontano 1959, e regolarmente ristampato, a conferma dell’attualità della materia, La fine del mondo antico di Santo Mazzarino, punto di riferimento negli studi sulla tarda romanità (si ricordino solo L’impero romano, 1956, e il mo-numentale Pensiero storico classico, 1966), riassume i termini della vexata quaestio in una appassionante ricostruzione che da Lucrezio, Cicerone e, soprattutto, Polibio, primo a farne oggetto di analisi approfondita, arriva a Momigliano e Piga-niol. Mazzarino mette una sterminata erudizione e un passo erodoteo nello sforzo di capire meglio il presente al vaglio del passato e di rischiarare il passato con gli strumenti esegetici offerti dal presente. Senza arrivare ad un verdetto, reso impossibile dal numero troppo grande di ‘concause’ che determina la fine dell’impero e il passaggio traumatico al medio evo e all’Europa delle nationes (che per inciso appare a sua volta prossima al capolinea storico). Ma l’autore non si limita a discuterle ed elencarle: le ordina in una scala di valore. E se rinuncia a fare ‘filosofia della storia’, e poche cose vi si sa-rebbero prestate come il crollo del mondo romano, mappa però gli eventi, i passaggi, i cambiamenti, in sequenze significati-ve e a ognuna di esse – le sconfitte militari, i contrasti di classe, la ‘decadenza dei costumi antichi’ e l’affermazione del cristianesimo, il governo della moneta, il latifondo e i problemi del lavoro servile, il peso della fiscalità, la pressione dei barbari ad Est, le stesse dinastie imperiali – restituisce il suo ruolo. Ricorda i grandi storici del passato, in questa capacità di concertare i fatti e di non limitarsi a raccoglierli; nel lasciare il lettore con l’impressione di un ‘fluire della Storia’ in cui perfino le lacerazioni e le sofferenze sono come pacificate. Ma anche il lettore che non abbia così a cuore lo studio di Roma Antica, può trovarvi pane per i suoi denti, se appena smosso dalla curiosità: le lamentationes degli antichi sul loro tempo malato e morituro sono troppo affini a quelle dei moderni – commentatori, polemisti, avventurieri della politica e gente ‘presa dalla strada’ per sedere nello studio di programmi di ‘approfondimento’, che quotidianamente rovesciano sul nostro tempo, non messo del resto molto meglio. […]

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